Wiezniow Oswiecimia nr 20 è uno degli indirizzi del Male.
Ci puoi passare davanti ogni giorno, o vivere per anni dall’altro lato della strada e far finta di non vederlo. Sono tanti gli indirizzi del Male: alcuni abbandonati, altri dimenticati, molti ancora in piena attività. Questo lo trovi a 78 chilometri ad ovest di Cracovia, in fondo ad un viale alberato; subito dopo un ristorante che fa pizza a mezzogiorno.
Si può parcheggiare l’auto e camminare per poche centinaia di metri seguendo un marciapiede sconnesso, a ridosso d’una cancellata bianca un po’ scrostata. Al civico nr 20 trovi l’ingresso del Vernichtlunglager.

E’ mattina presto quando mi presento all’entrata. Mancano pochi giorni a Natale, fa molto freddo e l’aria gelida trattiene l’odore acre del carbone in un sentore da vecchia stazione. Da tempo volevo visitare Auschwitz e stavolta, terminata l’esercitazione al NATO Training Center, ne avevo l’opportunità. Mi ero mentalmente preparato all’emozione che di certo avrei provato nel passare sotto la scritta “Il lavoro rende liberi”, quella che trovi sui libri e che tutti conoscono e riconoscono. Invece no. L’impressione è forte ma l’emozione non c’è. Quel luogo, così ordinato e ben tenuto, mi appare familiare come per me lo sono tutte le caserme. Il KL 1 del complesso concentrazionario Auschwitz-Birkenau presenta con precisione museale come e dove sono state inflitte la morte ed orribili sofferenze a migliaia di persone, ma mentre mi addentro nella fabbrica dell’inumano, le pietre ed i reticolati non mi parlano. Le forche ed i crematori tacciono. Sarà forse perché, a differenza degli uomini, i luoghi non hanno memoria.

Può quindi essere accaduto che piano piano, anno dopo anno, nel Vernichtlunglager nr 1 le emozioni si siano trasformate in racconto e poi ancora in altro. Sopraffatti prima dalla crudeltà di quei giorni e poi da quella degli anni, i rari testimoni si sono perduti ed il loro racconto si è trasformato; diluito nell’interpretazione; semplificato dalla ripetizione e infine quasi cancellato dal tempo. Alla fine quel che qui sopravvive è la liturgia. Un rito laico che ha per protagonisti Nazisti contro Ebrei, carnefici contro vittime, colpevoli contro innocenti e che parla per grandi numeri, per categorie: un milione i morti, forse un milione e mezzo; meno di diecimila i sopravvissuti; migliaia i convogli; centinaia le uccisioni ogni giorno. Non amo i numeri e non amo le liturgie e continuo ad addentrarmi nel labirinto ancora muto. Entro nei blocchi dove lungo i corridoi, dalle pareti, centinaia di ritratti mi osservano. Hanno volti quasi identici: identica la magrezza; identica la rasatura del cranio ed il pigiama a righe.

Simili gli occhi sgranati. Tutti avevano avuto un nome. La prova che anche in questo luogo di non-vita, si era esistiti. Alcuni l’avevano mantenuto ma per altri: ebrei, zingari, malati mentali, prigionieri di guerra russi e via, nessuno degli impiegati della fabbrica s’era presa la briga di registrarne il nome. Erano scomparsi nelle camere a gas e poi nei crematori come se non fossero mai esistiti. I più fortunati ora mi guardano dai muri. A bassa voce, nel mio accento italiano, pronuncio alcuni tra le migliaia e migliaia di nomi che sono evaporati e questo finalmente mi emoziona e mi rende partecipe di una parte infinitesima del loro sorpreso dolore. E’ vero che i luoghi non ricordano. Sono le persone che ricordano e quando smetteremo di ricordare saremo allora pronti per far rivivere di nuovo luoghi simili. Ancora non lo sappiamo e certo non lo vogliamo, ma c’è una seria possibilità che da qualche parte si stia già cercando un altro indirizzo per l’Aushwitz prossimo venturo.