
Ogni storia ha bisogno di un punto di inizio, del suo “c’era una volta”. Per raccontare questa si può iniziare dal 19 agosto 1991. A Mosca l’estate sta quasi finendo ma nessuno se ne accorge. Parte dell’Armata Rossa sta tentando un ultimo tentativo per impedire la dissoluzione dell’URSS e tornare ai bei tempi antichi. Il 23 agosto 1991 la popolazione moscovita scende in strada per opporsi alla sollevazione e i militari, davanti alla prospettiva di dover massacrare i propri concittadini, dopo qualche scaramuccia con la folla finiscono per tornare nelle caserme. L’URSS non c’è più. Negli stessi giorni a Kiev, in una riunione-fiume durata 11 ore il soviet supremo dell’Ucraina vota a favore dell’indipendenza: una decisione ratificata poco dopo da Leonid Kravčuk, guida del partito comunista ucraino. Il 1° dicembre un referendum dichiara che il 92,3% degli ucraini a favore della separazione dall’URSS. Dopo 72 anni l’Ucraina torna un Paese libero. Segnato dalla corruzione e dalla disorganizzazione il primo decennio d’indipendenza è comunque un periodo di crescita economica per l’Ucraina, che instaura buone relazioni con i suoi vicini e un trattato di cooperazione con l’Unione Europea. Siamo agli inizi del 2004 quando il risultato incerto delle elezioni tra il candidato filorusso Viktor Janukovyč e l’europeista Viktor Juščenko porta all’annullamento delle elezioni. Gli ucraini che sentono avvicinarsi di nuovo Mosca scendono in piazza per quella che verrà ricordata come la “rivoluzione arancione”, così chiamata per i cartelli e i vestiti che simboleggiavano l’opposizione a Janukovyč.
Si tengono nuove elezioni e questa volta a vincere è Juščenko. E’ questo il punto d’inizio del conflitto sempre più duro tra l’Ucraina e la Federazione russa dove nel frattempo è apparso un nuovo leader Vladymir Putin, molto meno disposto dei suoi predecessori a fare concessioni su quello che la Russia percepiva come la sua zona di interesse esclusivo. Malgrado tutte le promesse elettorali, nei sei anni in cui è al potere l’integrazione nell’Unione Europea non fa progressi, la popolarità di Juscenko sprofonda; Julija Tymošenko primo ministro e leader della rivoluzione arancione si dimette per presentarsi come candidata alle elezioni presidenziali del 2010, al il 25 febbraio 2010 Janukovyč vince le elezioni e cambia di nuovo tutto. Il partito europeista è battuto e l’Ucraina inizia a riavvicinarsi a Mosca. Nel 2011 Julija Tymošenko, ormai diventata leader dell’opposizione, viene arrestata con l’accusa di corruzione e abuso di potere. La condannano a sette anni e rimarrà in carcere per tutto il periodo in cui Janukovyč resterà presidente. E intanto siamo arrivati al 2013 quando Janukovyč rifiutando di rinnovare l’accordo con l’Unione Europea scatena la protesta prima giovanile e poi polare. La violenta reazione del governo e l’infiltrazione tra i manifestanti di gruppi nazionalisti e neonazisti fa degenerare la situazione in una vera e propria guerra urbana tra manifestanti e polizia, con parecchi morti da entrambe le parti.
Il 21 febbraio 2014 migliaia di manifestanti prendono d’assalto il parlamento e il ministero degli interni. Il giorno dopo i deputati dell’opposizione votano la sfiducia a Janukovyč obbligandolo all’esilio. La Tymošenko viene immediatamente liberata dal carcere e il Paese torna nelle mani di un governo europeista, guidato da Oleksandr Turčynov.
La reazione della Russia non si fa attendere. Al Cremlino circola una certa preoccupazione per la marginalizzazione delle aree russofone del Paese, inoltre l’avvicinamento all’Occidente dell’Ucraina poteva privare Putin di un valido alleato commerciale e ridurre i benefici di grande imprese petrolifere come Gazprom. Infine in Crimea, la base navale di Sebastopoli, già ceduta alla flotta russa da Janukovyč, correva il rischio di finire in mani ucraine. Il giorno prima delle dimissioni di Janukovyč, il presidente russo Putin ordina l’invasione della Crimea e si annette la penisola per decreto il 18 marzo dello stesso anno.
A Kiev il governo di Turčynov dura poco e a giugno 2014 viene eletto presidente l’imprenditore Petro Porošenko, il “re del cioccolato” per via d’essere il più grande produttore di dolciumi in Ucraina. Ma non è solo cioccolatini.
Porošenko possiede diversi stabilimenti che producono auto e atobus produttivi il cantiere Lenins’ka Kuznja, il canale televisivo Kanal 5 e la rivista Korrespondent e secondo la rivista Forbes sarebbe uno degli uomini più ricchi d’Ucraina con un patrimonio stimato attorno al miliardo di dollari.
Eccoci dunque alla primavera del 2014. A maggio nella regione del Donbass, al confine con la Russia, contro il parere dello stesso Putin, si tiene un referendum. Si chiede ai cittadini di votare a favore o contro l’autonomia (самостоятельность) delle province di Donetsk e Lugansk. Si badi bene; «autonomia» e «autodeterminazione» non «indipendenza» (незави имость). Le due repubbliche non cercano infatti di separarsi dall’Ucraina, ma solo di avere uno statuto di autonomia che garantisca loro l’uso della lingua russa come lingua ufficiale. E perché? Perché subito dopo il rovesciamento di Janukovyč, il primo atto legislativo del nuovo governo di Kiev era stato l’abolizione il 23 febbraio 2014, della legge Kivalov-Kolesnichenko che dal 2012 faceva del russo una delle lingue ufficiali nella repubblica ucraina. La cosa non era stata presa affatto bene dalla numerosa comunità russofona del paese che aveva subito reagito con proteste in molte città, ma soprattutto nelle regioni a prevalente lingua russa di Odessa, Dniepropetrovsk, Kharkov, Lugansk e Donetsk. La reazione di Kiev non è tenera, la polizia spara e arresta, anche con l’aiuto di formazioni paramilitari. Ad Odessa, il 2 maggio 2014, 48 persone muoiono nel rogo della Casa dei Sindacati appiccato da estremisti nazionalisti ucraini appartenenti al battaglione AZOV. Episodi analoghi si verificano a Mariupol e in altri villaggi e cittadine del Donbass. Alla fine dell’estate 2014 nelle province di Donetsk e Lugansk l’iniziale protesta si è trasformata in lotta armata assumendo caratteri propri della guerriglia, simili a quella condotta nel Sahel africano: operazioni mobili condotte con mezzi leggeri contro obiettivi isolati e statici. L’inaspettata efficacia dei ribelli ormai dichiaratamente separatisti pone l’esercito regolare di Kiev in serie difficoltà che accusa Mosca di supportare direttamente i ribelli. Tuttavia né i servizi di intelligence della NATO né quelli dell’OSCE riescono a produrre alcun dato certo. Solo i servizi polacchi continuano ad attribuire alla Russia la fornitura d’armi ai ribelli del Donbas.
Appare tuttavia sempre più evidente che i ribelli si sono armati grazie principalmente alle defezioni di reparti ucraini mandati a fronteggiarli. Mese dopo mese la guerriglia separatista si rafforza sempre più e con le periodiche sconfitte ucraine entrano a far parte dell’arsenale dei ribelli anche carri armati, artiglieria e sistemi contraerei. E’ questo ciò che spinge Kiev a impegnarsi per un accordo che ponga fine alla questione Donbass.
L’accordo per porre fine ai combattimenti nell’Ucraina orientale viene raggiunto a Minsk il 5 settembre 2014 sotto l’egida della Organizzazione per la Sicurezza e la Cooperazione in Europa (OSCE). E’ opera del Gruppo di Contatto Trilaterale sull’Ucraina, composto dai rappresentanti di Ucraina, Russia, Repubblica Popolare di Donesk e della Repubblica Popolare di Lugansk. Esso prevede il cessate-il-fuoco immediato, lo scambio dei prigionieri e l’impegno, da parte dell’Ucraina, di garantire maggiori poteri alle regioni di Doneck e Lugansk. Ancora nessuno parla di indipendenza. Tuttavia, subito dopo aver firmato il presidente Porochenko ci ripensa e lancia una vasta operazione antiterroristica (ATO/Антитерористична операція) contro il Donbass. Malgrado le speranze del presidente l’operazione si conclude con una dura sconfitta per Kiev in particolare nella zona di Debaltsevo. Nel febbraio 2015 vengono quindi sottoscritti nuovi gli accordi denominati “Minsk 2”. In tutti e due i testi sottoscritti nel settembre 2014 e nel febbraio 2015 non si parla mai di separazione, né di indipendenza delle repubbliche, ma della loro autonomia all’interno dello stato ucraino.
Lo statuto delle repubbliche doveva essere quindi negoziato nel dettaglio tra il governo di Kiev e i rappresentanti delle repubbliche. Insomma una soluzione interna all’Ucraina, senza la partecipazione diretta della Federazione russa che li aveva derubricati a una questione interna di un altro stato.
Al contrario alle potenze occidentali- Francia in testa – gli accordi di Minsk piacciono poco e tentano di sostituirli con il cosiddetto «format Normandie», che prevede invece il diretto coinvolgimento della Federazione russa nella questione del Donbass. Fino a quel momento Mosca si è tenuta quanto più possibile distante dalla faccenda, così come peraltro è testimoniato dagli stessi servizi segreti occidentali, in primis quelli britannici e statunitensi che non hanno mai riferito della presenza di truppe russe in Donbas prima dell’attuale offensiva di fine febbraio 2022. Anche gli osservatori dell’OSCE non hanno mai osservato alcuna traccia di unità russe operanti nel Donbass. Nell’ottobre 2015 anche Vasyl Hrytsak, direttore del Servizio di sicurezza ucraino (SBU), deve ammettere che in due anni (2014-2015) nel Donbas erano stati osservati non più di una cinquantina di combattenti di cittadinanza russa. I guai Kiev li ha invece all’interno del proprio esercito, inviato a fronteggiare i “separatisti filo-russi”.

Nell’ottobre 2018, dopo quattro anni di combattimenti, il procuratore militare Anatoly Matios dichiara che l’Ucraina ha perso 2.700 uomini nel Donbass: 891 per malattie, 318 in incidenti stradali, 177 per altri incidenti, 175 di avvelenamenti (alcol, droga), 172 a seguito di manipolazioni imprudenti di armi, 101 per violazioni delle norme di sicurezza, 228 per omicidio o in combattimento e 615 per suicidio. Le operazioni in Donbass non sono affatto popolari tra i giovani ucraini che sognano l’Europa e si ritrovano invece a far la guerra in Donbass. Lo si desume facilmente dai dati del richiamo dei riservisti nel marzo-aprile 2014. I dati sono desunti da una relazione del ministero dell’interno britannico che riporta come il 70 % dei richiamati non si è presentato alla prima sessione, l’80 % alla seconda, il 90 % alla terza e il 95 % neppure alla quarta. Nell’ottobre/novembre 2017, non va meglio: il 70 % dei richiamanti alle armi non si è presenta. Questo senza contare i suicidi e le diserzioni che raggiungono fino al 30 % degli effettivi nella zona d’impiego in Donbass. Intanto a Kiev anche Poroshenko perde colpi. Nel 2019 si ricandida alle presidenziali ma non raggiunge neppure il 16%. Vince Volodymyr Oleksandrovyč Zelensky, attore, sceneggiatore e comico, con il 73,7% dei consensi.
L’elezione di Zelensky non risolve i problemi di efficienza e credibilità interna delle forze armate ucraine. Kiev si rivolge quindi alla NATO per tentare di rendere le sue forze armate più «attraenti» per i giovani ucraini. Nel 2014, anno in cui il Donbass inizia a sobbollire, le relazioni tra NATO e Ucraina non sono certo una novità. Tra di loro il dialogo e la cooperazione erano infatti iniziati già nel lontani 1991, l’anno del quasi colpo di stato a Mosca e della riunione fiume che aveva sancito l’indipendenza dell’Ucraina. Allora l’Ucraina aveva aderito al Consiglio di Cooperazione del Nord Atlantico per poi entrare nel 1994 nel programma PfP (Partenariato per la Pace), avviato dall’Alleanza non solo verso tutti i paesi dell’ex “Patto di Varsavia” ma anche nei confronti delle repubbliche ex –sovietiche sia europee sia asiatiche. Erano gli anni convulsi di Boris Eltsin e del partito comunista di Zjuganov; Chernobyl ancora fumava e le iniziative della NATO non avevano suscitato significative proteste da parte di Mosca. Almeno allora.
Nel 1997 mentre si pubblica il primo libro di Harry Potter e muore Lady Diana, la NATO e l’Ucraina danno vita al NATO-Ukraine Council (NUC) e sempre dal 1997 la NATO apre a Kiev in via Melnykova 36/1 il NATO Information Documentation Center (NIDC). Nel 1999 è l’ora di una rappresentanza “semi diplomatica”, il NATO Liaison Office (NLO: Ufficio di Collegamento della NATO). Anche sul piano operativo e delle missioni NATO e Ucraina si danno da fare. Dal 1996 l’Ucraina contribuisce attivamente a tutte le operazioni e alle missioni a guida NATO, a partire da quelle in Bosnia, in Kosovo, in Afghanistan, alle operazioni anti-pirateria nell’Oceano Atlantico, oltre a contribuire negli anni recenti anche alla NATO Reaction Force.
Insomma un’amicizia di lunga data che va avanti in crescendo fino al 2008 quando al summit dei capi di stato e di governo della NATO di Bucarest, l’amministrazione Bush jr propone e sostiene con forza l’adesione di Ucraina e Georgia all’Alleanza. Solo la decisa opposizione di Francia e Germania ferma il tentativo. Intanto da circa otto anni al Cremlino s’è insediato Vladimyr Putin, una personalità ben diversa da quella di Eltsin e molto più attenta alla politica che la NATO esercita nei confronti dell’ex spazio sovietico.
Visti gli amichevoli trascorsi è quindi naturale che nel 2014- 2015 Kiev si rivolga alla NATO per rimodernare le proprie forze armate, ripristinarne l’immagine tra la popolazione e aumentarne l’efficienza. Si tratta però di un processo lungo e gli ucraini vogliono muoversi in fretta, Anche perché Putin è sempre più infastidito dall’intraprendenza della NATO verso Kiev.
Il governo di Kiev decide peraltro di integrare queste forze paramilitari nei quadri della Guardia Nazionale, un corpo sottoposto al ministero degli interni. Non ci sarebbe nulla di male se nel frattempo i membri di queste formazioni avessero rivisto un po’ i loro riferimenti ideologici di stampo neo-nazista. Basta però guardare al cosiddetto “reggimento AZOV” per comprendere che così non è stato. Lo stemma che i miliziani della AZOV portano fieramente sul braccio ricorda molto, molto da vicino quello della tedesca 2^ Divisione corazzata Waffen SS “Das Reich”, unità oggetto di una vera e propria venerazione in Ucraina per aver liberato Kharkov dai sovietici nel 1943.
Dal 2014 sono dunque queste le milizie inviate nel Donbass dove si distinguono per determinazione e crudeltà nei confronti principalmente della popolazione civile di lingua russa.
Siamo dunque al 2022 e per memoria è bene ricordare che all’inizio delle operazioni le forze armate ucraine di terra si articolano in 3 corpi d’armata dell’esercito e dalla Guardia Nazionale, che dipende dal Ministero dell’Interno ed è articolata in 5 comandi territoriali.
La Guardia Nazionale è quindi una forza di difesa territoriale che non fa parte dell’esercito ucraino. Comprende le milizie paramilitari, chiamate «battaglioni di volontari» (добровольчі батальйоні). Principalmente addestrati per la lotta urbana, oggi assicurano la difesa di città come Kharkov, Mariupol, Odessa, Kiev, ecc.
Oggi il reggimento AZOV combatte a MARIUPOL e c’è da pensare che gran parte della determinazione a combattere sia dovuta alla convinzione che una volta caduti prigionieri dei russi potrebbero passare un brutto quarto d’ora