
Alzo gli occhi.
Quattro vigili gazze sullo steccato; altre quattro beccano grassi vermi resuscitati dalla pioggia.
Oltre la linea dei quercioli un cielo stropicciato di pioggia si appoggia sulla montagna di Sant’Oreste. Più indietro, nell’indifferenza immobile dell’ultimo orizzonte, gli Appennini sono oggi di un bianco incongruente.
Abbasso lo sguardo e corro, la salita mi taglia il fiato. Dal fosso pieno d’acqua grigia il sentiero di sassi rosa riemerge e sale ancora per interminabili pochi metri e io corro la mia corsa ostinata.
Sento l’aria d’inverno entrare nei polmoni. E mi lava.

Il sudore salato sugli occhi mi lava.
Il profumo del prato e del fango, il bronzo delle foglie di quercia sul sentiero, il sentore di cielo e di muschio, tutto mi lava mentre ostinato corro la mia corsa anziana.
Passi intimi che calpestano luoghi noti solo a me; passi che non provano vergogna del mondo.
E’ la mia cura.