I GATTI NON SE NE SONO MAI ANDATI – racconto breve di una deviazione in Appennino

(foto p.Capitini)

Prima dei tunnel e dei viadotti e prima del “traffico intenso tra Roncobilaccio e Barberino del Mugello” l’Appennino non si attraversava; lo si saliva.

Con fatica, nella stagione giusta e per un motivo importante si salivano i suoi sentieri e quando si da lassù si scendeva si era grati per avercela fatta.

Al tempo degli uomini, quello che precedette l’attuale tempo degli individui, le scarpe e gli zoccoli ben conoscevano gli stradoni partoriti dalle mura delle facili città di pianura. Sapevano dei fontanili e di dove iniziavano le mulattiere; quali passi erano aperti e quali la neve aveva già chiuso.

Tra le montagne, dove la luce fugge veloce, il cammino sarebbe durato fino a che la coperta d’ombra non avesse avvolto il sentiero. Poi si sarebbero accesi i fuochi e disposte le guardie. Per le carrozze ci sarebbe stata una locanda, una minestra e una stalla di pietra per riparare le bestie.

(foto p.Capitini)

Sulle quelle cime scure di roccia e prati, una goccia di pioggia e le lacrime sciolte del ghiaccio di primavera ancora oggi scelgono il proprio mare, scivolando sull’erba gialla resuscitata dalla neve, rimbalzando prima sull’arenaria dei prati alti e poi sui sassi bianchi e rotondi del Panaro oppure del Reno.

Se le gocce si sceglievano un mare e i piedi erano obbligati al sentiero allora, nel mio viaggio verso casa, avrei potuto uscire dal ragionevole obbligo dell’autostrada e tentare anche io di scegliere il mio.

Provare a trovare una pista per salire e un’altra per discendere. Piste tutte sconosciute, strade di un viaggio vero, quello dove ricordo e memoria non t’aiutano e la sorpresa ti siede a fianco, muta.

(foto p.Capitini)

C’è vento. Forte, freddo e profumato di erba.

Sopra di me il cielo continua a sfogliare un infinito campionario di nuvole, indeciso se annegarmi o regalarmi un po’ di sole. La strada è lucida di pioggia e di foglie. Un raggio di sole inaspettato fa brillare per un tempo di sorpresa minuscoli paesini conficcati sui fianchi della montagna o incagliati giù, all’ansa del torrente.

Sono stati affidati a una Madonna o a un Santo nella certezza che almeno loro li avrebbero protetti dalla montagna e dalle notti fredde di lupi.

(foto p.Capitini)

Sono stati pochi gli uomini che nel tempo hanno chiamato questi luoghi “casa“. I più sono passati in fretta nel fondovalle, seguendo i fiumi e risalendo i passi, diretti a Roma o alla grande pianura che si apre ancora oltre la linea delle cascate. In pochi si sono fermati, ma quei pochi l’hanno fatto per secoli, posseduti da una tenacia avara, figlia della fatica e dalla miseria.

Nei paesi affidati alle Madonne, avevano resistito a principi e vescovi, sopravvivendo a invasori sconosciuti, a guerre di cui non sapevano nulla e a carestie di cui invece sapevano tutto; aggrappati a quei monti gonfi come la pasta del pane.

(foto p.Capitini)

Poi l’Italia, un paese che in molti non avevano mai conosciuto, s’era scoperta ricca e moderna. Al di là delle nebbie il fondovalle a tutti sembrò ancora più ricco. E li inghiottì.

Erano scesi dai loro paesini affidati alla Madonna, migrando verso officine, ascensori e notti piene di neon e asfalto; notti senza più lupi e bufere. Notti senza più silenzio e rosicchiare di tarli.

Da boscaioli, carbonai, pastori, falegnami e fabbri, l’acqua calda e un water smaltato bianco li trasformò in operai. Il partito diede loro anche un’altra fede, battezzandoli classa operaia. Fu allora, sul finire degli anni ’50 che le Madonne, offese, si ritirarono nei loro paesi a custodire usci sempre chiusi.

Negli anni ’70 i figli dei boscaioli divenuti operai e quindi classe operaia furono mandati in buon ordine alle università dove si diventava “dottore“, titolo che li avrebbe per sempre salvati da un possibile ritorno tra quei monti ormai all’orizzonte. I loro padri, vent’anni prima s’erano accontentati di vedere il mare.

(foto p.Capitini)

Oggi, che la classe operaia è morta e che i “dottori” non risalgono i monti ma fuggono all’estero guido piano per strade dimenticate. Ripasso per quei luoghi e il monte restituisce le loro storie scritte sulla pietra, con un inchiostro di fede e paura. Mostro gentile l’Appennino e le sue Madonne che custodiscono con cura i ricordi di quella gente. Chissà, un giorno smetteranno di fare tunnel e viadotti e gli uomini ritorneranno. I lupi sono già tornati.

Credo che i gatti non se ne siano mai andati.

Un pensiero riguardo “I GATTI NON SE NE SONO MAI ANDATI – racconto breve di una deviazione in Appennino

  1. Bel racconto fresco, ispirato e conciso il giusto. Una specie di poesia racconto chiusa in sè che accenna con bravura alla storia e alle piccole storie. Una penna bellissima.

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