“Patria. Bandiera. Parole polverose e senza senso…” il commento era uscito, senza alcuna cattiveria, da una elegante e anziana signora; una grande scrittrice, figlia di una grande famiglia. Insomma una persona di rispetto. Si parlava di elezioni e di pericolo nero, di Italia non più europea e di altri temi di certo importanti, eppure di tutte le intelligenti parole e dei profondi concetti che avevo ascoltato solo quella frase, buttata là con un tono di vago disgusto, m’era entrata dentro con fastidio, quasi con dolore.

Qualche giorno prima avevo ricevuto l’invito alla cerimonia del cambio del comandante del mio vecchio reggimento. Per chi non fosse pratico di cose militari un reggimento è una comunità di un migliaio di soldati con a capo un colonnello. Di solito resta al comando un paio d’anni poi viene trasferito lasciando il posto a un altro e per sottolineare il passaggio, come prescrive il regolamento militare, si organizza una “sobria ma significativa” cerimonia. Era appunto a una di queste sobrie e significative cerimonie che ero stato invitato, quella del comandante dell’Ottavo bersaglieri. Noi lo scriviamo così – Ottavo – con la “O” maiuscola e per esteso, senza usare numeri. La ragione è un po’ lunga da spiegare, ma, fidatevi, ne abbiamo motivo.

A suo tempo anche io ne avevo organizzata una. Da Reggio Emilia era venuta mia sorella e qualche amico. Anche allora era settembre e intuivo che gli anni a venire non avrebbero mai più avuto lo stesso calore, la stessa idea di famiglia di quelli che stavo lasciando.
Da quel giorno di settembre, quando mia sorella mi aveva visto con il cappello piumato, la sciabola e la sciarpa azzurra, erano passati diciotto anni. Finita la cerimonia eravamo usciti dalla caserma con la mercedes sport coupé comprata dal tenente Zizzari. Da allora non avevo più messo piede tra quelle mura. Nello stesso cortile molte altre cerimonie avevano continuato a salutare nomi e volti dapprima a me familiari, poi sempre più giovani e sconosciuti. Fino ad oggi: 23 settembre 2022.

Nei giorni incerti tra la fine dell’estate e i primi respiri freschi d’autunno, in giro per la strada c’era poca speranza e molta rassegnazione. Tra due giorni si sarebbe votato. In TV passava uno spot per invogliare la gente ad andare ai seggi.
Brutto segno.
Tra Russia e Ucraina era in corso una guerra estranea che presto ci avrebbe reso tutti più poveri. Anzi, quasi tutti. Qualcuno con amicizie più importanti e un conto in banca solido se la sarebbe cavata, lasciando alla gente il compito di rosicchiare l’osso della crisi. E questo la gente lo avvertiva chiaramente.
Brutto segno.
Dopo la fine della pandemia, malgrado le promesse, non c’era stata alcuna resurrezione. Personalmente continuavo a sentirmi avvolto da questo mal bianco; dal senso di rancorosa sconfitta che si respirava per le strade delle nostre città e persino nei bar del mio paese dove in questi giorni si sarebbe parlato di vendemmia, di corna e di caccia. Anche la Juventus giocava male.
Brutto segno.
Non tirava dunque una bella aria. Per di più c’erano le parole della grande e importante scrittrice che spolveravano di modernità questi giorni rassegnati.

Contro ogni ragione mi ritrovavo comunque di buon mattino a scendere verso le porte del sud. E’ là che il mio vecchio reggimento è di stanza da quando non ricordo più quale governo l’aveva trasferito da Pordenone.
Esiste un impalpabile confine a sud di Roma, una linea invisibile superata la quale non si affitta più, ma “SI LOCA”, dove i negozi hanno grandi insegne di plastica gialla e blu, le strade buche profonde che ti fanno rallentare proprio davanti a un chiosco che arrostisce carciofi. Gigantesche statue di Padre Pio o della Nike di Samotracia ti accolgono all’ingresso della pensione “The Quiin” – tre stelle con aria condizionata – e le vecchie case di tufo bianco e pietra lavica non hanno ancora deciso quale intonaco preferire: bianco? Giallo? Rosa? La chiamano “la terra dei fuochi”, ma sarebbe forse meglio “la terra dei torti”, tanto patiti quanto inflitti.

Per il resto d’Italia questo luogo esagerato è un set per serie sulla camorra, cortei antiracket o per inchieste televisive. Tuttavia, se, come è capitato a me, si ha avuto la ventura di viverci per un po’ ci si accorge che era proprio quel mix di carognaggine individuale e sincera fratellanza a rendertela cara e indimenticabile.
Percorrendo la Casilina, dietro uno dei camion dei “F.lli Lo Cicero”, mi sentivo dunque come a casa dei cugini: estraneo ma in famiglia. Mentre lo scappamento del camion tentava caparbiamente di avvelenarmi, mi domandavo per quale ragione avessi poi deciso di andare. Ho imparato negli anni che ogni volta che ti fai una domanda devi avere pazienza; la risposta – quella vera – arriverà al momento giusto; nel frattempo passi il tempo a elencarti cazzate.

Mi ero ritrovato quasi improvvisamente al cancello della caserma. Condotto là come il mulo verso la stalla.
Conoscevo bene il rituale. Il solito graduato mi avrebbe guardato torvo, poi qualcuno mi avrebbe indicato dove parcheggiare; dove andare e dove aspettare. I militari odiano la gente che va a spasso.
Mi ero così ritrovato sotto uno degli alberi di plastica che circondano il grande cortile. Dopo diciotto anni gli alberi erano identici a quelli che avevo lasciato: né più alti, né più grossi, ne avevo quindi dedotto che non potevano che essere di plastica.
Ai quattro angoli del cortile altrettanti carri tirati a lustro. Niente era stato trascurato della semplice coreografia che accompagna ogni “sobria e significativa” cerimonia. La platea con le sedie accuratamente allineate, il microfono per la voce fuori campo, il leggio con alzata a tortiglione in finto noce; l’ambulanza discretamente parcheggiata nel controviale. Anche il busto di La Marmora, reliquia della caserma Martelli di Pordenone, era al solito posto. Qualche mano assassina lo aveva dipinto di nero lucido.

Pian piano inziavano ad affluire ufficiali scintillanti, belle ragazze dalle gonne corte, matrone romane, ex-combattenti delle guerre risorgimentali, bambini irrequieti e generali sorridenti e un tantino rigidi. La solita umanità che come me sempre forma il pubblico in queste occasioni.
Il comandante cedente si aggirava sorridente, incapace di decidersi tra fare lo spigliato o lacrimare di commozione. Il subentrante invece scantonava educatamente sentendosi– se pur per pochi minuti – un usurpatore. Sotto il cappello piumato un po’malconcio sorridevo scambiando due parole con tenenti colonnelli pieni di medaglie che avevo accolto da giovani tenenti e con molti dei miei vecchi marescialli, custodi della saggezza di ogni reparto. Passati vent’anni in quel posto mi sentivo ancora a casa; in famiglia. Potevo ritenermi soddisfatto.
La fanfara aveva suonato “Adunata” e i bersaglieri erano entrati a frotte a riempire i ranghi delle compagnie. Si iniziava.
“Onori alla Bandiera di Guerra dell’Ottavo reggimento bersaglieri”. Aveva ordinato il comandante indeciso tra lo spigliato e il commosso e la Bandiera era entrata.

La sosteneva il più giovane dei tenenti del reggimento, che come tutti i tenenti non aveva diritto neppure a un nome; al suo fianco l’Aiutante Maggiore la proteggeva e subito dietro i due Sottufficiali anziani completavano la scorta. Conoscevo solo loro.
Per un attimo la mia Bandiera mi era passata davanti; il drappo di seta un tantino consumato e scucito. Avevo ascoltato il rumore dei passi di corsa e il tintinnare delle medaglie.
Era passata snobbando tutti i presenti sistemandosi subito al sicuro tra i suoi bersaglieri. Anche loro, sapendo che era nei ranghi s’erano fatti un pelo più marziali. Io che comandante non ero più da tempo e non dovevo quindi scegliere tra essere spigliato o commosso ho lasciato andare un’unica lacrima senza senso. Forse l’acqua salata conservava il mio rimpianto per i giorni passati come pure l’orgoglio e la tenerezza per quei soldati che hanno sempre vent’anni. Non lo so.

Alla fine ciò che mi importava era di aver finalmente ottenuto la risposta alla domanda: “che ci faccio qui“.. La grande scrittrice aveva torto. La risposta era là in mezzo ai bersaglieri, all’odore di lucido da scarpe e gasolio. Patria e Bandiera per me e per loro erano parole senza polvere.
Il drappo ondeggiava leggero al vento; il tenente Zizzari oggi è generale e la sua macchina ce l’ho ancora.
Ho sentito di essere stato un uomo fortunato.
Un bel racconto delle emozioni di un vecchio comandante.
Un bel racconto delle emozioni di un vecchio comandante.
La polvere non potrà mai coprire ciò in cui abbiamo creduto e ancora crediamo.
Mio caro Paolo,hai come al solito, magistralmente, raccontato con simpatica nonchalance la tua emozione nel tornare là dove i saggi cercano di non tornare (mai ripercorrere i sentieri del cuore) ma i sentimenti ti trascinano.
Grazie per avermi attratto in quella caserma da cui manco da quasi trent’anni ma che sento sempre casa mia.
Ti abbraccio!
Guai il giorno in cui “Patria” e “bandiera” saranno paole polverose!
La caserma non ci accomuna, eppure quella tua famiglia la fai sentire anche mia.
Ci unisce forse l’amor di patria.
Confesso di essermi commossa leggendoti.
Comandante è stato commovente leggere il suo racconto bellissimo.