L’offensiva ucraina dell’estate si sta esaurendo dopo aver conseguito una serie di clamorosi successi, per molti versi inattesi. La regione di Kharkiv è ormai rientrata sotto il controllo di Kiev; nel settore centrale i russi non hanno completato l’annunciata conquista del Donbas e per ora si accontentano di difendere i dintorni di Severodonetsk e di scavare trincee per qualche decina di chilometri. A sud le cose vanno anche peggio. Kherson, il cosiddetto balcone su Odessa è completamente accerchiata. Ogni tentativo di rifornirla è legato alla possibilità di tenere in piedi qualche traballante ponte di barche, almeno finché una salva di missili HIMARS non lo manderà a fondo. Oltre 70.000 civili hanno abbandonato la città e in molti pronosticano che a breve saranno seguiti dalla guarnigione russa. A cornice del quadro generale è bene ricordare che la centrale nucleare di Energodar è ancora in mano russa, più ostaggio che obiettivo militare e che percorrere il ponte di Kerch, il più lungo d’Europa, fa salire qualche brivido lungo la schiena dopo che meno di un mese fa un camion-bomba l’ha fatto saltare in aria. Stessa cosa per le retrovie dell’operazione militare speciale al di là del confine russo-ucraino.

L’esercito di Mosca è dunque in grande difficoltà mentre quello ucraino sogna di liberare tutti i territori occupati, Crimea compresa, ma sia l’uno, sia l’altro sanno bene di non essere pienamente padroni del proprio destino. Il Suchoputnye Vojska, così si chiama l’esercito russo, si è scoperto in piena crisi di equipaggiamenti, di armi ma soprattutto di uomini e di leadership. Quello di Kiev dipende per intero dal flusso di denaro e di rifornimenti per ora garantito dall’Occidente. Sarebbe abbastanza per iniziare a pensare a una possibile tregua se non proprio alla pace, ma per Mosca questa è la guerra che dovrebbe alla fine metterla al sicuro dalla minaccia della NATO, mentre per Kiev è l’occasione di porre fine a quattro secoli di sudditanza. Per quanto difficile da comprendere entrambi combattono dunque per la vita. Quindi? Quindi si va avanti e se non si può per terra si tenta in cielo.

Sul piatto cielo d’Ucraina, dove le città sembrano galleggiare sull’immensa pianura, la Russia sta percorrendo una nuova linea operativa e lo sta facendo in gran parte con mezzi inattesi. Iniziamo dal disegno operativo sviluppato dal comando dell’operazione militare speciale. Preso atto che per tutto l’autunno e per gran parte dell’inverno non sarà possibile riprendere l’iniziativa di nuove offensive terrestri, l’unico modo per mantenere la pressione sul governo di Kiev è degradarne la rete infrastrutturale, energetica e dei rifornimenti essenziali. Via quindi al bombardamento continuo delle centrali elettriche, dei nodi di smistamento ferroviario, delle infrastrutture logistiche, dei metanodotti e degli acquedotti. L’obiettivo è chiaro: far passare un inverno al buio, al freddo e possibilmente anche con poca acqua a tutta l’Ucraina nella speranza che questo ammorbidisca il governo di Kiev inducendolo alla trattativa. Ci riusciranno? E’ tutto da vedere anche perché, come si è accennato, per Kiev questa è un’occasione quasi unica per affrancarsi definitivamente dal secolare abbraccio di Mosca e non tanto Zelensky quanto la sua gente sembra più che decisa a sopportare gravi disagi pur di chiudere la partita.

Mosca invece sembra scommettere sul contrario e per condurre il gioco ha deciso di affidarsi a una tecnologia nuova che poi tanto nuova non è: quella dei DRONI. Per primo ricordiamo che ciò che rende diverso un drone da un missile, da un razzo o da un siluro è la possibilità di essere pilotato da remoto in tempo reale lungo tutta la rotta fino al punto di utilizzo. Già perché i droni, altrimenti detti aeromobili o natanti a controllo remoto, non sono fatti solo per autodistruggersi su un obiettivo, ma possono svolgere missioni assai diverse che vanno dalla ricognizione lontana, al bombardamento di obiettivi, alla sorveglianza di aree vaste, al coordinamento di azioni a terra come alla ricerca e soccorso.

L’idea di un oggetto senza pilota in grado di colpire il nemico non è nuova. Sembra infatti che siano stati gli austro-ungarici nel 1849, nella nostra prima guerra di indipendenza, a caricare di esplosivo qualche pallone aerostatico e a spingerlo quindi su Venezia, ma è dagli anni 2000 che la tecnologia dei droni è ampiamente utilizzata in operazioni militari cinetiche. Allora dov’è la novità? Questa in gran parte è rappresentata dall’arrivo nell’arsenale russo di droni di produzione iraniana. Il presidente Zelensky ha parlato di una “collaborazione con il male”, mentre Washington ha evidenziato che il trasferimento di questo tipo di armi viola il divieto di export su alcuni prodotti militari imposto a Teheran dal Consiglio di Sicurezza dell’Onu su Teheran. La realtà è che questi droni costano poco e funzionano.

Con il miglioramento delle capacità contraeree e grazie alla capillare copertura satellitare e radar dello spazio aereo ucraino per un aereo russo volare oggi sul cielo ucraino è sempre più pericoloso. Per gli elicotteri nemmeno a parlarne. Rimangono i missili balistici e quelli da crociera, ma hanno un difetto che in tempi di sanzioni e di embargo si amplifica giorno per giorno: sono costosi e difficili da costruire ora che reperire le componenti elettroniche necessarie a realizzare i loro complessi sistemi sono quasi introvabili, anche sul mercato clandestino. Fa riflettere infatti che oltre il 60% della componentistica elettronica di un missile russo sia di produzione americana, coreana o giapponese; comunque non russa. Ecco allora come un trabiccolo volante dal costo unitario di poco più di 5.000 dollari rappresenta una soluzione efficace e alla portata di tutti. Mi riferisco essenzialmente al drone iraniano del tipo Shaded-136, che i russi sembrano aver ridipinto e rinominato Geran-2.
Si tratta di velivolo capace di percorrere una rotta di circa 1800 km a una velocità di poco superiore a 180 km/h, volando a una quarantina di metri d’altezza. Certo non è un miracolo di ingegneria aeronautica. Il suo sistema di guida si basa sul GLONAS, la versione russa del nostro GPS e la propulsione è assicurata da un quattro cilindri aeronautico a due tempi da 50 cavalli, più o meno la potenza della vecchia Panda. E’ in grado di trasportare una carica di esplosivo di circa 35 kg, pari a tre granate convenzionali da 155 mm, ma soprattutto costa poco.
Certo non è in grado di colpire obiettivi puntiformi e fugaci come un carro armato o un obice d’artiglieria in movimento, ma per un deposito carburanti, una centrale elettrica, una cabina di smistamento ferroviario va benissimo. In presenza di una buona difesa controaerea le possibilità che un simile aggeggio arrivi a destinazione sono però basse. Si stima infatti che la difesa aerea ucraina sia in grado di abbatterne in volo tra il 60 e l’80%, ma a quale prezzo? Fino ad ora, Kyiv ha potuto proteggersi dalle centinaia di attacchi solamente facendo ricorso a missili terra-aria ex-sovietici S-300 o ai tedeschi Iris-T nonché a sortite della propria aeronautica. Ma queste armi rappresentanto un enorme spreco di risorse di fronte a un sistema d’arma pericoloso ma perfettamente sacrificabile.

Dall’inizio dell’offensiva aerea russa Zelensky non fa che richiedere armamento contraereo, ma è davvero possibile pensare di proteggere con un simile ombrello tutto il territorio ucraino? E a quale prezzo? D’altra parte non si può neppure far finta di niente e continuare a riparare, rabberciare e sostituire con cadenza giornaliera tutto ciò che viene distrutto.
Dal canto loro i russi, ben consapevoli di maneggiare una tecnologia rudimentale, hanno scelto di impiegare a sciame i loro droni, ad esempio lanciandone una quarantina nella certezza che almeno una decina arriveranno a bersaglio. E il giorno dopo si ricomincia. Oltre al basso costo vediamo di mettere a fuoco quali altri vantaggi possono derivare. In primo luogo si risparmiano non tanto costosissimi aerei ma soprattutto i loro piloti. L’addestramento di un buon pilota da caccia-bombardiere costa infatti qualche milione di dollari ai quali vanno aggiunti quelli per il velivolo che gli viene affidato. Vuoi mettere con una bomba volante pilotabile a distanza che costa meno d’un’utilitaria di seconda mano? Inoltre si deve valutare la costante pressione psicologica e l’insicurezza diffusa alle quali viene sottoposta la popolazione. Si tratta quindi dell’arma perfetta? Non esageriamo. La potenza distruttiva di questi velivoli non è in grado di neutralizzare permanentemente un’infrastruttura, ma riesce comunque a danneggiarla facendola funzionare male e a tratti. Tutto questo almeno fintanto che anche gli ucraini non inizieranno a loro volta a rispondere pan per focaccia. E sembra che già abbiano iniziato. E’ dell’altro ieri infatti la notizia che sei o sette barchini pilotati da remoto, coadiuvati da qualche drone volante, sono riusciti a penetrare all’interno del porto di Sebastopoli, la sede della flotta russa del Mar Nero. Si tratta di una grande base navale costruita su una serie di fiordi e canali stretti e lunghi il cui accesso è angusto e vigilato da reti sommerse anti-intrusione. Eppure i droni-barchini, navigando a pelo d’acqua per qualche centinaia di chilometri, sono riusciti a entrare e a colpire quattro navi all’ormeggio, causando l’affondamento di una di esse mentre i droni volanti colpivano qualche infrastruttura logistica e un cantiere di riparazione. C’è mancato poco che non venissero presi anche due vecchi sottomarini della classe “KILO” (a proulsione diesel/elettrica e non nucleare), ma all’ultimo momento non erano più al molo.

Poca cosa verrebbe da dire, se non fosse che anche in questo caso si è raggiunto il non trascurabile obiettivo di far sentire insicuri i marinai russi persino a casa loro, obbligando il comando navale a innalzare le misure di sorveglianza e scoperta. In ultima istanza a spendere di più per cercare di stare tranquilli.
Ci stiamo dunque incamminando verso una guerra di droni? In parte sì, anche se lo scenario alla terminator appare abbastanza di là da venire. Più vicino invece può essere il pericolo che queste tecnologie a basso costo, facilmente riproducibili e difficilmente intercettabili entrino a far parte massicciamente dell’arsenale della malavita organizzata o di gruppi terroristici particolarmente intraprendenti. Non ci vuole infatti una gran fantasia a immaginare un barchino pieno di cocaina che navigando a 50 cm dal pelo dell’acqua arriva su qualche costa dell’Europa o del Nord America e neppure un drone costruito in garage che svolazza sul cielo di una città cercando un obiettivo su cui schiantarsi. Di questa preoccupazione si fanno interpreti, ad esempio, gli israeliani che dei razzi sparati da Hamas hanno una pluriennale esperienza. Passare da un tubo di stufa riempito d’esplosivo a un drone con 40 chili di TNT sarebbe per loro un drammatico salto di qualità. Forse per questo Israele si è affrettato a fornire a Kiev alcuni di sistemi di sorveglianza e scoperta in grado di contrastare anche questo tipo di minacce.
In attesa dell’arrivo dell’inverno e della risposta ucraina, Mosca continua a lanciare i sui Geran-2, insieme a qualche grosso missile Kalibr avvertendoci che la guerra sarà ancora lunga.
Non avrei mai immaginato che una guerra potesse usufruire di tante armi semplici ma terribili.