“ Non esistono situazioni disperate; solo uomini disperati”, così settanta anni fa ammoniva Heinz Guderian, uno dei padri delle moderne forze corazzate. Siamo dunque a questo punto? Forse no, anche se, trascorso ormai il primo anno di guerra, sulle pianure ucraine si proiettano nuove e preoccupanti ombre.

A dissiparle non è bastata la decisione di inviare qualche moderno carro armato all’esausto esercito di Zelensky; come nel teatro anche in guerra è infatti tutta una questione di tempi. Per comprendere meglio cosa questo significhi è dunque opportuno risalire proprio la linea del tempo a cominciare da quando, a metà settembre, le unità ucraine ripresero il controllo dell’intera regione di Kharkiv. In quei giorni l’esercito russo stava vivendo il momento di maggiore confusione e sbandamento da quando l’attacco iniziale a Kiev era fallito. Disordine, sgomento, abbattimento erano palesi tra le file dei coscritti di Putin così come tra i mercenari della Wagner o i ceceni di Kadirov.

Tra i primi a comprendere che quello poteva essere il momento giusto per la trattativa era stato il capo di stato maggiore della difesa USA, il generale Mark Milley. Allora, molto probabilmente con il benestare della Casa Bianca, il sessantacinquenne generale si era permesso di suggerire a Zelensky di iniziare a negoziare da una posizione di forza come quella raggiunta in estate piuttosto che attendere un’improbabile vittoria assoluta. A Kiev nessuno lo aveva ascoltato, così la guerra era andata avanti peraltro registrando un nuovo importante successo per gli ucraini, vale a dire l’abbandono di Kherson da parte del presidio russo.

In quei giorni di fine estate in molti avevano iniziato a pronosticare il rapido collasso dell’armata di Mosca e la conseguente fine della guerra. Tuttavia non altrettanti avevano preso nella dovuta considerazione alcuni fattori che nel tempo non avrebbero mancato di manifestare la propria rilevanza. Il primo era stata la dichiarazione, il 21 settembre 2022, dell’avvio in Russia della mobilitazione parziale di oltre 300.000 riservisti. Le televisioni e i blog occidentali di quei giorni si erano concentrati a mostrare giovani russi in fuga o altri catturati fuori dai bar come ad annunciare il fiasco di una simile, disperata iniziativa. Eppure qualcuno deve pur aver risposto alla chiamata visto che a novembre dello scorso anno erano stati incorporati oltre 250.000 nuovi soldati.

Non solo. I peggiori o i meno adatti erano stati subito spediti sulla linea del Donbas a tener duro; gli altri, i più svegli, gli specializzati o semplicemente quelli più fortunati erano stati sottoposti a un intenso programma di addestramento e ricondizionamento ancora in via di completamento nelle basi e nei poligoni russi e bielorussi. Nel frattempo l’abbandono di Kherson, ordinato da “Armagheddon” come è simpaticamente soprannominato il nuovo comandante delle forze russe in Ucraina, generale Sergej Surovikin, aveva consentito di recuperare circa 30.000 uomini fino ad allora bloccati nell’inconcludente presidio di una città indifendibile. Del ritiro da Kherson si era avvantaggiata anche la sbilenca catena logistica russa nonché la linea del fronte, ridotta di un centinaio di chilometri. Nel frattempo mentre Medvedev e Putin minacciavano apocalittici attacchi con nuove e sconosciute potentissime armi, più prosaicamente parte dell’industria pesante russa si stava riconvertendo ai ritmi e alle necessità di una guerra su vasta scala.

Anche se rallentata da una serie di problemi organizzativi, dall’endemica corruzione degli apparatchik e solo in parte dalle sanzioni occidentali la macchia produttiva di guerra russa si era messa in moto iniziando a ripianare le immense perdite di mezzi e materiali patite nei primi mesi dell’operazione militare speciale. Sul campo, visto che sul terreno era d’obbligo una tenace difensiva, il Cremlino aveva avviato una potente e costante offensiva aerea condotta a colpi di missili e droni, che se pur ridotta in durezza e intensità non accenna ancora a placarsi. Obiettivo la rete energetica e dei trasporti allo scopo di impedire o rallentare ogni produzione bellica da parte di Kiev e fiaccare il morale della popolazione. Se il primo degli obiettivi sembra essere stato raggiunto per l’altro siamo ancora in alto mare. E’ sotto gli occhi di tutti di quanto gli ucraini, almeno quelli rimasti in patria, siano sempre più determinati a combattere questa che sempre più è vista come una guerra per la sopravvivenza stessa del paese. Ecco allora che torniamo al tempo. Nel periodo in cui l’esercito russo era palesemente più debole che cosa si è fatto? Sono state inviate altre batterie di HIMARS, qualche centinaio di obici, veicoli ruotati protetti e munizioni, tante munizioni oltre a mantenere una costante e capillare copertura di sorveglianza e intelligence sulle azioni dei russi. In apparenza dunque a Kiev non avrebbero avuto ragione di lamentarsi, ma allora perché Zelensky non ha perso occasione per chiedere altre armi e munizioni? E’ forse in preda a una furia distruttiva?
Se è vero che a caval donato non si guarda in bocca è altrettanto vero che il cavallo non è certo un purosangue. Ad un’occhiata più attenta si scoprirà infatti che nei mesi passati Kiev è stato rifornito di tutto quello che di ex-sovietico era possibile recuperare nei depositi della Polonia, in Ungheria e di tutti i paesi NATO un tempo ex-patto di Varsavia. Si era andati a scavare fino in Marocco e a Cipro alla ricerca di qualche T72, T64 o BMP ancora funzionante da poter gettare nella fornace ucraina. Con quei mezzi e con quelli abbandonati dai russi sul campo di battaglia l’esercito di Zelensky aveva fatto davvero miracoli, ma ora di mezzi del genere non se ne trovano quasi più e il tempo dei prodigi è tramontato.

Non ci vuole certo un genio per comprendere come se una produzione bellica, quella russa, è in costante aumento e la situazione del parco armi e mezzi dell’Ucraina peggiora di giorno in giorno presto o tardi il divario sarà tale da consentire a Mosca di condurre un’offensiva decisiva. Anche la situazione del personale inizia a scricchiolare. Se nei primi mesi della guerra Kiev poteva infatti contare, oltre alla determinazione e al coraggio, anche su una preponderanza numerica di 2 a 1, ormai il rapporto si è parificato e presto verrà ribaltato a favore dei russi. Come mai? Ricordate la mobilitazione parziale che ci aveva strappato un sorriso? Si, proprio quella sta fornendo a Putin un esercito nuovo di zecca da affiancare o sovrapporre a quello che si sta consumando in Donbas. La situazione è peraltro così seria che lo stesso generale Valery Zalužnyj, da giugno a capo delle forze armate ucraine, ha auspicato un’ulteriore mobilitazione dei giovani ucraini per compensare le perdite sofferte in questi mesi mantenere un rapporto di forze ancora favorevole.

Siamo quindi giunti al tempo presente, quando gli Stati Uniti e tutti gli altri paesi che concorrono all’alleanza dei volenterosi a sostegno dell’Ucraina si sono decisi all’invio di moderni carri armati. Finalmente! Verrebbe da aggiungere e invece anche in questo caso c’è da dare un’occhiata più attenta a questa decisione e alle sue conseguenze. In primo luogo se è vero che si è deciso di inviare carri da combattimento moderni sul numero c’è da riflettere. Zelensky e il suo stato maggiore sanno bene che per raggiungere qualche significativo ribaltamento di situazione dovrebbero disporre di almeno 500 o 600 carri e invece finora si è parlato si e no di un centinaio e neppure dello stesso tipo. Al riguardo la Gran Bretagna ha annunciato che invierà una quindicina di Challenger, la Germania un’altra quindicina di Leopard 2 ai quali si uniranno quelli di Polonia, Lituania e di molti altri stati. C’è infatti da precisare che a parte la Francia che è equipaggiata con il carro Leclerc, la Gran Bretagna con il già citato Challenger e noi con l’Ariete (sul quale è meglio sorvolare) tutto il resto d’Europa e molti altri paesi del mondo sono equipaggiati con il tedesco Leopard 2, un mastodonte di oltre 60 tonnellate, spinto da un motore da 1500 cavalli e armato con un cannone da 120 mm in grado di sparare in movimento. Del Leopard 2 la Rheinmetall di Dusseldorf ne ha prodotte svariate versioni a partire dall’originaria A1 fino alla più moderna A7. Per ciascuna di esse qualcosa sul carro è cambiato o è stato aggiunto. Significa che per ogni versione sarà necessaria una logistica dedicata, infatti non tutto quello che, ad esempio va bene per una versione A3 lo si monta anche su un A5. Oltretutto la Germania mantiene non solo il diritto ad autorizzare la cessione a un paese terzo di ogni Leopard 2 venduto a chicchessia, ma è anche l’unica in grado di effettuare grandi riparazioni e manutenzioni ultra-specialistiche su questo carro.

La riluttanza di Berlino ad autorizzare l’invio dei “suoi” Lepard 2 in Ucraina è motivata però anche da altre ragioni. Ad esempio la Rheinmetall non sarebbe particolarmente felice di constatare che uno dei suoi carri è finito in mano russa per essere sottoposto a un minuzioso retro-engeneering. Cosa dire poi se alla prova del fuoco questo prodigioso (e costoso) mezzo si dimostrasse non all’altezza della sua fama? C’è da immaginare che le ripercussioni sul ristretto mercato mondiale delle armi sarebbero gravi. Non ultimo tra i dirigenti tedeschi si potrebbe essere insinuato il malevolo sospetto che una volta che i molti paesi europei ed extra-europei si decidessero a donare i loro Leopard 2 all’Ucraina gli stessi potrebbero essere tentati di rimpiazzarli non con altri Leopard 2 ma con i loro concorrenti americani, i carri Abrams o con qualche mezzo magari sud coreano. La Polonia d’altra parte l’ha già fatto. Per concludere c’è da aggiungere la scarsa voglia da parte della Germania di inimicarsi ancor di più la Federazione russa con la quale da tempo mantiene rapporti commerciali e finanziari strettissimi.

Dunque qual è stata la soluzione? Proporre agli USA di subordinare la concessione delle necessarie autorizzazioni alla cessione dei Leopard 2 ad un analoga fornitura di carri Abrams e che comunque il numero dei carri cedibili non sarebbe potuto essere tale da pregiudicare le capacità di difesa dei vari offerenti. In altre parole darne pochi e darne tutti. A questo punto è stato Washington a storcere il naso per motivi in gran parte analoghi a quelli di Berlino. La soluzione americana è stata perciò di inviare un centinaio di Abrams da trarre però non dalle scorte strategiche dell’esercito ma direttamente dalla linea di produzione e c’è da scommettere che sulle pianure ucraine non vedremo certo l’ultimo modello di questo caro a stelle&strisce.

In conclusione all’esercito ucraino, stando alle correnti decisioni, arriveranno un centinaio di carri o forse duecento, misti tra Challenger britannici, Leopard 2 di svariate versioni e qualche Abrams; tutto questo per la gioia di ogni responsabile logistico o capo officina che dovrà prepararsi a confrontarsi non uno svariato numero di catene logistiche diverse. Guardiamo per un’ultima volta al tempo per constatare che mentre tutto questo è ancora bel al di là dal realizzarsi, nelle retrovie del fronte del Donbass quasi quotidianamente si ha notizia dell’arrivo di convogli ferroviari che trasportano T72B e T90 M revisionati o nuovi di fabbrica. Viene allora da chiedersi per quale ragione Mosca dovrebbe attendere l’arrivo dei nostri rinforzi per scatenare la sua ennesima offensiva. Forse per questo da parte USA e britannica si inizia a parlare di uan nuova offensiva russa e fine febbraio. Come al solito vedremo.
L’analisi del Generale Capitini come al solito squarcia il sipario dell’informazione dilettantistica e confusa che quotidianamente ci propinano i pseudo esperti sui media, “esperti” appunto tra virgolette, infervorati come “l’eroe ar caffè” di trilussiana memoria a dare giudizi e fare previsioni campate in aria che vedono l’esercito russo come un branco di Mugichi in disastrosa ritirata. In realtà la situazione è ben diversa e Capitini ha con grande onestà professionale sottolineato che la riconversione dell’industria russa a fine della produzione bellica sta andando velocemente avanti al pari della mobilitazione di truppe sempre più preparate; non ha neanche sottaciuto che la fornitura agli ucraini da parte occidentale di un centinaio -o poco più-di carri armati, peraltro diluita nel tempo, non potrà fermare un’offensiva massiccia lanciata dalle forze russe. In questo contesto Capitini da buon Ufficiale di Stato Maggiore e Bersagliere che conosce i mezzi corazzati non ha tralasciato di rappresentare che la logistica di tali mezzi non è surrogabile e che il successo delle battaglie e delle guerre non può prescindere da essa.