Il 26 maggio 1896 nella chiesa della dormizione al Cremlino, veniva incoronato Nicola II Romanov, l’ultimo zar di tutte le Russie.
A quel tempo, come al nostro, di Russia non ce n’era infatti una sola. Certo, c’era la Grande Russia, quella per intenderci di Mosca e San Pietroburgo, ma poi c’era la Russia Bianca di Minsk e laggiù, più a sud, la Piccola Russia di Kiev.
Quasi 130 anni sono passati da allora. Nicola II fece una brutta fine e anche ai suoi successori sovietici non toccò maggior fortuna, ma su una cosa Nicola II, Stalin, Breznev e ora Putin si sarebbero trovati d’accordo: la grande Madre Russia, per essere tale, deve comprendere la Grande, la Bianca e la Piccola Russia, vale a dire l’Ucraina. Questo è il punto di partenza scelto per ripercorrere gli antefatti di questa guerra che oggi compie un anno e che, se non si cerca di ricordare cosa è accaduto prima, rischia di restare incomprensibile.
Malgrado le radicate convinzioni dei vari Zar e Segretari del PCUS, negli ultimi cento anni metà degli Ucraini si siano ostinati a immaginare la grande pianura a nord del Mar Nero come una Patria a sé, non una piccola Russia, ma una terra a parte: le loro.

A ben guardare le realtà geopolitiche dell’Ucraina sono state, e sono tutt’ora, quattro: l’Ucraina occidentale, mitteleuropea, asburgica e germanofila di Leopoli, quella orientale russofila e panslavista di Kharkiv a cui si affiancano l’Ucraina centrale con capitale Kiev e le grandi distese dell’Ucraina meridionale a cavallo del grande fiume Dnepr che oltre al Donbas racchiudono anche tutta la fascia litoranea al Mar Nero.
Per tutto il XX secolo entrambe le Ucraine principali, quella orientale e quella occidentale, hanno tentato di fagocitare le rispettive “sorelle separate” per dar vita a una “Grande Ucraina”. Ogni volta che uno di questi progetti tentava di mettere le ali trovava però qualcuno dei suoi bellicosi vicini, vuoi l’Austria-Ungheria, vuoi la Russia sovietica, vuoi la Polonia, disposto a scatenare una guerra per impedirlo. La storia politica dell’Ucraina è quindi una storia di impossibili fughe e di incredibili massacri. Quello iniziato il 24 febbraio dello scorso anno non è che l’ultimo.
Come nella filastrocca di Branduardi a questa crudele fiera dell’Est venne prima la Russia che si mangiò l’Ucraina fino a Kiev e al Dnepr, poi venne l’Austria che si mangiò l’Ucraina a ovest del fiume; venne poi la prima guerra mondiale che si mangiò l’Austria e lasciò metà ucraina in bocca alla Polonia e infine venne l’Unione sovietica che si mangiò la Polonia e, naturalmente, tutta l’Ucraina. Infine la crisi di fine anni ’80 si mangiò l’Unione sovietica e per un breve periodo nessuno ebbe più la forza di mangiarsi ancora l’Ucraina. Almeno fino ad un anno fa.
A partire dal pomeriggio dell’8 dicembre 1991, quando Michail Sergeevič Gorbačëv, ultimo segretario generale del Partito Comunista Sovietico, annunciò al mondo lo scioglimento dell’URSS, ci sono voluti quasi trent’anni perché la Russia, quella Grande, si rimettesse in forze e si ricordasse di non poter vivere senza le sue cugine minori. Nel frattempo la Federazione russa aveva perduto tutto il suo “estero vicino”, cioè quella cintura di territori sui quali esercitare un’influenza diretta se non addirittura il controllo e sui quali poter eventualmente combattere prima di coinvolgere il proprio territorio negli orrori di una guerra futura che nella mente di un russo verrà comunque da ovest.

Di quella cintura di stati che era stato il “patto di Varsavia” da lì a poco sarebbero rimasti solo la Russia Bianca, vale a dire la Bielorussia e la Piccola Russia, vale a dire l’Ucraina. Tuttavia mentre la Bielorussia s’era tenuta ancora agganciata a Mosca attraverso un simpatico dittatore di fabbricazione ex-sovietica, l’Ucraina s’era messa in testa di vivere il suo sogno d’indipendenza vera; magari nell’Unione Europea. Magari addirittura nella NATO.
Con ogni evidenza o forse in barba ad essa, a Kiev in pochi avevano considerato che quando la tua popolazione è meno di un terzo di quella del tuo vicino; quando attraverso il tuo territorio l’ipertrofico vicino ha accesso alla sua unica base navale nel Mar Nero; quando produci gran parte dell’approvvigionamento cerealicolo del mondo; quando nelle tue fabbriche e nei tuoi cantieri costruisci un terzo degli armamenti destinati al mercato bellico del potente vicino, allora certe idee non te le puoi permettere o almeno devi farlo con una certa cautela. Insomma, nuotare accanto alla balena ha i suoi inconvenienti.
Di sicuro Thomas Wilson, presidente americano ai tempi della conferenza di Versailles e propugnatore del principio di autodeterminazione dei popoli, non sarebbe d’accordo, ma per voler invece citare un politico di casa nostra, Giulio Andreotti, viene da dire che nel mondo reale il diritto internazionale, i trattati, le convenzioni “per qualcuno si applicano e per altri si interpretano”.
Da quelle parti i quarant’anni di guerra fredda e di blocchi contrapposti sembravano aver congelato ogni pensiero, compreso quello di un’Ucraina indipendente. Certo, qualche volta come in Ungheria nel ’56 o Praga nel 1968, qualcuno ci aveva provato, ottenendo sempre la stessa risposta: i carri armati russi in piazza e una vibrata protesta da parte di Washington e delle altre capitali del mondo libero.

Tuttavia quando nell’89 i 27 cavalli delle Trabant travolsero il muro di Berlino, insieme al sol dell’avvenire tramontò anche l’ordinato mondo dei blocchi, dei carri armati in piazza e delle vibrate proteste. In quegli anni ormai lontani tutti i satelliti dell’ex-URSS fecero a gara nel fuggire da Mosca e a rifugiarsi nel caldo abbraccio dell’Occidente. Nel 1999 la Polonia, nella cui capitale era stato firmato il Patto di Varsavia, entrava nella NATO; due anni prima l’Ungheria aveva tenuto un referendum sull’ingresso nell’Alleanza: era stato un plebiscito di si. Seguirono poi la Romania, la Cecoslovacchia e infine le tre repubbliche baltiche che addirittura avevano fatto parte dell’Unione Sovietica. Per ogni abbraccio di ritrovata fratellanza con il temuto occidente la Grande Russia digrignava i denti, consapevole che stava via, via perdendo pezzi fondamentali del suo “estero vicino”.
Tra i due stati superstiti l’Ucraina aveva ben presto iniziato ad oscillare tra Russia e Europa e per quasi vent’anni si era assistito ad un balletto continuo di nuovi primi ministri una volta filo russi e l’altra filo occidentali fino ad arrivare al 2014 quando in piazza Maidan, in pieno centro a Kiev, migliaia di persone avevano fatto ben capire che il sogno di aderire all’Unione Europea era qualcosa di più di un semplice sogno.

L’aveva capito bene anche Viktor Janukovyč, ultimo presidente filo-russo della repubblica ucraina che il 24 febbraio 2014 lasciava Kiev per la Russia inseguito da un mandato di cattura.
Le tappe che hanno portato all’oggi possono essere riassunte, partendo, se si vuole, da un’altra invasione russa, quella della Crimea, oppure dalla strage al palazzo dei sindacati di Odessa nel maggio del 2014 o anche dall’abbattimento il 17 luglio 2014 del Boing 777 della Malaysia Airlines in servizio fra Amsterdam e Kuala Lumpur; Scegliete voi.

Si può anche partire, perché no, dal Donbass dove nell’aprile dello stesso 2014 l’esercito di Kiev e i separatisti delle regioni di Donetsk e Lugansk iniaizvano a scambiarsi le prime cannonate, bruciare qualche villaggio qua e là, deportare questo e quello. Secondo l’UNHCR, l’Alto commissariato dell’ONU per i Rifugiati, negli otto anni che precedono l’anniversario di oggi oltre un milione e mezzo di profughi ha lasciato il Donbas, dei quali 400.000 si sono rifugiati in Russia e 14.000 sono i morti. Tutto questo senza che in occidente qualcuno si accorgesse di nulla. E non ci si era accorti neppure dei così detti “accordi di Minsk”, patrocinati da Francia, Germania e Russia con i quali si era tentato di risolvere la faccenda, ma che per spontanea ammissione di Angela Merkel, al tempo cancelliere tedesco, erano serviti solo a guadagnare tempo.
Tempo per far cosa? Di certo non per trovare una soluzione.
Da un lato della barricata infatti Vladymir Putin, il nuovo autocrate di quasi-tutte-le-Russie, sapeva di non poter perdere quell’ultimo pezzo di “estero vicino”, ma aveva ben chiaro anche di non essere ancora pronto a combattere una guerra per tenerselo stretto. Si accontentava così di sovvenzionare i gruppi neo-nazisti della Piccola Russia per avere un casus belli da usare in futuro e nel frattempo riempiva di armi, munizioni e istruttori le milizie del Donbas, senza peraltro trascurare di ungere con una montagna di dollari chiunque tra oligarchi, politici e locali capi-popolo potesse aiutarlo a riportare a casa la cuginetta ribelle.

Dall’altro lato della barricata, quello che guarda a Occidente, la svolta di Kiev appariva sempre più decisa e chiara. Il dialogo e la cooperazione tra NATO e governo ucraino erano infatti iniziati già nel lontano 1991, l’anno del quasi colpo di stato a Mosca ma anche della indipendenza ucraina. Allora Kiev aveva deciso di aderire al Consiglio di Cooperazione del Nord Atlantico per poi entrare nel 1994 nel programma Partnership-for-Peace (Partenariato per la Pace – P f P), avviato dall’Alleanza a favore di tutti i paesi dell’ex “Patto di Varsavia” e le repubbliche ex –sovietiche che l’avessero richiesto. Erano quelli gli anni convulsi di Boris Eltsin e del partito comunista di Zjuganov; Chernobyl ancora fumava e le iniziative della NATO non avevano suscitato significative proteste da parte di Mosca. Almeno allora.
Nel 1997, mentre in Gran Bretagna si pubblicava il primo libro di Harry Potter e a Parigi sotto il tunnel dell’Alma moriva Lady Diana, la NATO e l’Ucraina davano vita al NATO-Ukraine Council (NUC) e sempre dal 1997 l’alleanza apriva a Kiev, in via Melnykova 36/1, il NATO Information Documentation Center (NIDC). Nel 1999 era stata poi l’ora di una rappresentanza “semi diplomatica”; il NATO Liaison Office (NLO: Ufficio di Collegamento della NATO). Anche sul piano operativo e delle missioni Ucraina e NATO si erano dati da fare. Dal 1996 Kiev aveva contribuito attivamente a tutte le operazioni e alle missioni a guida NATO, a partire da quelle in Bosnia, in Kosovo e in Afghanistan; alle operazioni anti-pirateria nell’Oceano Atlantico, fino a mandare suoi soldati alla NATO Reaction Force.
Insomma un’amicizia di lunga data che era andata in crescendo fino al 2008 quando al summit dei capi di stato e di governo dei paesi NATO a Bucarest, il Presidente USA George W. Bush, dopo aver spianato l’Iraq di Saddam, propone e sostiene con forza la necessità di far entrare Ucraina e Georgia nell’Alleanza. Solo la decisa opposizione di Francia e Germania aveva allora fermato l’iniziativa americana. Intanto da circa otto anni al Cremlino s’è insediato Vladimyr Putin, personalità ben diversa da Eltsin; deciso a far uscire la Russia dalla palude degli anni ’90 e molto attento a come la NATO si stava muovendo nello spazio ex-sovietico.

Si ritorna quindi al 2014 quando l’esercito di Kiev, mal equipaggiato, male addestrato e peggio comandato rischia di essere travolto nella repressione delle rivolte in Donbas, ovviamente sostenute e foraggiate dai Russi. Visti gli amichevoli trascorsi era allora sembrato naturale a Kiev di rivolgersi alla NATO per rimodernare le proprie forze armate, ripristinarne l’immagine tra la popolazione e aumentarne l’efficienza. Si trattava però di un processo lungo e gli ucraini volevano muoversi in fretta, anche perché Putin era sempre più infastidito dall’intraprendenza dell’Occicdente verso Kiev e non lo mandava certo a dire.
Mentre americani e britannici si davano da fare per rimettere in piedi l’esercito, il governo pensò di ricorrere alle milizie paramilitari, composte in gran parte da mercenari stranieri; ex combattenti delle guerre balcaniche; ultras di calcio e militanti di estrema destra. Nel 2020 le milizie costituivano circa il 40% delle forze ucraine arrivando a contare quasi 100.000 uomini ripartiti in diverse formazioni, quasi tutte armate, finanziate e addestrate da Stati Uniti, Gran Bretagna, Canada e Francia. Queste milizie nel 2014 avevano peraltro avuto una parte importante nella rivolta di Euro-Maidan, trasformandola da iniziale protesta giovanile in una rivoluzione vera e propria con tanto di morti e feriti.
Negli stessi mesi Mosca non era rimasta certo con le mani in mano, organizzando un’operazione ibrida che entrerà nei libri di strategia militare: l’occupazione della Crimea. Non si era trattato di una vera e propria invasione, almeno non in senso classico. Nei mesi precedenti Mosca aveva sapientemente suscitato e quindi cavalcato il sentimento di crescente preoccupazione della popolazione russa della penisola nei confronti del governo di Kiev, sempre più anti-russo. Dopo qualche mese di manifestazioni, proteste e richieste di aiuto la Madre Russia che non può certo rimanere insensibile al “grido di dolore” che si levava dalle sponde del Mar Nero dove, incidentalmente è tuttora alla fonda l’unica flotta russa con sbocco sul Mediterraneo.

E’ questa l’operazione dei così detti “omini verdi”, componenti delle forze speciali di Mosca che senza insegne e gradi ma con armamento alla mano occupano i gangli della Crimea dichiarandola infine liberata.
L’occidente aveva reagito non con una vibrata protesta come ai bei tempi ma con una serie di sanzioni economiche non particolarmente gravi. Nessuno allora pensava di spedire a Kiev neppure un proiettile o un obice per aiutarla nella riconquista.
Passano altri otto anni prima che la Federazione russa pensi che i tempi per riprendersi l’Ucraina siano ormai maturi. A qualcuna verrà da domandarsi come diavolo possa venore in mente di scatenare una guerra, invadere una nazione indipendente allo scopo di soggiogarla. Queste erano cose molto di moda nel XIX secolo, non più nel nostro. non più in Europa. La domanda benché legittima è tuttavia illuminante di quanto il nostro modo di pensare e di immaginare l’azione politica sia ormai lontano da quello di molti altri, in primis da quello di Putin.
Questa ricostruzione dell’antefatto, per quanto rozza, sarebbe gravemente incompleta se si trascurasse peraltrodi accennare a quale sia ancor oggi il sentimento che fin dal suo costituirsi anima la “Grande Russia”. Una nazione che accoglie oltre duecento nazionalità le quali in gran parte costruiscono la propria identità sulla narrazione dell’appartenenza a una terra perennemente in pericolo, sempre sotto assedio da parte dell’Occidente come dell’Oriente.

I popoli che abitano questo immenso spazio sanno che non ci sarà mai una grande catena montuosa a proteggerli, né un oceano, né un deserto. Solo un immenso spazio aperto dove ogni rischio, ogni minaccia può trasformarsi in tragedia. Nel corso dei secoli i russi pertanto hanno imparato che se vogliono continuare ad abitare il loro spazio devono essere pronti ad accettare immensi sacrifici pur di prevalere. E’ stato così contro i mongoli, i tartari, gli svedesi, i turchi, i polacchi così come contro i tedeschi del Kaiser o quelli di Hitler. Figurarsi se americani o addirittura i cugini della Piccola Russia potevano davvero metter loro paura.
Anzi, nel caso dell’Ucraina per Mosca c’è anche l’aggravante del tradimento perpetrato da un parente stretto. Insomma la “Grande Russia” ha sempre guadato all’Ucraina come un piez’e core! Poco importa se negli ultimi cento anni gli ucraini abbiano fatto di tutto per ricavarsi un proprio spazio e ancora meno che i Russi, zaristi prima e sovietici poi, abbiano risposto con stragi, fame e persecuzioni: la “Piccola Russia” è comunque affare di famiglia. Vale dunque la pena scatenare una guerra per tenersela? Certo che ne vale la pena, costi quel che costi.

Ecco allora la prima lezione impartita da questa guerra ancora in corso: per gli imperi l’economia non è tutto, anzi è molto poco. Sono il potere, il prestigio, la gloria ad essere vitali. Immaginate infatti l’effetto prodotto a Mosca dalle parole del presidente Obama quando nel 2004 definì la Federazione Russa una ”potenza regionale”.
La Russia sa bene che è condannata ad essere un impero ovvero a non essere affatto e di fronte a questa prospettiva esiziale è disposta a giocarsi tutto.
C’è infine un altro aspetto, minore ma non secondario, che può aiutare a capire meglio il perché Putin abbia deciso di passare alle vie di fatto. Tale aspetto si chiama PAURA. Paura di cosa? Di un modello.
La possibilità cioé che l’Ucraina – anche non appartenendo alla NATO e forse neppure all’Unione Europea – potesse comunque sviluppare una democrazia sostanziale e consentisse ai suoi cittadini di vivere meglio dei suoi dirimpettai era ed è per Mosca una prospettiva intollerabile. Significherebbe infatti introdurre un virus letale in un sistema di governo che dal tempo di Ivan il Terribile si è sempre basato su l’uomo solo al comando, circondato da una ristretta cerchia di fedelissimi e dove i ricambi avvengono per eliminazione fisica dell’avversario.
C’era bisogno comunque di una guerra? Forse no. Forse neppure i pianificatori russi l’avevano prevista o forse solo immaginata di sfuggita. Rimane il fatto che la Federazione russa il 24 febbraio dell’anno scorso ha passato la frontiera ucraina invadendo il paese da cinque direzioni differenti. Di questo però parleremo nella seconda parte di questa ricostruzione. Alla prossima puntata.
ci saranno anche degli elementi validi nell’analisi, ma senza il sostegno della Cina e dell’India la Russia sarebbe gia’ affondata. E mentre la Cina elabora LA PRIMA VOLTA un piano di pace, nel west si assiste a dei figuri demenziali come Biden o Baerbock, di cui l’uno vede il caso Ucraina come gefundenes Fressen per distogliere l’attenzione delgli Americani dai problemi domestici, l’altra che si improvvisa diplomatico du jour non capendo nulla. Esiste pero’ Henry Kissinger la cui voce di perde nel deserto.