GUERRA RUSSO-UCRAINA – primo anniversario (seconda parte).

Nel suo racconto “Isbe e steppe”, l’allora inviato di guerra del Corriere della Sera, Lamberti Sorrentino, così descriveva i partigiani ucraini operanti nelle retrovie del fronte nel ‘43.

«Confuso, sinistro, cieco, intelligente, il partigiano porta con sé la realtà, e spera di poter divellere ostacoli, contrasti, barriere, limiti…Spesso ho pensato che costoro sparino soltanto perché un istinto più forte di qualunque paura ve li obbliga. Sbrindellati e convulsi, uccidono perché nel raggio delle loro armi non è giusto che viva nessun estraneo...“Esistiamo, vogliamo esistere esisteremo sempre, andatevene» .

Nel suo reportage si ritrova lo spirito del conflitto in atto tra Russia e Ucraina; la sua brutalità; la reazione del popolo ucraino e, forse, anche un’indicazione di come potrebbe andare a finire. Nell’attesa ripercorriamo quanto per molti, specie in Europa occidentale, appare essere una guerra incomprensibile e alle cui ragioni profonde abbiamo accennato nella prima parte di quest’articolo dedicato al primo anniversario del conflitto.

E’ tempo dunque di tornare sul campo.

il presidente della Federazione russa Vladymir Putin.

E’ ormai opinione comune che quello sofferto nelle pianure ucraine è un conflitto che nessuno voleva; almeno in queste proporzioni; ad iniziare da Putin e dalla ristretta cerchia dei suoi consiglieri. In quel circolo sembra che nessuno immaginasse le conseguenze a breve termine della decisione di risolvere per le spicce il problema della “Piccola Russia”; del suo desiderio di vera indipendenza e della sua pericolosa vicinanza alla NATO.

Una cerchia tanto ristretta quella di Putin da non coinvolgere una buona parte e della catena di comando militare che quella stessa decisione avrebbe dovuto presto implementare. L’idea era di dare una semplice e decisa spallata al gabinetto Zelensky per poi insediare a Kiev un nuovo governo più malleabile. Tutto qui.

Il presidente della Repubblica Ucraina, Volodymir Zelensky.

D’altra parte che preoccupazioni poteva mai dare all’impero russo un paese che si trovava sull’orlo della bancarotta, devastato ad ogni livello dalla corruzione e al cui vertice si trovava un ex-attore, sostenuto da avidi oligarchi e protetto da bande di hooligans conditi in salsa pseudo-nazista. Tutto sarebbe filato liscio come l’olio.

E’ stato insomma il solito binomio di scommesse ed illusioni che anima ogni possibile guerra. La scommessa si riferiva al fatto che gli ucraini fossero talmente messi male da non aver neppure il tempo di alzare un dito. L’illusione invece era addirittura doppia. Da una lato a Mosca ci si illudeva che la maggior parte degli ucraini avrebbe accolto i carri armati con ghirlande di fiori. Non era forse vero che almeno la metà del paese, compreso il suo presidente-attore, erano di madre lingua russa? Questo, per estensione del concetto, significava che sarebbero stati certamente anche russofili. Dal canto loro anche i servizi di sicurezza della federazione sembra avessero confermato la positiva predisposizione di una larga parte della gente di Ucraina a un riavvicinamento alla Grande Russia. Da anni i loro agenti avevano infatti infiltrato i gangli delle istituzioni politico-amministrative di Kiev, nonché una buona parte dell’esercito. C’era dunque da fidarsi quando nei rapporti confermavano che un’eventuale “spedizione militare” avrebbe incontrato poco più di un’opposizione formale. La seconda illusione riguardava invece la reazione del resto del mondo. Dopo il repentino e disordinato abbandono dell’Afghanistan da parte americana, Putin sembrava più che convinto che nessuno avrebbe alzato un solo dito per il suo “pronunciamento”. Era già successo per la Crimea e ancor prima per la Georgia; perché preoccuparsi?

Su questa scommessa e su una duplice illusione Mosca aveva quindi deciso che era tempo di agire. La data è nota a tutti: L’alba del 24 febbraio 2022.

Un veicolo ruotato BTR 70 dell’esercito russo nei primi giorni dell’invasione.

A quella che veniva definita come «operazione militare speciale» erano stati assegnati si e no 200.000 uomini, compresi alcune migliaia appartenenti alla Rosgvardija, la Guardia Nazionale della Federazione Russa, alle dirette dipendenze di Putin. Duecentomila uomini per ribaltare un paese grande due volte l’Italia con oltre trentacinque milioni di abitanti. Solo osservando i numeri si capisce come quella forza fosse stata pensata più per compiti di sovversione e poi di concorso in ordine pubblico che per condurre un’invasione militare.

Una indiretta conferma si avrà già nei primi giorni dell’invasione quando dalle parti di Irpin, all’interno di camion mezzo bruciati, non vennero rinvenute munizioni e armi, ma centinaia di equipaggiamenti anti-sommossa per polizia, segno che i russi si aspettavano manifestazioni, non cannonate. Analoga illusione aveva animato il comandante del settore d’invasione di nord-est, quello incaricato di marciare su Kharkiv, la più russa delle città ucraine. «Ci attendevamo di essere ricevuti con pane e sale» riferirà poi l’ufficiale «e invece ci hanno sparato addosso».

A onor del vero a non aver capito l’aria che tirava non c’erano solo i russi. Anche gli americani, che come abbiamo visto da anni sostenevano e addestravano sia l’elite politica ucraina sia il suo esercito, erano più che convinti che in caso di un’invasione russa la dirigenza ucraina si sarebbe defilata in poco tempo e il paese sarebbe in gran parte finito sotto il controllo di Mosca.

Un Antonov ucraino An-225 Mryia distrutto all’interno di un hangar dell’aeroporto di Hostomel – Kiev.

Quando all’alba del 24 febbraio, gli aviotrasportati della Vozdušno-Desantnye Vojska (VDV) di Putin tentarono di occupare l’aeroporto di Hostomel, dieci chilometri a nord di Kiev, trovarono ad aspettarli non il personale dello scalo ma i reparti della 4^ brigata di reazione rapida ucraina. E vennero fatti a pezzi.

Nelle ore in cui la frontiera russo-ucraina veniva contemporaneamente forzata lungo cinque direttrici, a Kiev il giovane presidente Zelensky sorprese tutti rifiutando il passaggio per Leopoli offerto a lui e al suo governo dagli americani. «Datemi armi, non un taxi» sembra fosse stata l’inevitabile frase storica. Per restare invece ai fatti in quelle ore il Presidente Zelensky, il suo ministro della difesa, Oleksij Reznikov e Denys Monastirsky, quarantaduenne ministro dell’interno decisero di rimanere al proprio posto. Non solo. Insieme all’alta dirigenza militare iniziarono a emanare ordini per avviare la resistenza. Tale decisione sarebbe stata forse la più importante e gravida di conseguenza di quella che ancora qualcuno si ostinava ad immaginare come una “blitzkrieg” russa.

Addestramento di base di milizie popolari ucraine nei primi giorni dell’invasione. notare la sagome in legno di fucili AK 74.

In attesa che il grosso dell’esercito fosse in grado di reagire sarebbe stato infatti necessario condurre la difesa degli abitati, interrompere, anche solo per poco, le principali vie di comunicazione; fornire informazioni dettagliate e tempestive sulla dislocazione dei reparti russi e tutto quanto sarebbe potuto servire a rallentare l’avanzata delle colonne di Putin. Gran parte di questo rischioso lavoro fu affidata a cittadini comuni. Vennero distribuite armi, costituiti piccoli reparti ma soprattutto venne data speranza alla gente d’ucraina di poter resistere e forse anche di vincere.

Nel frattempo l’inattesa e tenace resistenza causava non pochi problemi ai russi. Simbolo di quei giorni fu la colonna di oltre sessanta chilometri bloccata lungo una statale a pochi chilometri da Kiev. Quello non fu opera della resistenza ucraina, né della logistica russa ma della deficitaria pianificazione degli itinerari da parte russa che pensò bene di infilare quattro brigate di fanteria in un’unica stradina. Cose che capitano.

foto aerea della colonna di oltre 60 km alle porte di Kiev.

Mentre oltre cinque milioni di profughi, in gran parte donne e bambini, varcavano le frontiere dell’Unione Europea in Ucraina si combatteva ovunque, chi con un fucile, chi su un carro armato e chi, semplicemente con un telefonino, riprendendo le colonne russe e segnalandole ai comandi. Ben presto fu chiaro ai soldati russi che nessuno li avrebbe accolto con “pane e sale”, tutt’altro.

Ogni uomo in bicicletta, ogni donna con una borsa della spesa, ogni vecchio seduto sull’uscio di casa poteva essere stato colui che aveva fornito le coordinate all’artiglieria ucraina o ai temibili droni turchi Bayraktar TB2. In molti casi, come a Bucha, il risultato fu una strage di civili. Bastava un telefonino o fermarsi al bordo strada ad osservare qualche mezzo con la “Z” per essere un nemico.

cadaveri di civili ucraini a Bucha, sobborgo di Kiev.

La paura come il coraggio sono contagiosi e la determinazione dimostrata dalla gente di Kiev, Irpin, Chernikiv, Sumi, Kharkiv o Mariupol convinsero i nuovi amici di Kiev, in primo luogo gli USA, che tanto valeva aiutare Zelensky nel suo tentativo apparentemente disperato di non essere inghiottito dall’orso russo.

Come ebbe a commentare l’ex ambasciatore americano Charles Freeman, la reazione ucraina all’invasione russa, dopo l’iniziale sorpresa, poteva rappresentare per Washington un’inattesa opportunità strategica; quella cioè di trascinare la Russia in un duro conflitto che ne avrebbe spento per lungo tempo ogni ambizione di tornare ad essere una grande potenza planetaria.

Dopo l’iniziale avvicinamento dei primi anni 2000, USA e Federazione russa si erano infatti man manoi allontanati fino a divenire apertamente avversari. Era solo il 2021 quando Biden definiva Putin un assassino e un macellaio e l’inquilino del Cremlino ricambiava carinamente Washington con accuse di neo-imperialismo, mollezza e di depravazione dei valori morali. In subordine quello che l’America sembrava temere era l’avvicinamento della Russia ad alcuni paesi europei, come Germania e Italia e ancor più quello alla Cina di Xi Jinping. Meglio quindi fiaccare quanto più possibile Mosca e consegnare a Pechino un alleato che avrebbe portato con sé più problemi che vantaggi.

Per tornare in ambito europeo occidentale c’era anche da sistemare la faccenda della Germania che sempre di più sembrava voler sviluppare una propria politica nei confronti della Federazione russa. La joint venture in tema di energia, rappresentata plasticamente dalla costruzione del gasdotto north stream 2 non era mai piaciuta a Washington. Lo stesso per le scelte operate nel settore energetico dall’Italia, legata a doppio filo al gas di Putin. Insomma una guerra che avesse compromesso Putin e il suo entourage capitava proprio a fagiolo.

Washington decise quindi di avviare una sorta di “piano marshall” militare a favore di Kiev esercitando contemporaneamente una forte pressione verso tutta la Unione Europea affinché si allineasse disciplinatamente alle nuove parole d’ordine. La spedizione di Putin era riuscita in pochi giorni a ricompattare l’alleanza atlantica che solo due anni prima il presidente francese Macron aveva definito: «in stato di morte celebrale», mentre per il presidente Trump: «era  obsoleta e non più in grado di contrastare efficacemente le vere minacce poste dall’attuale scenario internazionale».

Anche l’Unione Europea, messa di fronte all’evidenza di essere poco più che un unione monetaria e una comunità di mercati, incapace perciò di una qualsiasi risposta politica, optò per una serie di sanzioni economiche e finanziarie che nell’intenzione dei promotori avrebbero in breve messo in ginocchio la Russia. Anche in questo caso si trattava di una scommessa e di un’illusione, ma questo aspetto esula dagli scopi di questo scritto. Basti però ricordare come le previsioni di allora avevano ipotizzato un crollo del 13% del PIL della Federazione russa, mentre oggi – fonte il Fondo Monetario Internazionale – siamo si e no al 2,8%. Anche l’industria bellica che sarebbe dovuta essere stata messa in ginocchio dal blocco delle importazioni viaggia invece verso la quasi completa riconversione alle esigenze della guerra. Grazie al contrabbando internazionale e alla naturale predisposizione russa a tenersi pronti alla guerra è stato dunque possibile alimentare quella che il poeta inglese Owen chiamava “la fame vorace dei cannoni”.

Stabilimento in Siberia per la produzione di veicoli cingolati per la fanteria tipo BMP e BMD.

Intanto sul terreno i primi mesi successivi all’invasione vedevano il fallimento dell’ipotesi golpista. A nord le colonne militari si erano arrestate a una decina di chilometri da Kiev, senza avere né l’intenzione, né la forza di entrare in città. A nord-est, lungo il confine tra Russia e Ucraina, le cose non andavano meglio. Sumi era sotto attacco, Chernochiv anche, e  Kharkiv, la seconda città dell’Ucraina, completamente russofona, resisteva accanitamente. Insomma nei settori nord e nord-est le cose andavano male.

Qualche limitato successo era stato ottenuto in Donbas e soprattutto verso il Mar d’Azov dove Berdiansk e Mariupol erano in mano russa. L’unico vero successo di questa sgangherata campagna era stato fino ad allora la presa di Kherson, avvenuta quasi senza colpo ferire, anche grazie alla benevola complicità dei difensori ucraini i cui comandanti non s’erano certo troppo affaticati nel respingere gli invasori provenienti dalle Crimea. Il controllo di Kherson non era cosa di poco conto.

lI canale nord Crimea garantosce approvigionamento idrico alla Crimea settentrionale

Con la città in mano Putin poteva infatti garantirsi il controllo sul canale nord Crimea, l’arteria che dal Dnepr assicura il rifornimento di acqua alla Crimea settentrionale. Kherson sarebbe inoltre potuta diventare la piattaforma dalla quale lanciare la temuta offensiva contro Odessa. In questo schema di manovra rientrava pienamente anche la presa dell’Isola dei serpenti, uno scoglio disabitato alla foce del Danubio noto per custodire forse la tomba di Achille e per controllare gli accessi al porto di Odessa e a quello di Costanza. L’occupazione russa durò poco grazie ai continui bombardamenti missilistici ucraini.

Fotografia aerea dell’Isola dei Serpenti.

Gli stessi erano anche i giorni in cui a Mariupol si consumava il dramma della AZOVSTAL, l’immenso impianto siderurgico dove combattenti del reggimento Azov, fanti di marina e qualche altro volontario resistevano ad oltranza. Mariupol, porto di sbocco dell’intero Donbas, era ormai perduta ma la resistenza dell’acciaieria aveva un altissimo valore simbolico. Di fronte al mondo intero si dimostrava che l’Ucraina non si sarebbe arresa, costi quel che costi.

L’acciaieria AZOVSTAL di Mariupol.

Nella tarda primavera l’evidente fallimento dell’idea operativa di un attacco contemporaneo lungo cinque direttrici aveva indotto il comando russo a rivedere i piani. Nuova pianificazione e nuovi obiettivi per evitare a Putin di dover ammettere che il suo brillante piano era stato respinto dall’impatto con la realtà.

La Federazione russa scoprì allora che il vero obiettivo dell’intera operazione speciale non era affatto rovesciare Zelensky e trasformare l’Ucraina in una seconda Biellorussia, per carità. Fin dall’inizio il vero obiettivo era stato liberare le minoranze russe oppresse in Donbas e mettere al sicuro la Crimea. Non era un gran che ma sarebbe stato meglio che niente.

A questo riguardo le forze impegnate nel settore nord e nord-est vennero fatte rientrare in Russia, ricondizionate, nuovamente equipaggiate e spedite in Donbas. Tuttavia, dopo otto anni di guerra proprio nel Donbas l’esercito ucraino aveva concentrato il meglio delle proprie truppe e allestito solide linee difensive. Per nulla scoraggiati i russi passarono comunque all’offensiva. Un’offensiva metodica, pesante e lenta che portò alla conquista di Severodonetz e della gemella città di Lisichansk. Poi più nulla.

Lanciarazzi multiplo russo TOS-1 A. Ricavato dallo scafo del carro armato T 72, il TOS-1 lancia 24 razzi da 220 mm,

Nel Donbas, man mano infatti che ci si avvicinata al cuore della linea difensiva ucraina, quella per intendersi allestita già nel 2014, le cose per le fanterie di Mosca si facevano sempre più dure fino a determinarne l’esaurimento.

In campo internazionale, tra il blocco dei paesi che costituivano il fronte pro-Ucraina, non ci si accontentava più delle sole sanzioni. L’enorme attrito della guerra aveva infatti convinto Washington e molte altre capitali a rastrellare ogni carro, ogni obice e ogni cingolato di produzione ex-sovietica ancora disponibile e a spedirlo al fronte ucraino. In prima fila la Polonia che alla fine avrebbe fornito quasi 240 carri armati T72MR insieme a svariate centinaia di BMP2, poi 2.500 fucili d’assalto dalla Finlandia, elicotteri dalla repubblica Ceka, 8 obici semoventi dalla Slovacchia e via così. Persino la neutralissima Svezia aveva pensato di inviare quasi 10.000 AT4, lanciarazzi controcarri del tipo spara&getta.

Naturalmente la parte del leone l’avrebbero fatta gli Stati Uniti che avrebbero rifornito l’arsenale ucraino di moderni obici M777 a traino meccanico, obici semoventi M109 L, trasporti truppe, munizioni a vagoni e soprattutto i nuovi lanciatori HIMARs, missili a guida GPS in grado di colpire un terrazzino a 70 km di distanza.

Lanciatore USA HIMARS

Sul fronte opposto anche la Russia stava accusando una certa crisi di munizionamento, soprattutto in campo missilistico. La campagna di lancio iniziata a fine febbraio si stava protraendo ormai da alcuni mesi al ritmo di 70/100 missili al giorno; troppo anche per i consistenti arsenali dell’orso russo. Meglio quindi ricorrere a qualcosa di molto più economico e altrettanto efficacie: i droni iraniani Shahed 136, trabiccoli spinti dall’equivalente di un motore per APE Piaggio, ma in grado di portare una trentina di chilogrammi di esplosivo a oltre 200 km di distanze e soprattutto disponibili per poche migliaia di dollari l’uno.

Droni iraniani Shahed 136.

La primavera andava ormai declinando nell’estate.  Da parte russa i roboanti proclami di Medvedev minacciavano cataclismi all’occidente e si sovrapponevano alle minacce non tanto velate di uso estremo dell’arma nucleare. La televisione russa magnificava la nuova generazione di armi ipersoniche, capaci di viaggiare da 10 a 100 volte la velocità del suono (320 m/sec) e in grado di colpire chiunque in un lampo. Venne evocato anche il super-siluro “poseidon” in grado addirittura di: “affondare la Gran Bretagna”. Quella che invece il 14 aprile affondò davvero fu invece l’ammiraglia della flotta russa nel mar Nero: l’incrociatore lanciamissili “Moskwa”, colpita, sembra, da missili ucraini Neptune.

l’affondamento dell’incrociatore russo Moskwa.

Non era certo la prima nave russa ad essere colpita. C’era stata la fregata lancia missili Admiral Makarov colpita al largo dell’isola dei serpenti e prima era toccato alla nave anfibia Saratov, della classe Alligator, distrutta mentre era ancorata nella città ucraina di Berdiansk.

barchino esplosivo ucraino.

Sul piano internazionale altre brutte notizie per Mosca. A metà maggio, dopo due secoli di neutralità  la Svezia faceva richiesta di ammissione alla NATO in contemporanea alla Finlandia che anch’essa aveva passato gli ultimi settanta anni in vigile neutralità. In termini strategico-operativi ben presto il mar baltico si sarebbe trasformato in una lago della NATO in cui la base russa di Kalinigrad sarebbe rimasta intrappolata. Certo, qualcuno avrebbe potuto obiettare che anche Mosca s’era presa tutto il Mar d’Azov, ma la valenza geo-strategica dei due era imparagonabile.

L’estate si avvicinava e con essa la ripresa delle operazioni su ampia scala. Tuttavia dopo mesi di combattimenti durissimi l’iniziativa stava per passare in campo ucraino. Si iniziò con una operazione di maskirovka in perfetto stile sovietico, vale a dire far credere ai Russi che la grande offensiva, sostenuta e alimentata dall’Occidente si sarebbe sviluppata proprio a sud, tra Kherson e Zaporizhzhia, allo scopo evidente di tagliare in due il corridoio che nel frattempo i russi avevano faticosamente costruito tra il Donbas, quasi conquistato e la Crimea occupata. I russi ci avevano creduto al punto da concentrare ad est del Dniepr il meglio delle loro forze, anche a costo di sguarnire il settore nord, quello di Kharkiv, ritenuto più tranquillo. Ma proprio contro Kharkiv l’esercito ucraino aveva scatenato l’attesa offensiva. Fin dal primo giorno era apparso chiaro che i russi erano rimasti davvero sorpresi. I reparti di Kiev penetravano per chilometri in territorio occupato senza incontrare alcuna resistenza. Centinaia di mezzi, carri armati, obici di artiglieria e munizioni giacevano abbandonati nei depositi, divenendo preziosissima preda bellica per l’asfittica logistica di Kiev. Alla fine di settembre l’armata russa sembrava a un passo dal collasso, ma quel passo non fu fatto.

Per stanchezza dei reparti ucraini, per l’allungamento delle linee logistiche o per inasprimento della resistenza russa ad ottobre l’offensiva che sembrava essere in grado di ricacciare i russi da dove erano venuti si era esaurita. Alla fine il bilancio per Kiev era stato più che positivo: l’intera regione di Kharkiv era stata liberata; la rete ferroviaria e stradale – vero punto vitale della logistica russa – erano ora in gravissima difficoltà per tacere del grande successo ottenuto di fronte all’opinione pubblica mondiale.

Per far fronte alle gravi perdite subite e anche per annunciare che la Russia non avrebbe mollato tanto facilmente, il 21 settembre Putin annunciava la mobilitazione parziale di oltre 250.000 coscritti delle classi da poco congedate. Non fu un gran successo, non tanto per la renitenza di molti, che per altro ci fu, ma per la grave disorganizzazione della macchina di reclutamento russa, ormai da anni adeguatasi alle esigenze di un esercito professionale. Censire, avvertire, sottoporre a visita medica, assegnare alle unità addestrative, equipaggiare e armare migliaia e migliaia di giovani recalcitranti non era infatti impresa facile. I primi o forse semplicemente quelli con minore specializzazione vennero subito spediti sulla linea del fronte del Donbas dove c’era semplicemente da tener duro. Gli altri vennero inviati ai centri di addestramento per trasformarli in soldati impiegabili per il resto della guerra.

Qualche scossone la serie di rovesci militari l’avevano dato anche ai vertici dell’operazione militare speciale. Da ricordare la sostituzione a capo delle operazioni in Ucraina del generale Dvornikov con Sergej Surovikin, un roccioso siberiano il cui soprannome è tutto un programma: “Armageddon”. Sarà lui a inaugurare la campagna di bombardamento missilistico su Kiev, Zaporizhzhia, Dnipro, Mykolaiv, Zhytomyr, Ternopil e Lviv e sempre a lui si dovrà la decisione di abbandonare Kherson, «il balcone su Odessa», divenuto ormai indifendibile e dove circa 20.000 soldati russi rischiavano di rimanere intrappolati.

Il resto, da ottobre ad oggi, è cronaca quotidiana. Due eserciti che si massacrano vicendevolmente su una linea del fronte ormai fossilizzata. Minime oscillazioni quotidiane, perdita e conquista di pochi chilometri, a volte di qualche centinaia di metri; costanti bombardamenti di artiglieria rappresentano il filo conduttore di questi mesi. Come nel 1916 o nel ’17 si resta in attesa della prossima e definitiva vittoriosa offensiva. Oppure se non della pace almeno di un cessate il fuoco, ma per questo dovremo ancora attendere per poterne raccontare.