Peggio di così si muore. che peso hanno ottimismo e pessimismo nelle relazioni tra stati?

Nel 1958 l’Italia si trovò a volare “..nel blu dipinto di blu” . La dittatura era finita e con essa le bombe sulle città e le sirene degli allarmi antiaerei; erano arrivati i soldi del piano Marshall, i partiti e le elezioni. Le donne finalmente votavano. A guardare da vicino le condizioni del paese, uscito sconfitto dalla guerra, c’era poco da stare allegri eppure quaranta milioni di italiani volavano nel cielo infinito credendo che un giorno così non sarebbe tornato mai più.

Domenico Modugno nel 1958 canta a San Remo “Nel blu dipinto di blu”.

Appena dieci anni dopo, nel 1968, la stessa gente si avviava verso la depressione pessimistica degli anni di piombo. La cupezza dell’era  brezneviana, l’inamovibilità del potere democristiano, l’inutile agitarsi del partito comunista e dei sindacati, la presa di coscienza che ormai – volenti o nolenti – si faceva parte di un sistema, ci avevano risvegliati dal sogno e fatto tramontare il sol dell’avvenir. Al loro posto dalle tenebre apparvero le P38 e le bombe nelle stazioni. Cosa era cambiato da quando volavamo nel blu? Non molto, anzi molte cose erano addirittura migliorate. Migliori erano le condizioni di vita, i redditi, l’istruzione e non si sognava più la Vespa ma la Fiat 127. Ad essere cambiata era però l’aspettativa per il futuro. Eravamo diventati pessimisti.

16 aprile 1970, Genova. Omicidio di Alessandro Floris da parte dei Gruppi di Azione Partigiana.

Partiamo dunque da questo amarcord per tentare di comprendere in che mondo ci stiamo muovendo oggi. Le condizioni al contorno sono note: due anni di pandemia planetaria e nessuna certezza di esserne usciti; una guerra locale ma dalle ripercussioni globali; cambiamenti climatici in apparenza inarrestabili; movimenti migratori di dimensioni bibliche; un sistema sempre meno economico e sempre più speculativo; diseguaglianze sociali; collasso del welfare state; sfiducia nella democrazia e altre piaghe formano lo sfondo contro il quale ci muoviamo.

Siamo dunque sicuri che questo sia davvero il peggior momento attraversato dal pianeta negli ultimi cento anni? Sembra che d’improvviso ci siamo tutti dimenticati di aver superato due conflitti mondiali e un’epidemia di influenza che insieme hanno fatto più di cento milioni di morti.

La fine del secolo breve e il collasso delle idealità e delle ideologie hanno lasciato in piedi il Pessimismo e l’Ottimismo; ultime ideologie praticabili; gli ultimi grandi racconti per interpretare la realtà e i suoi accadimenti.

Il fondamento di entrambi è fragile, a volte banale, tutt’altro che teoretico; di solito caratteriale, anzi peggio, umorale. Ottimismo e Pessimismo non sono in realtà visioni del mondo ma stati mentali di chi lo guarda.

Nell’epoca del bipolarismo umorale la sintesi gramsciana  di pessimismo della ragione contrapposto all’ottimismo della volontà, dice poco. Tuttavia la riflessione su come questi due sentimenti siano in grado di modificare l’agire non solo degli individui ma di stati e sistemi di stati non è affatto banale.

 “Il mondo all’inizio del ventunesimo secolo scriveva nel 2006 il politologo americano Joseph Nye –  è uno strano cocktail di continuità e cambiamento. Alcuni aspetti della politica internazionale non sono cambiati da Tucidide“. Si parla quindi di potere, delle sue caratteristiche e del modo di esercitarlo.

Joseph Nye , inventore della definizione di soft-power.

In generale la gente crede che in un paese il potere risieda nella sua capacità di costringere qualcun altro a fare ciò che si vuole; con le buone o con le cattive. Qualcun altro, più esperto, lo associa alla capacità militare o alla forza economica. Entrambe le osservazioni sono senz’altro vere, ma risultano incomplete. E’ infatti necessario introdurre almeno un ulteriore fattore: le aspettative con cui una potenza guarda al futuro e quanto i suoi leader credono o meno in un destino positivo.

Se i leader hanno una visione pessimistica del futuro saranno infatti portati a correre maggiori rischi nel presente per arrestare il possibile declino. Al contrario una leadership ottimista sarà maggiormente disposta a una sorta di “pazienza strategicache si ritiene porterà i suoi buoni frutti nei giorni e negli anni a venire. Si parla in altri termini di soft-power.

Il termine soft power è stato coniato per la prima volta sul finire degli anni ’80 del secolo ancora da Joseph Nye. Per soft power Nye intendeva la capacità di un governo di avere successo in ambito internazionale tramite l’uso di strumenti immateriali. Una modalità quindi contrapposta all’utilizzo della forza o della pressione altrimenti detta hard-power.

Sempre secondo Nye, il potere di uno Stato consiste nella “capacità…di persuadere gli altri a fare ciò che vuole senza forza o coercizione”. Ma non solo, il soft power è anche “la capacità di plasmare i propri atteggiamenti e preferenze a lungo termine con l’aiuto delle sue società, fondazioni, università, chiese e altre istituzioni della società civile”. Un Paese può quindi mantenere o accrescere il proprio potere non solo e non sempre con le corazzate e le portaerei, ma anche diffondendo la propria cultura, i propri ideali e i propri valori. A patto di avere molto tempo.

L’impero americano e la sfida cinese da “Limes, rivista italiana di geopolitica”

Alcune forme di potere si caratterizzano infatti anche rispetto al tempo. E’ questo il caso del potere militare o della pressione economico-commerciale che si esercitano nella dimensione del “qui e adesso”. Hard power e il soft-power hanno quindi caratteristiche profondamente diverse. Il primo agisce nell’immediato, alla ricerca di risultati rapidi e risolutivi basandosi sulla coercizione e sulla forza. Una potenza che decida di conservare o ampliare il proprio potere attraverso l’hard power trarrà la sua forza dalla capacità di incutere timore e di minacciare i sui avversari di sventure future. I suoi strumenti saranno il potere militare, la minaccia, la pressione economico-commerciale. Al contrario una potenza che privilegi una strategia di soft power si muove su una linea temporale molto più estesa. Essa punta a creare un modello, un’immagine che sia accattivante e attrattiva per chi sta intorno. Essa sceglie di agire con altri genere di potere, quali quello culturale o sociale, con l’innovazione tecnologica; nel campo dei valori condivisi, tutti elementi che producono i loro effetti nel lungo periodo.

Una scena da “Full Metal Jacket”.

Noi siamo qui per aiutare i vietnamiti, perché dentro ogni muso giallo c’è uno che sogna di diventare americano.” tuonava nel 1987 il colonnello Poge in Full Metal Jacket, riassumendo così involontariamente l’essenza stessa del soft power: fornire non solo un sogno, ma anche i mezzi e la via per raggiungerlo.

A questo punto verrebbe da chiedersi perché mai ci si dovrebbe votare ad esercitare una forma aggressiva e costosa di potere quando si potrebbero raggiungere obiettivi analoghi se non migliori con un approccio molto più inclusivo e tranquillo. La risposta sta nel tempo necessario a conseguirli. E’ infatti bene sottolineare ancora che l’hard-power ha bisogno tutto sommato di mezzi limitati e di un tempo breve per imporsi. Il soft-power necessita invece di tempi estremamente dilatati, di complesse architetture politiche, finanziare, sociali e culturali in grado di attualizzarsi al continuo mutare degli eventi.

Volendo indicare due esempi noti a tutti è facile indicare nella Russia di Putin il paradigma della potenza che ha scelto l’hard-power, mentre sul lato opposto si potrebbe pensare agli Stati Uniti che dalla fine della prima guerra mondiale hanno tentato, con periodici svarioni, di creare attorno a sé l’alone della potenza gentile, che combatte per nobili cause e fornisce al resto del mondo il modello della società libera, prospera e democratica in cui ogni uomo vorrebbe vivere, proprio come urlava il colonnello nel film di Kubrick.

Quando ci si riferisce a modelli di potere è tuttavia necessario rammentare che si è di fronte a un simulacro enormemente lontano da categorie come la realtà o la verità. Per questo pensare alla  Russia come all’Impero del Male è solo propaganda così come quando si guarda  agli USA come al Grande Satana. Carota o bastone non sono altro che maniere diverse di esercitare lo stesso potere che la dimensione geografica, la potenza economica, la forza militare e la demografia hanno conferito ad alcuni Stati e non ad altri.

La portaerei statunitense USN – Henry Truman

Chiariti alcuni concetti su cosa si intende per hard o soft-power è tempo di guardare come le classi dirigenti propendano per l’uno o per l’altro non solo in funzione delle risorse materiali e delle capacità oggettive di cui dispongono, ma anche in funzione delle loro aspettative per il futuro.

Leadership pessimiste saranno tentate di agire nel presente per ottenere rapidi risultati in quanto ritengono, o anche solo temono, di non aver abbastanza tempo per conseguire qualche vantaggio nel futuro. Potrebbero essere definiti come coloro i quali preferiscono l’uovo oggi. Sono loro che preferiscono ricorrere alle cosiddette “capacità cinetiche” quelle cioè in grado di modificare la situazione in campo in tempi rapidi. Tra di esse è naturale pensare in primo luogo alla potenza militare, alla capacità di proiezione di consistenti forze da combattimento in teatri lontani e alla capacità di sostenerle per tempi consistenti. Ma anche alla capacità finanziaria ed economica, alla struttura produttiva o alla sua capacità di penetrazione dei mercati.

Anche la tutela del brevetti, la falsificazione di massa, il dumping, le sanzioni economiche ed altro possono essere strumento di un potere che preferisce navigare a vista piuttosto che avventurarsi in strategie di lungo respiro. Questo non vuol dire che una leadership che eserciti preminentemente l’hard-power, non abbia una visione strategica a lungo termine, ma solo che non annette ad essa la stessa importanza che invece vi riservano le potenze che confidano nella gallina di domani.

I governi con positive aspettative per il futuro si muovono infatti in direzione opposta. Essi hanno fiducia che il loro ascendente nell’ambito della comunità internazionale seguirà un trend positivo per lungo, lunghissimo tempo. Ecco perché sono disposti ad investire tempo e ingenti risorse nella governance globale, nella diplomazia culturale, nella cura e nel sostegno ad alleanze politico-militari di lungo periodo, nelle partnership con potenze minori, nel progresso tecnologico e così via.

Chi, possedendo una visione ottimistica del futuro, ha puntato sugli strumenti del soft-power è in grado di dare del concetto di potere una definizione molto più ampia ed articolata di quanto sia in grado di fare chi ha scelto la via delle armi e della pressione.

La volontà di presentarsi al mondo come modello impone infatti di battere strade diversissime e spesso sconosciute, ciascuna delle quali porta a una definizione particolare del potere. Come definire, ad esempio, la capacità di mobilitare milioni di uomini in virtù di una fede religiosa? E come giudicare la possibilità di indirizzare intere società verso modelli di consumo, ideologie o semplicemente mode? In sintesi quanto è potente colui che è in grado di rendersi attrattivo per altri? In questo contesto la frase di Stalin che chiedeva quante fossero le divisioni del papa risulta oggi del tutto superata oppure, prendendo a prestito la definizione del sociologo Steven Lukes “ più ampia è la visione che si ha del potere, maggiore è la capacità di individuarne le diverse forme nel mondo”.

Detto questo viene da chiedersi cosa succede alle grande potenze quando queste hanno una visione pessimista o ottimista del futuro? E ancora più interessante è domandarsi cosa può accadere quando tutte e contemporaneamente condividono la stessa visione?

Se si guarda al passato si scopre che quando le leadership di grandi potenze hanno condiviso una positiva visione del futuro si sono avute numerose e persino frequenti aree di confronto, ma pochissime guerre.

Al contrario un mondo offuscato dal pessimismo spinge ad enfatizzare le possibilità offerte dalla forza militare impiegata anche in misura preventiva. Definizioni come la “guerra preventiva” della dottrina Bush o la putiniana“operazione militare speciale” suonano perciò familiari in questo contesto in cui il ricorso alle armi è di gran lunga più probabile che nell’altro.

Di per sé il pessimismo non accresce né crea i punti di contrasto o le dispute internazionali, ma può modificare il modo e i tempi con cui affrontarli. La questione di Taiwan; il controllo degli stretti; il problema palestinese; il senso di accerchiamento della Russia; il problema siriano; il confronto Iran-Arabia Saudita o il desiderio di aprirsi al Pacifico della Cina sono elementi di crisi preesistenti a qualunque sentimento. Tuttavia quando i principali attori che vi intervengono si muovono in un’atmosfera cupa e fredda gli strumenti scelti per governarli o risolverli possono essere davvero pericolosi. Le parole di papa Francesco che meno di un mese fa ammoniva che si era in presenza della “terza guerra mondiale a pezzi”, sembrano confermarlo.

C’è solo il pessimismo o l’ottimismo a governare le scelte delle potenze? Certamente no. Determinante è anche quanto una potenza sia consolidata oppure sia in una fase emergente. Una potenza consolidata come ad esempio gli Stati Uniti o nel passato la Gran Bretagna, guarda al futuro in modo simile rispetto ad una potenza nascente quale possono essere ad esempio la Cina di oggi o la Francia di ieri.

Entrambe possono condividere la percezione che i giorni a venire saranno carichi di meraviglie; tuttavia, una potenza ormai consolidata può essere tentata dall’attingere a tutti gli strumenti del potere, inclusa la forza militare, mentre uno stato che si sta affacciando nel ristretto ambito delle potenze preferirà mantenere un profilo più basso, evitando di suscitare sospetti o sensazioni di insicurezza nelle potenze consolidate che comprometterebbero il proprio cammino.

Una visione ottimista può anche spingere una potenza già consolidata a considerare transitorie e gestibili le eventuali crisi che fosse chiamata ad affrontare. Ciò non significa che le potenze egemoni che esercitano il soft-power non agiscano per contenere o mitigare gli effetti di una politica revisionista da parte di altre potenze concorrenti; Sia le potenze consolidate sia quelle emergenti condividono dunque l’interesse a evitare ogni confronto militare nel medio-lungo periodo.

Cosa succede invece quando le principali potenze hanno un approccio pessimistico al futuro? E’ facile dire che ci si troverà in un mondo di gran lunga più pericoloso. In questo contesto tutti guardano innanzi tutto al potere militare sia proprio sia in relazione a quello posseduto dalle potenze se non ancora nemiche almeno avversarie. In questa prospettiva anche una potenza nascente potrebbe considerare vantaggioso il ricorso alla forza per sfruttare quella che è percepita come una limitata finestra di opportunità.

Un esempio di tale dinamica è rintracciabile negli anni che precedettero la prima guerra mondiale. All’inizio del secolo la potenza egemone -l’impero britannico – aveva tutto l’interesse a mantenere una situazione di pace e di equilibrio generale affidandosi non solo alla sua rete commerciale e finanziaria, ma anche alla potenza della flotta oceanica. Negli stessi anni un’altra potenza, questa volta terrestre – la Russia zarista –reduce da una sonora sconfitta militare in estremo oriente e già preda dei primi fermenti rivoluzionari – si era decisa a iniziare una rapida svolta modernizzatrice a partire dall’apparato militare e in particolare dalla flotta oceanica che così male aveva figurato. Il terzo attore di questo precario equilibrio di potenze – la Germania guglielmina – stava invece velocemente scalando i gradini di potenza mondiale e puntava a divenire quella egemone nell’Europa continentale. Già sul finire dell’800 Berlino aveva raggiunto il primato industriale ed era una primaria potenza militare terrestre, tuttavia le mancava la disponibilità di una flotta in grado di competere con quella britannica e avvertiva già chiara la minaccia di quella russa in divenire. Pressata a ovest dallo strapotere britannico sui mari e ad est dal riarmo russo la Germania ritenne allora di essere sul punto di perdere la sua chance. In altri termini, assecondando una visione pessimistica del futuro, Berlino interpretò la situazione come la chiusura della sua finestra di opportunità. Ecco quindi che l’opzione militare, in un’atmosfera di generico pessimismo per il futuro, venne considerata una strada praticabile e forse anche vincente. Il pessimismo e la fretta della Germania e il suo conseguente veloce riarmo coinvolsero tutte le altre potenze europee che seguirono ciò che è comunemente noto come “paradosso della sicurezza”. Il resto è cosa nota.

Alla luce di quanto detto come dovremmo interpretare il periodo che stiamo vivendo? Durante il primo ventennio di questo secolo la Cina, nuova potenza emergente, si è comportata come una potenza ottimista. Il prodotto interno lordo saliva in Cina più di qualunque altro paese al mondo, l’economia era in piena espansione e dopo l’iniziale fuoco di Tienanmen nel 1989 non c’erano più significativi movimenti di opposizione al Partito e soprattutto, nessuna tra le altre potenze aveva percepito la Cina come un pericolo, anzi tutt’altro.

Tutto ciò aveva portato la leadership cinese a mantenere una visione ottimista del futuro e di conseguenza a potenziare tutti gli strumenti del suo soft-power. Sono questi gli anni in cui la Cina si proponeva al mondo anche come potenza culturale e come modello per lo sviluppo ai paesi del cosiddetto “terzo mondo”. Prestiti, apertura di scuole, realizzazione di importanti infrastrutture, aperture di reti commerciali in Asia, Africa e persino in Europa hanno rappresentato gli strumenti di questa Cina dal volto umano. L’aspetto della potenza militare, se pur non certo trascurato, veniva posto in secondo piano dai dirigenti di Pechino, soprattutto per non indispettire o meglio insospettire la grande talassocrazia planetaria degli Stati Uniti.

 Tuttavia, mentre il leader cinese Xi Jinping consolidava la sua presa sul potere l’ottimismo di Pechino ha iniziato a declinare e non senza ragione. La Cina ha avuto tassi di natalità sotto il livello di sostituzione per 30 anni e i recenti sforzi del governo per aumentarli si sono dimostrati vani. Ecco quindi il primo timore: la Cina potrebbe invecchiare prima di diventare ricca. Allo stesso tempo, le politiche anti-Covid, protratte per oltre due anni, hanno fortemente irritato l’opinione pubblica interna oltre a rallentare fin quasi a bloccare la filiera mondiale delle merci.

Anche le prospettive economiche negli ultimi anni sono state riviste al ribasso. Sebbene tra il 2000 e il 2010 la crescita del Gigante asiatico sia stata strabiliante, il suo rallentamento negli ultimi dieci anni è stato altrettanto forte. La crescita del PIL cinese è scesa da un picco del 14% nel 2007 a poco più del 2% nel 2020. Anche in termini di produttività, a partire dalla grande crisi finanziaria del 2008, la Cina sta rallentando. Il rapporto debito-PIL è quasi triplo a quello degli Stati Uniti. La futura crescita economica del paese sembra dunque assai meno promettente di quanto appariva solo vent’anni fa.

Anche le riforme introdotte da Xi Jinping hanno avuto scarso successo. Nello specifico queste avevano riguardato il problema dell’inquinamento delle aree urbane e industriali; l’altissimo debito pubblico degli enti locali; la dipendenza della crescita economica dalla confisca dei terreni privati e comunitari da parte dello stato e l’allentamento della politica del “figlio unico”.  Da più parti quindi si inizia a pensare che alla Cina rimangono ancora pochi anni prima che la crescita si esaurisca.

Se la Cina non è al suo massimo, anche gli Stati Uniti non stanno vivendo il loro momento migliore. Entrambi i paesi stanno invecchiando. L’immigrazione negli Stati Uniti,- tradizionale fonte di forza demografica- si sta prosciugando. Secondo lo US Census Bureau, negli Stati Uniti ci sono attualmente due milioni in meno di immigrati in età lavorativa rispetto agli anni precedenti il 2020. Ci sono  poi da considerare gli effetti sistemici dell’epidemia di Covid, le turbolenze finanziarie, la contrazione della catena degli approvvigionamenti mondiali. Non ultimo la polarizzazione della partecipazione alla vita pubblica che insieme alla disaffezione di larghe parti della popolazione americana alla politica fanno temere qualcuno per lo stesso futuro dell’Unione. Tutto questo spinge gli USA a vivere o a ritenere di vivere ormai fuori dal “secolo americano” trionfalmente annunciato all’indomani della fine della guerra fredda. Sia l’attuale presidenza Biden sia quella precedente di Trump si sono mosse in questo clima di pessimismo. Il trumpiano “Make America great again”sta lì a testimoniare come oltre Atlantico forse non ci si senta più così grandi.

E la Russia? Nonostante tutti i suoi discorsi sul ripristino della grandezza russa, il presidente russo Vladimir Putin ha una visione del mondo pessimista, e questo spiega almeno in parte la sua decisione di invadere l’Ucraina nel febbraio dello scorso anno. In verità c’è da considerare che nel corso della sua storia plurisecolare la Russia non ha mai perseguito alcuna strategia di softpower, preferendo a qualsiasi accattivante politica di lungo respiro il brutale utilizzo della forza per risolvere le crisi che man mano si sono affacciate nel suo spazio geopolitico e riaffermare il suo essere grande potenza. Autocrazia, potere militare e minaccia nucleare sono stati gli strumenti dell’hardpower prima sovietico e ora putiniano.

Gli interventi russi del 2014 in Crimea e nell’Ucraina orientale sono dunque perfettamente congruenti all’approccio che abbiamo definito dell’uovo oggi. Invece di puntare su una seduttiva politica di inclusione dei paesi dello spazio ex-sovietico, la Federazione russa ha preferito continuare a proporsi come l’orso in grado di sbranare chiunque in qualsiasi momento. Per tutta risposta, a fronte delle sempre più pressanti e perentorie indicazioni di Mosca l’Ucraina si è mossa rafforzando le proprie capacità militari e avvicinandosi alla NATO e all’Unione europea. Nella sua visione pessimistica del medio-lungo periodo Putin ha perciò pensato di dover agire rapidamente e con la forza, prima che Kiev sfuggisse completamente alla sua sfera di influenza.

Il sorprendente corso della guerra ha probabilmente alimentato ulteriormente il pessimismo di Putin e ha incoraggiato anche il pessimismo di Pechino. I funzionari cinesi probabilmente si aspettavano una risposta occidentale frammentaria e inefficace alla guerra della Russia. Non c’è da stupirsi che Xi Jimping abbia accettato una “amicizia senza limiti” con Putin agli inizi dell’invasione.

Dopo più di un anno di guerra, di fronte ad uno stallo militare, alla risoluta reazione occidentale e alla compromissione della sua rete commerciale, la posizione della Cina sembra molto più vulnerabile. Il sostegno di Pechino alla Russia ha lasciato i suoi vicini asiatici più diffidenti verso le intenzioni cinesi. È impossibile per i funzionari cinesi guardare alla difficoltà che la Russia sta avendo nel sottomettere il suo vicino senza considerare i paralleli con Taiwan.

Se Xi Jimping, assecondando una visione pessimista del futuro, vedrà che la sua finestra di opportunità si sta chiudendo per l’unificazione forzata di Taiwan alla Cina popolare, potrebbe essere tentato di agire preventivamente. Le frequenti esercitazioni cinesi nello stretto di Formosa e attorno all’isola non fanno che alimentare i sospetti in tal senso.

In conclusione possiamo affermare che si stia vivendo una fase in cui i maggiori attori mondiali: Cina, USA e Russia – hanno una visione pessimista del proprio futuro. Al termine di questo ragionamento ci si sarà resi conto come l’Unione europea non sia stata neppure citata e con ragione. In tempi che si ritengono cupi, con una grossa guerra in corso e con l’aumento della diffidenza reciproca l’essere solo un grande mercato e condividere una moneta non basta. Negli ultimi trent’anni l’Europa non solo non è stata in grado di sostenere un hardpower credibile ma neppure di perseguire un softpower degno di questo nome che la facesse apprezzare quale interlocutore internazionale. In definitiva, per avere potere e poterlo esercitare – al di là dell’essere ottimisti o pessimisti – si deve in primo luogo esistere.

Un pensiero riguardo “Peggio di così si muore. che peso hanno ottimismo e pessimismo nelle relazioni tra stati?

  1. Ho letto con grande interesse insieme a Rosanna il saggio che esamina più di un secolo delle vicende dei grandi che hanno manifestato in quel periodo il loro potere e che alla fine….sarà solo questione di chi lo avrà meglio vissuto scegliendo di puntare all’uovo o alla gallina.

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