Davvero Israele sta pensando a una guerra definitiva?
Il Natale 2023 è passato da poco. Dalla loggia delle Benedizioni in San Pietro Papa Francesco non ha avuto altre parole se non di condanna per la guerra, definita un “viaggio senza meta; una sconfitta senza vincitori” e di sconfitte l’anno che sta per chiudersi ne ha viste parecchie. A duemila e cinquecento chilometri da piazza San Pietro, sul fronte russo-ucraino, all’operazione di Putin rimane davvero poco di speciale impantanata com’è nel fango e nelle trincee in una linea lunga quasi 800 chilometri, ma è molto più a sud, nei cinquanta chilometri della Striscia di Gaza che qualcosa di orrendamente speciale è in corso. È l’operazione “spade di ferro” con cui Tsahal, dopo la strage del 7 ottobre, tenta di chiudere i conti con Hamas. E forse non solo.

Fino ad oggi l’operazione ha lasciato sul campo più di 130 soldati israeliani, oltre 600 carri armati e veicoli corazzati ma soprattutto più di 20.000 palestinesi. Da qualche parte, forse in una casa non ancora bombardata o in uno delle centinaia di tunnel della Gaza sotterranea, 110 ostaggi sperano o temono l’arrivo delle forze speciali di Tel Aviv.
Sono loro, gli ostaggi, insieme ad Hamas gli obiettivi dichiarati dal governo Netanyahu per proseguire nell’operazione più violenta mai condotta dalla nascita dello Stato di Israele. Ma sarà proprio così? La violenza con cui le spade di ferro si stanno abbattendo sui palestinesi di Gaza sta inducendo qualcuno a nutrire più di un sospetto circa i reali obiettivi di Israele. Più esplicitamente ci si chiede se lo Stato ebraico, approfittando della tragedia del 7 ottobre scorso, non stia pensando che questo sia il momento giusto per risolvere definitivamente il problema palestinese e, perché no, regolare i conti con Teheran.
Settant’anni di guerre, risoluzioni dell’ONU, accordi e divisioni, attentati e rappresaglie non sono bastati infatti a stabilire un punto di equilibrio più o meno stabile tra israeliani e palestinesi e allora perché non approfittare della guerra? Forse gli israeliani sono stanchi di vivere in un perenne stato di allerta e anche i palestinesi non me possono più di abitare una prigione a cielo aperto e allora perché non risolvere l questione con la guerra?

La promessa dei “due popoli, due stati” che anche in questi giorni è stata nuovamente resuscita nel tentativo di indicare una via d’uscita ha ormai quasi cento anni. Era il 1937 quando a qualcuno venne in mente di creare dal nulla due Stati sullo stesso lembo di terra. Dieci anni dopo, nel 1947, la stessa idea fu alla base del “Piano di partizione” della Palestina britannica approvato dall’ONU.
Da allora, anno dopo anno, guerra dopo guerra, muro dopo muro lo slogan ha rimbalzato su tutti i tavoli diplomatici fino a questa Vigilia di Natale; ogni volta perdendo un pezzo del suo valore di profezia fino a trasformarsi in quello che è oggi: un mantra senza alcun senso. Tuttavia mentre l’idea dei due popoli e due stati si trasformava in fossile politico qualcosa in questi ottant’anni stava cambiando. Prima di tutto in Israele che in questo tempo ha costruito lo stato degli ebrei; uno stato moderno, democratico, identitario, forte e ricco, ma circondato dall’odio dei propri vicini, primi fra tutti quei palestinesi che la sua creazione quasi dal nulla aveva sorpreso divisi tra l’essere beduhin, pastori e nomadi, o fellahin, contadini in poveri campi.

Ma ciò di cui Israele sembrava non rendersi conto è che mentre era impegnato a combattere e vincere per edificare il proprio stato, nei campi profughi in cui aveva chiuso beduhin e fellahin era nato e stava crescendo un sentimento nuovo: la consapevolezza di considerarsi popolo e non più beduhin e fellahin. Sentirsi popolo però non basta, si deve anche possedere un pezzo di terra da chiamare casa. E questa è l’unica cosa che Israele non potrà mai concedere ai palestinesi. I motivi sono molteplici; alcuni del tutto razionali, altri puramente identitari o culturali. Limitiamoci ai primi immaginando un grande Israele che finalmente inglobi tutti, ebrei e arabi, sotto un’unica cittadinanza, quella israeliana. Come primo effetto in breve tempo la maggioranza delle popolazione di Israele sarebbe araba e musulmana. Che ne sarebbe a quel punto dello stato ebraico, del porto sicuro per ogni ebreo del mondo? Che succederebbe poi se in qualità di cittadini israeliani fosse esteso anche ai palestinesi della diaspora il diritto al rientro, così come è oggi garantito a ogni ebreo ovunque sparso nel mondo. Si potrebbe pensare a una cittadinanza di serie “B”, una sorta di apartheid attutita ma la natura stessa dello stato d’Israele non potrebbe consentire una simile forzatura. A queste poi vanno aggiunte le differenze di cultura, religione, lingua, tradizioni e nn ultimo l’odio che settant’anni di lutti hanno tatuato sulla pelle degli uni come degli altri. Meglio dunque rimanere separati almeno finché la forza militare dello stato ebraico lo consente.

Separati, ma come? A ovest dello Stato di Israele circa due milioni di palestinesi, almeno fino al 10 ottobre scorso, hanno vissuto bloccati all’interno di una striscia di terra e sabbia un tempo di proprietà egiziana ma che oggi nessuno vuole ma dalla quale nessuno può uscire. A est, in un territorio per il quale non si è d’accordo neppure sul nome da attribuirgli, ne vivono altri tre milioni. Sono quelli della Cisgiordania o se preferite dei Territori Arabi Occupati o delle province di Giudea e Samaria. Oltre questi luoghi di collera e lacrime, come li avrebbe definiti Whitman, altri sei milioni di palestinesi vivono sparsi in tutti i paesi arabi; settecentomila nel resto del mondo. Per Tel Aviv da anni questi numeri significano “Hannibal ad portas” ma ora, dopo l’attacco del 7 ottobre Israele non può più permettersi di considerare i palestinesi come un semplice problema interno, una minoranza rissosa da tenere a bada con il filo spinato. Deve guardare a loro come a un Nemico con la maiuscola. Già perché le modalità con cui è stato pianificato, organizzato e condotto l’attacco di Hamas ad Israele del 7 ottobre scorso e soprattutto l’accanita ed efficacie resistenza che tutt’ora oppone all’operazione “spade di ferro” raccontano di un popolo palestinese che si sente pronto ad affrontare il suo nemico in campo aperto e senza appoggi diretti. E’ senz’altro questa la sorpresa maggiore che quest’ultima guerra ha posto sotto gli occhi di tutti. I palestinesi combattono e lo fanno a lungo, in modo organizzato e senza giovarsi dell’aiuto di qualche paese amico. Dall’altra parte Israele risponde con una ferocia inaudita, la stessa che si riserva a un nemico mortale al quale non si è disposti a cedere neppure un centimetro di terra. Si capisce che per un paese grande poco più dell’Emilia-Romagna consegnare anche un solo metro quadrato di terra significa fare il primo passo verso la propria distruzione.

Israele sa benissimo infatti di non avere profondità strategica, vale a dire la possibilità, in caso di conflitto, di cedere spazio in cambio di tempo. Ogni battaglia, che sia contro uno degli stati vicini o contro un gruppo interno militarmente organizzato, è sempre quella decisiva. Ad allontanare questo pericolo ci avevano provato vent’anni fa i cosiddetti Accordi di Oslo. A firmarli, sotto lo sguardo sorridente e inconsapevole del presidente americano Bill Clinton, erano stati nel 1993 l’allora premier israeliano Itzak Rabin e il capo dell’Organizzazione per la Liberazione della Palestina (OLP), Yasser Arafat. Per quella firma Rabin nel 1994 aveva ricevuto il premio Nobel per la Pace e l’anno dopo due colpi di pistola alla schiena. Arafat era stato più fortunato; dopo il Nobel aveva tirato avanti altri dieci anni. Gli accordi di Oslo, sebbene siano ancora formalmente in vita, erano però apparsi subito gracilini.

Alla fine, israeliani e palestinesi erano stati spinti a mettersi d’accordo per dividere la Cisgiordania in tre zone: la zona A sotto il pieno controllo dell’Autorità Nazionale Palestinese; la zona B sotto amministrazione civile palestinese ma controllo militare israeliano e infine la zona C sotto pieno controllo israeliano. Bastava però dare un’occhiata alle percentuali di ciascuna delle zone per capire che qualcosa non andava. La zona A – quella sotto il completo controllo palestinese – corrispondeva più o meno al 17% della Cisgiordania; quella B, amministrata dall’ANP ma controllata militarmente da Israele arrivava al 24%, mentre la zona C, quella sotto completo controllo israeliano si mangiava il restante 59%.
E poi c’era Gaza, una striscia lunga quarantuno chilometri e larga dodici nel suo punto più largo. Uno scatolone di sabbia color senape incastrato tra il Mediterraneo e il Sinai dove Israele aveva sistemato due milioni e mezzo di palestinesi, prima sotto controllo da un consistente presidio militare, poi, dal 2005 da soli. Tutto intorno una recinzione di reti, sensori e torrette automatizzate percorsa ogni giorno dalle pattuglie dell’esercito. Per i movimenti legali di uomini e mezzi erano sette i valichi di frontiera ufficiali: sei con Israele e uno con l’Egitto. Il resto dei movimenti, legali e illegali, avveniva sottoterra, sfruttando un dedalo di gallerie esteso quasi quanto la metropolitana di Londra.
Chi vive all’interno dei territori della Cisgiordania deve invece affrontare l’ingombrante presenza di oltre 250.000 coloni israeliani che abitano in una delle 279 colonie che negli anni si sono stabilite in tutte le zone contemplate dagli accordi, rosicchiando terreno e diritti. Quelli della Striscia devono a loro volta fare i conti con una densità di popolazione doppia di quella di Bombay. Qui un palestinese guadagna dieci volte meno di quello che prende in Israele, cioè una miseria. Il salario mensile di un pendolare palestinese all’interno di Israele varia, infatti, da 300 a 400 shekel, vale a dire dai 70 ai 110 euro, mentre il suo salario a Gaza non supera i 30 shekel. Questo per i più fortunati che un lavoro ce l’hanno visto che la disoccupazione all’interno della Striscia tocca quasi al 60%. E allora come si sopravvive? Con piccoli lavoretti, il contrabbando, i sussidi delle organizzazioni internazionali. E con i soldi di Hamas.
Questa la ripartizione territoriale, ma chi esercita il potere su di essi? In teoria dovrebbe essere l’Autorità Nazionale Palestinese o per lo meno così ci piace credere. L’ANP si presenta ancora come l’evoluzione della formazione socialisteggiante di Fatah, il partito di Yasser Arafat, ma sia nei Territori, sia soprattutto nella Striscia di Gaza il fascino dei vecchi militanti con la kefiah è svanito da tempo, sostituito da un’abulia generalizzata o da una rabbia che ha trovato nei movimenti di matrice radicale islamica i propri rappresentanti. È questo il caso di Ḥarakat al-Muqāwama al-Islāmiyya , in arte Hamas, versione palestinese dei fratelli musulmani l’organizzazione che dal 1928 persegue una via islamica al governo politico del mondo arabo e che per questo, a parte che dalla Turchia e dal Qatar, è stata messa fuori legge nel resto degli stati arabi, Arabia, Egitto ed Emirati in testa.
Nel 2006 nei territori dell’Autorità Nazionale Palestinese si tengono le elezioni politiche. Mentre in Cisgiordania i partiti legati a vario titolo all’Autorità Nazionale palestinese tengono, a Gaza Hamas sconfigge Fatah e poco dopo inizia il repulisti di tutto ciò che nella Striscia non fosse Hamas. Da allora su quella scatola di sabbia color senape governano loro. Mentre sui territori della Cisgiordania il debole regime dell’Autorità Nazionale Palestinese esercita almeno un potere formale con l’appoggio e il permesso del governo di Tel Aviv, a Gaza i referenti di Hamas sono altri. In primo luogo, il Qatar che ogni anno versa diverse centinaia di milioni di dollari nelle casse di Hamas e poi l’Iran che ha trovato in questo movimento radicale e militare un utile strumento con cui indebolire Israele. Insieme a Hezbollah, attivo e presente nel sud del Libano, Hamas rappresenta infatti la seconda ganascia della strategia a tenaglia iraniana che, almeno nei desideri di Teheran, dovrebbe portare la Persia ad affermarsi come prima potenza regionale ai danni dell’Arabia saudita. Già, perché con la firma dei cosiddetti “accordi di Abramo” una parte del mondo arabo ha iniziato a pensare che forse sarebbe più utile collaborare con Israele piuttosto che combatterlo.

A firmare per primi gli accordi con Israele erano stati, nel 2020, gli Emirati Arabi Uniti e il Bahrein, ma colloqui in tal senso stavano felicemente proseguendo anche con l’Arabia saudita, almeno fino al 7 ottobre 2023. Riconoscimento dello stato di Israele, collaborazione commerciale e finanziaria, estensione della protezione militare in funzione anti-iraniana erano i pilastri più o meno espliciti di questi accordi. Troppo perché Teheran non tentasse di rallentarli o addirittura fermarli. Anche se ad oggi non ci sono prove evidenti e dirette delle responsabilità iraniane, cosa poteva esserci di meglio che una nuova guerra israelo-palestinese per sabotarli? Una guerra che dimostri al mondo la volontà e la capacità dei palestinesi di conquistarsi uno stato anche con le armi. Una guerra che fermi il processo politico di avvicinamento tra le petromonarchie del golfo e Israele e consenta a Teheran di rimanere in lizza per l’egemonia regionale. Insomma, non è solo Israele a vedere in quello che sta accadendo a Gaza un’opportunità.
Dunque Israele potrebbe trarre un vantaggio definitivo in termini di sicurezza nel distruggere una volta per tutte Hamas ed Hezbollah così risolvendo in un colpo solo il problema palestinese e la minaccia iraniana. Tuttavia, come in tutte le ipotesi anche in questo caso c’è un “MA” che non possiamo trascurare. Una guerra offensiva di dimensioni regionali non è infatti un’occasione da prendere al volo, un treno che va preso quando passa. Pensare che Israele abbia seriamente pianificato di trasformare il 7 ottobre nel casus belli per regolare i conti con la questione palestinese è senza dubbio un’ipotesi suggestiva e magari anche per qualcuno addirittura possibile, ma servono delle prove e queste, per ora, latitano.

Non si parla certo dei desideri di qualche estremista di ricostituire il biblico Erétz Yisra’él. Quelli sono da anni parte integrante della stessa società israeliana in cui convivono integralismo religioso e laicismo. Ciò che invece manca sono tutte le innumerevoli predisposizioni che sono necessarie a condurre una guerra che per sua natura potrebbe essere assai lunga. In primo luogo, siamo sicuri che a meno di un anno dalle elezioni presidenziali americane; con una guerra in corso nell’Europa orientale e con una Cina che ancora stenta a riprendersi dal doppio choc del Covid e della guerra russo-ucraina, Israele godrebbe del sostegno politico internazionale indispensabile per scorrazzare con i suoi carri armati tra Mediterraneo, Cisgiordania e sud del Libano? E come la prenderebbero poi i Paesi del circondario? Non certo la Siria in piena guerra civile, il Libano ormai virtualmente evaporato o ancora il regno di Giordania, paese solido ma militarmente inconfrontabile con Israele, ma due pesi massimi come l’Egitto del neoconfermato presidente Al Sisi o l’Iran o la stessa Arabia Saudita.

E che dire poi della Cina popolare e della Federazione Russa che da quelle parti hanno più che un interesse da salvaguardare. Si rischia di dimenticare infine l’Unione Europea che va citata solo per dovere di cortesia e certo non per la sua rilevanza in questioni di questo genere.
Ammettiamo comunque che per qualche segreto accordo o alchimia internazionale l’intero pianeta sia disposto a chiudere un occhio, se non tutti e due, su un eventuale guerra israeliana a tutto campo. Resta pur sempre il fatto che un simile impegno necessita della costituzione di scorte preventive di armi, mezzi e materiali nonché della mobilitazione di risorse umane di gran lunga maggiori di quelle messe in campo fin ora da Netanyahu. Qui entra in gioco una delle richiamate caratteristiche dello Stato di Israele, vale a dire la sua mancanza di profondità strategica. Già nel 2016 l’onnipresente premier Benjamin Netanyahu, aveva definito Israele “una villa nella giungla circondata da bestie feroci». Definizione suggestiva che però non faceva alcun cenno alle dimensioni del parco della villa, tanto ridotte che qualsiasi male intenzionato, lanciando un sasso, sarebbe riuscito facilmente a mandarne in frantumi una finestra senza neppure avvicinarsi al cancello.

In altri termini non esiste alcun luogo in Israele che può dirsi davvero al sicuro da un attacco aereo o condotto con droni. Israele cioè non può giovarsi di uno dei cardini della strategia, quello cioè di cedere spazio per guadagnare tempo. Non può neppure spostare il cuore della sua produzione industriale “al di là degli Urali”, né può evitare che già nelle sue prime ore gran parte della sua popolazione sia direttamente coinvolta in un eventuale conflitto. Già nel 1993, nel pieno della prima guerra del Golfo, gli Scud di Saddam Hussein erano caduti su Israele e da allora la situazione non è certo migliorata, anzi si potrebbe dire che è addirittura peggiorata dopo l’apparizione sui campi di battaglia dei droni e i lanci a massa di razzi più o meno fatti in casa. A tutto questo Israele non può opporre spazio ma tecnologia. Su questi presupposti sono stati infatti sviluppati sia l’ormai famoso sistema Iron dome dedicato all’intercetto di razzi e colpi di mortaio a corta gittata, sia quello Arrow dedicato alla difesa contro missili balistici, sia l’Iron Beam, la “trave di ferro” a tecnologia laser progettata per intercettare e distruggere razzi, artiglieria, mortai e, soprattutto, droni. Si tratta senza dubbio di una difesa integrata, efficace e ben studiata, soprattutto se confrontata alle capacità dei numerosi potenziali nemici. Tuttavia, Israele sa perfettamente che non esistono scudi abbastanza grandi per parare qualsiasi colpo di lancia così come peraltro sta dimostrando il perdurare dei lanci di razzi condotta da Hamas a partire dalla Striscia di Gaza.

Di certo, in caso di conflitto di maggiori proporzioni l’ombrello di re David non riuscirebbe a coprire efficacemente tutto Israele. Infine, c’è da considerare la natura della società israeliana e come questa accoglierebbe questo tipo di guerra risolutiva. Una vecchia battuta ricorda che basta mettere dieci ebrei in una sala per avere diecimila opinioni diverse e questa bella caratteristica del popolo israeliano di discutere e a partecipare ad ogni decisione che riguardi la sopravvivenza dello Stato è uno dei fattori da tenere in assoluta considerazione nel valutare l’ipotesi di una “guerra definitiva”. Oggi più che nel passato gruppi ultraortodossi contendono lo spazio politico a ebrei laici quando non addirittura atei; comunità di ebrei dell’est Europa si devono confrontare con quelle provenienti del nord Africa o dalle Americhe e questo mentre l’epoca del giudaismo eroico degli anni 50-70 si allontana dalla quotidianità per approdare alla storia. Si può ben immaginare quali reazioni innescherebbe l’idea di una guerra che si prefiggesse l’obiettivo non solo di risolvere una volta per tutte la questione palestinese, ma anche di sconfiggere definitivamente i grandi nemici di Israele, in primo luogo, l’Iran attraverso una guerra totale alle sue emanazioni di Hamas e Hezbollah. Da non trascurare poi l’effetto che si produrrebbe allorquando il governo di Tel Aviv si incaricasse di una vera e propria pulizia etnica nei confronti della popolazione palestinese attraverso la deprivazione completa di quei pochi lembi di terra in cui questa può ancora esercitare una limitata autorità. Di certo in nessun modo e per nessuna circostanza Israele può ricorrere all’arsenale delle nefandezze così care al regime nazista senza che il parallelo risulti fin troppo facile. Infine, c’è da considerare un aspetto geografico di non poco conto. Un’eventuale guerra generale nel Medioriente provocherebbe infatti un inevitabile ripercussione nell’area dove ad oggi transita il 60% del fabbisogno energetico del pianeta. Sono bastati qualche missile e una decina di droni sparati dagli Huthi dello Yemen per ricordare al mondo cosa sia lo stretto di Bab-El-Mandeb o il Canale di Suez. È facile immaginare cosa accadrebbe se al blocco partecipassero non gli Huthi, ma l’Iran, l’Arabia o lo stesso Egitto.
Quali dunque le prospettive future dell’operazione “spada di ferro”? E chi lo sa, Forse varrà il vecchio monito di Tacito: Ubi solitudinem faciunt, pacem appellant. Dove fanno il deserto, lo chiamano pace”