
“E sentiamo Mancinelli, dove sono i Dardanelli?” Cantava Natalino Otto.
La guerra mondiale, l’ultima, era finita da meno di mille giorni e una nuova, stavolta fredda, era già iniziata. Dopo settant’anni chissà se Mancinelli si è informato sui Dardanelli. Come avete capito stiamo parlando del mar Nero, l’altro mediterraneo, che la guerra russo-ucraina ha riportato all’attenzione mondiale e dove galleggiano e talvolta affondano questioni e ambizioni che è bene riassumere partendo dalla geografia.
Il Mar Nero è quel che si definisce un mare chiuso, una sorta di immenso lago salato vasto circa un sesto del Mediterraneo sul quale si affacciano Turchia, Bulgaria, Romania, Georgia e, naturalmente Ucraina e Russia. Le due sponde più lontane distano, da nord a sud, oltre 600 km e circa 1200 da est a ovest. Nel suo punto più profondo supera i 2000 metri. Questo mare ha un solo accesso, una doppia porta in mano da secoli prima all’Impero ottomano e quindi alla Turchia: lo stretto del Bosforo e quello dei Dardanelli. C’è anche un altro stretto sotto il controllo russo ben prima che Putin s’inventasse l’operazione militare speciale. E’ lo stretto di Kerch che lo collega all’appendice orientale del mar d’Azov, un mare vasto quanto Lazio, Umbria e Marche messe insieme e profondo meno di 10 metri. Questa dunque la geografia, ma ciò che fa di questa porzione di pianeta una luogo speciale è la storia. Qui infatti ai toccano delicatissime faglie geo-politiche come quella tra Asia ed Europa, tra mondo musulmano e cristiano o come quella tra NATO e Russia. Al mar Nero guardano anche potenze molto lontane, prima fra tutte la Cina che l’ha messo al centro del corridoio europeo senza dimenticare l’India, quasi tutto il medio oriente e buona parte dell’Africa settentrionale che dai granai ucraini e russi traggono il pane, unica arma in grado di tacitare le loro folle impoverite.

Eccoci dunque al primo dei temi del momento: il grano. Anche qui è bene tirar fuori qualche numero. Il raccolto del 2021, l’anno precedente alla guerra, ha prodotto in Ucraina oltre 40 milioni di tonnellate di grano in grande parte destinate all’esportazione verso l’Africa e l’oriente. Per trasportarle ci vogliono oltre un milione di TIR, oppure 150.000 treni merci ma solo, si fa per dire, 2000 navi. Ecco quindi che il problema della guerra e della chiusura dei porti settentrionali diventa grave visto che in assenza di un soluzione a breve termine quei 40 milioni di tonnellate rischiano di rimanere a marcire nei silos di Odessa e della altre aree di stoccaggio ucraine. Senza quel grano una buona parte del mondo povero, che l’ONU stima in oltre 450 milioni di persone, rischia la fame più di quanto normalmente non debba subire è già basterebbe per allarmarsi. E’ inoltre risaputo dai tempi delle scuole medie che l’Ucraina è il granaio non solo d’Europa ma in apparenza anche del mondo. Non dimentichiamo però che in Russia il raccolto 2021 ha prodotto 75 milioni di tonnellate. Si sa che in tema di fitofarmaci, pesticidi e concimi chimici un tantino spinti, la Russia non guarda tanto per il sottile ma sono pur sempre 75 milioni di tonnellate, vale a dire altre 4000 navi. A questo punto tutti ci ricordiamo che tra Russia e Ucraina è in corso una guerra, anzi, un’operazione militare speciale che tra le altre distruzioni e tragedie ha prodotto la chiusura dei porti ucraini, la distruzione di buona parte delle loro infrastrutture e, per la Russia, una serie di infinite sanzioni economico-commerciali delle quali si fa fatica a tenere il conto. Il risultato è che oggi abbiamo oltre 120 milioni di tonnellate di grano bloccate sulla sponda nord del Mar Nero con nemmeno una delle 6000 navi che servirebbero trasportarle che per il momento disposta ad attraversare gli stretti per andare a caricare.
Il mar Nero è dunque chiuso alla navigazione? Per niente, almeno non a quella commerciale, ma navigare in quelle acque è diventato un tantino pericoloso. Tanto quanto? Come al solito dipende. Ad esempio per Grecia e Malta non molto, mentre per il nostro ministero degli esteri la zona è ad altissimo rischio. Esiste un parametro più oggettivo? Si e ce lo offre chi della valutazione del rischio ha fatto il suo mestiere: il mercato delle assicurazioni marittime. Londra che di questo mercato è sede dal tempo dell’impero britannico, ha inserito l’area marina intorno al Mar Nero e al Mar d’Azov fra le zone ritenute ad alto rischio per la pericolosità alla navigazione mercantile. Il Joint War Committee (Jwc) del settore assicurativo in un avviso di pochi giorni fa ha infatti dichiarato che l’area ad alto rischio è stata ulteriormente ampliata alle acque vicine alla Romania e alla Georgia dopo un precedente ampliamento del 15 febbraio alle acque russe e ucraine nel Mar Nero e nel Mar d’Azov. Sono infatti almeno cinque le navi commerciali che dal 24 febbraio, data di inizio del conflitto, sono state colpite da proiettili, tra cui una che è affondata e un’altra sulla quale un marittimo è stato ucciso dalle schegge di un missile che ha colpito la nave.
Conseguenza più che prevedibile è stata l’innalzamento dei premi assicurativi. Aumenti che arrivano fino al 5% del valore della nave assicurata. In termini pratici una nave che decidesse di arrivare a Rostov-sul-Don, piccolo porto russo sul mar d’Azov e rimanerci una settimana, dovrebbe pagare un sovrapprezzo di oltre 300.000 dollari. E’ logico che in queste condizioni di mercato e con il rischio di imbattersi in una mina sono davvero pochi gli armatori disposti a caricare grano a Odessa.

Siamo dunque al secondo dei problemi di cui oggi si discute: le mine navali. Anche qui per chiarezza è bene fare un distinguo; quello tra i campi minati navali posati a protezione dei porti e le mine alla deriva. I primi si concentrano principalmente di fronte a Odessa e a Mariupol e sono stati posati dagli ucraini. Perché? Ma per scoraggiare un tentativo di sbarco dal mare da parte della flotta del mar Nero. I russi dal canto loro negano di aver contro-minato gli stessi accessi. Tuttavia rimane il fatto che attraccare oggi in Ucraina è davvero un mezzo suicidio. La buona notizia è che nel caso si raggiungesse un accordo umanitario, magari sotto l’egida del Programma Alimentare Mondiale (WFP), per l’apertura di corridoi di navigazione ci vorrebbero si e no una ventina di giorni per liberarli delle mine ancorate. “Ancorato” è purtroppo l’aggettivo che fa la differenza.
Nel mar Nero vanno infatti alla deriva un numero imprecisato di mine anti-nave. Chi l’ha rilasciate? Come è ovvio gli ucraini accusano i russi e viceversa salvo poi entrambi sostenere che si tratta di ordigni che hanno fortuitamente rotto l’ormeggio. Tenuto conto di quando sono stati posati i campi minati, delle correnti e dei venti appare tuttavia un po’ strano che alcune di queste mine siano ora spiaggiate in Turchia, in Georgia o in Romania. L’ipotesi che siano state rilasciate alla deriva, non ha prove ma è un fatto probabile. Questa è dunque la cattiva notizia.
Ricercare, individuare e far brillare mine che nessuno sa dove si trovano è infatti un’operazione lunga, molto costosa e dai risultati incerti. Ne sa qualcosa la nostra marina militare che al tempo della guerra del golfo ha contribuito a sminare lo stretto di Hormuz. La domanda successiva è allora: “ chi lo fa?” La marina ucraina non dispone di un solo cacciamine, quella russa ne ha uno solo, classe “Alexandrit”. Ci sono certo quelli della Turchia, della Romania e della Bulgaria, ma ecco che appena si nominano questi tre paesi qualcuno a Mosca ai ricorda che si tratta di paesi NATO con la quale di questi tempi non corre buon sangue.
“Ci pensiamo noi” è stata allora l’idea che Londra ha lanciato nei giorni scorsi per la creazione di una “coalizione di volenterosi”, con a capo la marina di sua Maestà britannica e il concorso di altri Paesi (della Nato?). Compito? Scortare le rotte del commercio e dell’export di grano dall’Ucraina.
Va bene che in questa strana guerra che non è una guerra ma un’operazione militare speciale le convenzioni internazionali e il diritto umanitario e dei conflitti armati sono stati relegati in allegato dell’annesso all’appendice, ma tutt’ora per gli stretti del Bosforo e dei Dardanelli è in vigore una convenzione del 1936 firmata a Montreux tra Turchia, Regno Unito (ma guarda un po’) Francia, Unione Sovietica, Grecia e Romania i cui temi è bene ricordare. Per garantire la sicurezza alla Turchia e agli stati che si affacciano sul Mar Nero la convenzione di Montreux garantisce per il tempo di pace la piena libertà di transito alle navi mercantili di qualsiasi bandiera. In tempo di guerra, se la Turchia come in questo caso non è parte del conflitto, la libertà di passaggio è invece assicurata ai soli mercantili dei paesi neutrali e solo nelle ore diurne e solo rispettando rotte obbligate. Cosa diversa riguarda le navi da guerra per le quali corre sempre e comunque l’obbligo di informare il governo di Erdogan almeno otto giorni prima del transito, limitatamente a flotte di un massimo di nove unità e con un tonnellaggio complessivo di 15.000 tonnellate. Si fanno eccezioni solo per i paesi rivieraschi, come appunto Russia e Ucraina, purché le navi passino singolarmente. Per i sottomarini è consentito il passaggio solo se di paesi rivieraschi – di giorno e in superficie – e solo per entrare nelle loro basi o per farsi riparare. A parte la convenzione mettere migliaia di tonnellate di navi da guerra, armate di tutto punto in un mare minato non appare comunque una buona idea. In conclusione ci troviamo dunque all’inizio dell’estate con 110 milioni di tonnellate di grano russo-ucraino bloccati dalla guerra, dalle mine e dalle sanzioni; con un mare dove galleggiano mine navali come fossero meduse a Riccione e con quasi mezzo miliardo di persone a rischio carestia nei prossimi mesi e, come se non bastasse, nessuna idea di dove stivare il raccolto del 2022 che tra poco qualcuno mieterà.
Da ultimo, ma solo per alimentare con un po’ di malizia una situazione già di per se ingarbugliata, c’è da chiedersi che bisogno o che vantaggio abbia la Russia a risolvere il problema ucraino del grano visto che in questo clima di “guerra ibrida” qualche milione di migranti alimentari che premono alle frontiere meridionali d’Europa farebbero davvero comodo a Mosca che li trasformerebbe in un’arma niente male contro la granitica unità europea. Soluzioni? Al momento se ne vedono poche e velleitarie e noi, come al solito, vedremo.