
Come semi spinti dal vento, a lungo l’avevano cercato tra quelle montagne e infine l’avevano trovato. Il posto perfetto, quello dove appoggiarsi senza più dover ripartire; dove finalmente divenire terra.
Da ovunque la si guardasse quella anomalia rocciosa, aspra e scostante, saltava all’occhio per quanto appariva estranea al morbido verde delle colline circostanti. Non c’era alcun dubbio, quell’orfano sperone di roccia grigia e glabra sarebbe stata la loro casa. Era accaduto forse 1000 anni fa o forse di più, ai tempi delle fate e dei cavalieri.

Uomini e donne di cui neppure il vento o una stupida zolla di terra grassa ricorda oggi il nome o il passo si erano fermati lassù, a qualche miglio dalla prima strada poverosa. L’Appennino avrebbe custodito il loro piccolo mondo. Per sempre.
Dalle finestre anguste delle piccole case di pietra i re stranieri e i loro eserciti, i vescovi ingioiellati e i borghesi dai ventri gonfi di ricchezza sembravano lontanissimi. Solo i boschi, immensi custodi di streghe e di prodigi, erano infatti riusciti a risalire la spalla della montagna che ogni inverno avrebbe trasformato in un’isola di venti gelidi e di lupi.

Mille anni fa erano stati proprio gli immensi boschi di lecci a dargli un nome: ELCITO. Un nome dolce, senza ambizioni, dal sapore spagnoleggiante. Per sette secoli, pietre, monaci e montanari erano rimasti lassù, lavorando la terra e confidando nella preghiera.
Guardando a valle si scorgeva il tetto dell’abazia. Era lì da molto tempo prima del loro arrivo, forse dal tempo di San Romualdo. Ci vivevano i monaci neri, come la gente chiamava chi seguiva la regola di Benedetto e le loro preghiere latine, il continuo salterio delle ore per secoli avevano tenuto lontano il diavolo da quei posti. “Chissà” – avranno pensato i nuovi arrivati – “ magari, in cambio di un fagiano, di un orcio di vino o della legna di roverella, avrebbero pregato il Signore anche per noi e per i campi e le bestie“.

Poi qualcuno a valle aveva deciso di chiudere la scuola, segno che quel posto non avrebbe più avuto un futuro. Prima ancora avevano aperto le fabbriche di scarpe laggiù, verso il mare, e il cementificio, i cantieri. Per le stradine di ELCITO fatte per gli uomini e i muli non passavano le 600 color celestino comprate a rate e neppure l’Ape. Così pian piano, dopo secoli, uno dopo l’altro i montanari avevano iniziato a scendere a valle dove i re stranieri erano scomparsi e le ragazze avevano le gonne corte.
Era il 1972 quando a Elcito avevano chiuso la scuola. A Washington in quei giorni qualcuno entrava negli uffici del Watergate, nelle cinema era appena uscito “il padrino“ e a Milano avevano sparato al commissario Calabresi, ma a Elcito la notizia era che avevano chiuso la scuola elementare. Trent’anni dopo, nel 2003, erano rimasti solo in sei a vivere in faccia al San Vicino. L’artrite, il diabete e la neve avevano avverato l’antica profezia di “mille e non più mille”.

Infine tra i vicoli stretti, incisi nella roccia erano rimasti solo il vento e il silenzio della montagna.
Oggi una nuova magia ha riportato in vita Elcito; un villaggio salvato da un destino di edera e terremoti dalla nuova voglia di natura e di insolito che ha preso il popolo degli smartphones e dei selfie. Elcito si è trasformato in un “albergo diffuso“, un luogo di ospitalità per meravigliati passeggiatori della montagna e per famiglie che guardando a valle sospirano:“...senti che pace quassù“. Anche il lupo è tornato.
Io ci sono capitato oggi, 17 aprile 2019; unico visitatore.
Se vi capiterà di percorrere la statale 77 della val di Chienti, quella che da Foligno porta verso l’Adriatico passando per l’altopiano di Colfiorito, quando sarete all’altezza di San Severino Marche prendete la provinciale e fateci una visita. E’ un luogo generoso. Andateci.
Vi regalerà di sicuro qualcosa. Fosse anche un semplice fiore che il vento bacia senza cogliere.