L’ultima volta (prima parte)

Piana di Castelluccio e la mia Royal Enfield (foto p.Capitini)

Chissà quando per me sarà l’ultima volta.

L’ultima volta che farò l’amore; l’ultima volta che girerò l’angolo tra via Carducci e corso Matteotti; l’ultima volta che ascolterò quella voce, che guarderò in quegli occhi e solo in quelli, che vedrò una goccia di pioggia scivolare sul vetro e l’ultima volta che mi godrò una frittura calamari e gamberi.

Nessuna ultima volta sa di essere proprio l’ultima e ogni azione si schiera in buon ordine nella lunga fila delle cose accadute, proprio dietro a quelle che accadranno ancora. Una fila senza angoli e senza orizzonti. Eppure ci sono già state inconsapevoli ultime volte. E molte. Troppe? Non saprei, ma adesso ho la piena coscienza che ce ne saranno altre, sempre di più. Fino ad arrivare all’ultimo respiro.

Non ci avevo mai pensato a questa storia dell’ultima volta. Era stata Alessandra a farmici riflettere con quel suo modo asciutto ed elegante da nobildonna siciliana. “C’hai mai pensato all’ultima volta che faremo qualcosa?” “io no!” avevo risposto di getto ma era troppo tardi, la domanda aveva già preso a scavare nella fragile crosta della coscienza fino ad arrivare alla melma dell’ansia.

(foto p.Capitini)

Forse era stata la consapevolezza di non sapere dell’ultima volta che mi aveva perciò fatto comprare questa Royal Enfield del 2016, un ammasso di ferro ritmato, su cui da qualche giorno sto viaggiando per le strade rifatte del cratere.

Un monocilindrico post-bellico da 500 centimetri cubici e solo 27 cavalli, forse meno. Poco più di una falciatrice.

Consuma poco, corre poco, frena poco. E chiede poco. Solo olio, una mano delicata sull’acceleratore e un fondoschiena paziente. Sono i vantaggi di un motore super quadro, un’altra maniera per descrivere l’unico pistone a corsa lunga che nei momenti di energia e di buon umore va su e giù meno di tremila volte al minuto mentre il resto del mondo motociclistico era già passato da anni oltre i diecimila. Un’altra conferma, caso mai ce ne fosse bisogno, che vivevo ormai in un mondo splatter, ipercinetico e talvolta noioso.

Scalo in terza e inizio la salita che porta a Forca di Presta. Che nome: “forca di Presta”. Ti aspetti che da un momento all’altro appaia una fata oppure un cavaliere su un cavallo nero. Un nome che suona come un luogo segreto da “Signore degli Anelli”. Magari ci vive persino un drago.

I Sibillini vista dal Monte Sibilli (foto p.Capitini)

Che scemo” – penso tra me – “dopo il terremoto non ci vive neppure lui“. Anche al drago di Forca di Presta – ammesso sia mai esistito – hanno chiesto di delocalizzarsi. E si sa, il potere delle parole morte, spegne il fuoco di ogni drago.

Mentre il vento si alterna sulle guance a seconda della curva, ripenso a questa storia delle parole morte. La moto per me è quello che Peter Handke avrebbe chiamato “il luogo tranquillo“, quell’unico posto, intimo e inattaccabile, dove poter pensare a quello che si vuole, incluse le parole morte.

Sono quelle che hanno bisogno di mura e di documenti ufficiali per proteggersi, di regole a custodirle. Senza queste corazze, esposte all’aria e agli occhi degli uomini semplici, cadrebbero a terra come foglie. Fiati senza ragione. Per quello il linguaggio della burocrazie le aveva scelte, protette ed allevate con cura.

Delocalizzare”, “Obliterare”;…. se provo a pronunciarle davanti a una fonte, sul crinale grigio di un monte, sullo sciabordio della battigia al tramonto, cadranno a terra senza avermi causato un battito di cuore. Un solo perfetto battito. Solo parole morte di un mondo di cartone.

Arquata del Tronto – frazione Pretare (foto p.Capitini).

 

 Il vento che soffia dal pian grande di Castelluccio spinge quasi più del monocilindrico. Più sotto, verso la valle del Tronto mi aspetta Antonio, un pastore che di parole morte non s’intende, ma di morti si.

Era fuori con il gregge la notte che i Sibillini avevano tremato e il tremore si era portato via più di cinquanta persone a Pescara del Tronto, una frazioncina in bilico tra quattro regioni diverse e ignorata da tutte allo stesso modo. Antonio era rimasto per mesi con le sue pecore tra le macerie della sua vita. Ecco perché di morti se ne intendeva.

Sorpasso il valico di Presta, giusto dove inizia il sentiero per il Vettore, il monte. Ci salirò, ma non oggi.

Giù ad Arquata del Tronto mi dovrebbe aspettare Antonio e un caffè.

(fine prima parte).