UCRAINA ’22 – PRIMA FASE A ELIMINAZIONE DIRETTA.

obice da 155/52 Caesar francese al fuoco (foto p.Capitini)

A giudicare da quanto raccontano le televisioni nazionali la fase a gironi del quadrangolare ucraina’22 ha esaurito il suo appeal mediatico. In attesa che a novembre inizino i campionati del mondo di calcio vogliate gradire per l’estate la replica del meglio della stagione politica appena trascorsa. Peccato che Ucraina ’22 non è una torneo sportivo, non ha tempi stabiliti e neppure regole condivise. Ma avrà comunque un vincitore. Inattesa di scoprire chi tra Ucraina, Unione Europea, USA e Russia si aggiudicherà l’ambito trofeo vogliate gradire un quadro di situazione sulla squadra che si è presentata sul campo per vincere.

Casco pilota elicottero Puma (foto p.Capitini)

Nelle ultime settimane l’offensiva russa sta martellando ogni villaggio, ogni singolo incrocio, ogni ponte nell’est dell’Ucraina e, chilometro dopo chilometro, sta mangiandosi il Donbas. A Severodonetz gli ultimi difensori sono nascosti nei sotterranei di un’altra fabbrica AZOV, stavolta di prodotti chimici. Per loro la speranza non ha ali per volare oltre il fiume che li separa da Lysychansk, la prossima vittima. Poi toccherà ad Andreyevka, Sloviansk, Bakhnur e quindi a Kramatorsk e poi? Forse a Odessa.

L’offensiva russa è una mietitrebbia che nell’estate ucraina ogni giorno falcia vite umane, non più grano. Si fermerà presto? La risposta è semplice quanto cruda: durerà finché russi e ucraini capiranno che sparando non potranno ottenere di più. Fino al momento che potremmo definire di reciproca consapevolezza è illusorio sperare che sanzioni, armi, pressioni e minacce fermeranno il massacro. Per ora dunque sono ancora gli eserciti a parlare. Di quello russo, almeno all’inizio, avevamo tutti capito ben poco. Nell’illusione calcistica che in occidente ha accompagnato la prima fase della guerra i soldati di Mosca sono stati descritti come pasticcioni, demotivati, mal armati e peggio comandati, senza una strategia e senza neppure una tattica. Forse non avevano neppure uno straccio di piano e ci mancava poco che qualcuno iniziasse a dire che erano capitati in Ucraina perché avevano sbagliato strada. I fatti e i morti si sono incaricati di smentirci anche se, diciamocelo, l’idea di una blitzkrieg c’era piaciuta tanto e invece il perfido Putin per guastarci i palinsesti ha optato per la guerra d’usura. Ora che il sistema televisivo si sta concentrando sulle vicende di casa nostra è il caso di dare un’occhiata più da vicino a questa sgangherata banda di pasticcioni che in barba alle sanzioni, alla resistenza, ai proclami e alle armi sta andando avanti. Viene in mente il paradosso del calabrone che secondo i calcoli non dovrebbe volare, ma lui non li conosce e vola lo stesso, così i russi secondo gli analisti sono allo stremo e ormai tra loro e l’abisso si frappone solo un velo di opaca illusione, ma loro non lo sanno e stanno vincendo la guerra. Da settimane si discute infatti sull’invio di armi, munizioni ed equipaggiamenti ai difensori e in gran parte lo si fa mantenendo la discussione sul piano morale. Pochi gli sforzi che, almeno nel pubblico dibattito si fanno per comprendere cosa davvero serve all’Ucraina e cosa invece ha il solo scopo di tacitare le nostre coscienze, incattivire l’avversario e in fin dei conti contribuire a proseguire la guerra.

carro armato sovietico T 62 (foto p.Capitini)

Per oltre settant’anni l’occidente è stato prigioniero di una visione, quella di milioni di uomini in colbacco azzurro arrampicati su migliaia di carri armati lanciati contro le pianure del nord Europa.  Su questa paura ci abbiamo costruito un’alleanza che da più di 70 anni ci ha protetto prima dal pericolo rosso e dopo da quello russo. Potere dirimente i una vocale. Eppure a guardarlo da vicino quello che oggi si batte in Ucraina orientale è un esercito che ben poco ha in comune con l’Armata Rossa di Ivan Drago che voleva “spiezzarci in due”. La prima novità che salta all’occhio è che quello russo è un esercito piccolo, molto più piccolo di quello ad esempio americano: 300.000 uomini scarsi contro circa 500.000.

Nel 2008, anno in cui Putin avviò la sua grande riforma dello strumento militare l’esercito russo contava circa 1800 unità da combattimento, vale a dire reparti composti da circa 700 uomini. Dopo la riforma il numero era sceso a poco meno di 200, una ristrutturazione di non poco conto. Dai tempi di Trotsky, il padre dell’armata rossa, nel 2008 Mosca abbandonava l’idea della nazione in armi, del cittadino-soldato e abbracciava il modello professionale, più efficiente, pronto e, soprattutto, meno costoso. Tuttavia posti davanti alla prospettiva di fare il soldato di mestiere e con la possibilità di finire in Cecenia, in Georgia o in Siria, i giovani russi si dimostrarono più freddi del previsto. A poco servirono i concreti sforzi del governo disposto a offrire stipendi migliori, maggiori periodi di ferie e alloggi per il personale. Si è dovuto così ricorrere ancora alla leva, almeno per gli incarichi logistici e non solo visto che la cronaca ci riporta sempre più spesso giovani soldati di leva in prima linea. A questo esercito è stato chiesto non solo di combattere, ma anche di garantire il controllo di Mosca su un territorio di oltre 17 milioni di chilometri quadrati e su regioni che a definire turbolente si pecca d’ottimismo.

A prezzo di sacrifici dolorosi per un’economia tutt’altro che florida, Mosca ha comunque mantenuto in efficienza la sua triade nucleare come viene indicata l’insieme di missili balistici intercontinentali, bombardieri strategici e sottomarini nucleari lanciamissili che fanno ancora della Federazione una superpotenza globale. A farne le spese, neppure a dirlo sono stati i materiali e gli armamenti convenzionali.

L’ammodernamento e lo sviluppo di artiglierie semoventi, armi leggere, carri armati, sistemi di comando e controllo – per non parlare della marina da guerra – ha stentato a decollare, ma d’altra parte anche per i russi il trentennio passato è stato quello dei conflitti asimmetrici a bassa intensità, delle guerriglie, dei bombardamenti da lontano. Difficile pensare che quindici anni dopo la riforma l’esercito russo si sarebbe di nuovo trovato a combattere una guerra fatta di duelli di artiglieria, caposaldi, filo spinato e carri armati.

Per completare il discorso è bene ricordare che il meglio di quanto veniva prodotto dalle aziende di armamento per anni ha preso la via del mercato estero dove mezzi ed armi rustiche e affidabili hanno sempre avuto un grande successo così garantendo a Mosca un discreto rientro di valuta pregiata.

foto p.Capitini

Per quello che rimaneva in patria, magari i vecchi T64 o T72 si è passati alla “mummificazione” una sorta di gigantesca naftalina per i tempi difficili che si sono puntualmente presentati. Da questi immensi parchi sono stati resuscitati parecchi dei carri armati che vediamo oggi sulle strade di Ucraina. Dei nuovissimi T 14 “Armata” come dei veicoli corazzati per la fanteria neppure l’ombra. Qualche esperto si è spinto a ipotizzare che sia toccato proprio a questa ferraglia il compito di assorbire i primi urti della baldanzosa difesa ucraina. Agitati come un drappo rosso davanti al toro hanno contribuito ad abbassare il livello di armi e munizioni pregiate, largamente offerte dall’occidente fino ad arrivare a queste ultime settimane dove è lo stesso presidente ucraino Zelensky a lamentarsi che in dispensa non c’è più farina. Sarà per questo che pian piano da Mosca iniziano solo ora ad arrivare mezzi più moderni e performanti? In questa disamina veloce non potevamo non accennare alla situazione dell’industria bellica russa che non solo da quattro mesi soffre molto dei mali endemici della struttura industriale russa. Corruzione, mancanza di economie di scale, delocalizzazione di componenti essenziali sono solo alcune delle voci del carnet de doleances del Cremlino. Ad esempio apparirà bizzarra che i sistemi elettronici di guida delle bombe intelligenti di Mosca venivano prodotti in Ucraina, così come ucraini erano i cantieri che provvedevano alla manutenzione della flotta, ivi compreso il glorioso incrociatore lanciamissili Moskwa che giace sul fondo del Mar Nero poco lontano da Mykolayv, il cantiere dove venne allestito.

Un esercito con pochi uomini e mezzi logori dunque? Non proprio, c’è infatti un fattore che rende l’esercito di Mosca comunque temibile. Il numero. Certo non si parla dei moderni missili o delle bombe a guida laser, ma delle tradizionali granate di artiglieria stile 2a guerra mondiale. La loro disponibilità rende ancora accettabile l’enorme consumo di munizioni che una battaglia di attrito impone. Quello che per Mosca non è accettabile è invece la perdita di soldati; non certo per motivi morali, ma perché non ce ne sono abbastanza. A differenza degli eserciti della NATO che hanno al primo posto la salvaguardia del personale, per i russi ad essere prioritario è il raggiungimento dell’obiettivo; costi quel che costi, ma fino a un certo punto.

foto p.Capitini

Ecco spiegato l’enorme ricorso al fuoco di artiglieria che sta sbriciolando città e villaggi in Ucraina. I russi hanno un artiglieria potente, numerosa e un numero di munizioni quasi inesauribile. Perché dunque continuare a sacrificare giovani equipaggi e plotoni di fanti quando si possono martellare i difensori per giorni standosene a qualche chilometro di distanza. Rispetto ai primi giorni dell’invasione questa è dunque questa una delle differenze che salta all’occhio: l’ampio ricorso al fuoco e reparti di fanteria sempre più piccoli e mobili, sul modello adottato da subito dall’esercito ucraino. Altro elemento da tenere in considerazione è la completa ridefinizione della catena di comando. L’iniziale incertezza dei primi giorni quando i generali erano in diretto collegamento con il Cremlino ma non tra di loro, con l’arrivo del generale Dvornikov è ormai superata. Come comandante in teatro Dvornikov non è certo un genio napoleonico, ma è ufficiale di grande esperienza, carisma e soprattutto un eccellente organizzatore e la sua mano si riconosce nella metodica condotta dell’attuale offensiva che sembra prefiggersi obiettivi più realistici e raggiungibili.

Cosa c’è da aspettarsi dunque per il futuro? Con ogni probabilità il proseguimento di questa tattica di combattimento che anche se lentamente sta dando i suoi frutti. L’esercito ucraino ha infatti basato la sua tattica difensiva sul trasformare villaggi, città, fabbriche in centri di resistenza a oltranza e pazienza per i civili. Tra una città e l’altra, lungo le immense autostrade, nei campi e tra i boschi Kiev ha fatto agire piccoli gruppi perfettamente addestrati e dotati di armi controcarri letali, secondo la tecnica del “mordi e fuggi”. Mancavano e mancano a Kiev grandi unità corazzate in grado di agire come riserve operative, quelle per intenderci che possono davvero lanciare un contrattacco importante là dove i russi appaiono più deboli. In assenza di queste forze decisive si conducono piccoli contrattacchi locali che guadagnano qualche chilometro e che il più delle volte cadono nel vuoto come, ad esempio, è accaduto a Kharkiv più di un mese fa. Nel frattempo i russi proseguono con la loro battaglia di usura, sapendo bene che ogni giorno che passa gli ucraini hanno sempre meno uomini e sempre meno munizioni.

C’è infine qualcosa che la guerra d’Ucraina ha messo in evidenza e che ci riguarda da vicino. Intendo dire la nostra incapacità a liberarci da un preconcetto culturale secondo il quale i russi stanno sbagliando solo perché non fanno quello che faremo noi. Ci siamo dimenticati che neppure i vietcong o i terroristi dell’ISIS combattevano come noi ma non per questo sono stati avversari meno temibili. Un popolo infatti parla, scrive, sente e anche combatte a suo modo e i Russi giorno dopo giorno, ci stanno insegnando proprio questo. Se si vuol contribuire a far finire questa guerra occorre dunque che si guardi con realismo a questo esercito che della tenacia e della sopportazione ha sempre fatto le sue armi migliori.

Abbiamo però un’alternativa: immaginarci una guerra che ci piace e far finta che i russi la combattano.