“Ci incontreremo ancora, non so dove, non so quando, ma c’incontreremo in un giorno di sole” così cantava Vera Lynn nel 1939. La svastica era stata imposta a Cecoslovacchia e Austria, agli ebrei la Stella di Davide e il Reich del millennio stava invadendo la Polonia, ma Vera Lynn, e milioni di europei con lei, cantavano “We will meet again…”. In questi giorni di inizio autunno, dopo oltre sette mesi di una guerra che sarebbe dovuta durare una settimana, nessuno vuole cantare.

Gli attentati ai gasdotti del Baltico, l’offensiva dell’esercito ucraino ad est, il bombardamento del ponte di Kerch hanno gettato nella confusione tanto i vertici del Cremlino quanto i giovani gopnick chiusi nei blindati in Donbas e mentre si minaccia l’impiego dell’arma atomica noi europei attendiamo l’inverno stretti tra la minaccia di una guerra possibile e una crisi economica già in atto.

Ormai è chiaro a tutti che questa guerra è iniziata con un gigantesco errore di valutazione. Eppure un’occhiata al passato di queste terre poteve bastare per capire che non sarebbe stata una passeggiata.
LAmberti Sorrentino, nel ’43 inviato del Corriere della Sera sul fronte ucraino, così scriveva dello spirito di quella gente: “… spesso ho pensato che costoro sparino soltanto perché un istinto più forte di qualunque paura ve li obbliga. Sbrindellati è convulsi, uccidono perché nel raggio delle loro armi non è giusto che viva nessun estraneo… “Esistiamo! Vogliamo esistere! Esisteremo sempre! Andatevene”. A Mosca nessuno aveva letto Sorrentino e così per tutta la primavera l’armata russa, villaggio dopo villaggio aveva continuato ad avanzare, ma ad un passo dall’ultima offensiva, quella che l’avrebbe portata alla conquista dell’intero Donbas e, forse di Odessa l’avanzata si era esaurita perché esaurito era l’esercito di Putin. Troppo piccolo per il compito assegnato, mal sostenuto da una logistica precaria, privo di una guida decisa e univoca si era fermato a un passo dalla meta, pensando di riprendere a combattere magari verso sud, tra Kherson e Zaporizhzhya. Da quelle parti l’esercito di Zelensky aveva ammassato la maggior parte delle unità, pronto a scatenare una controffensiva.

Per parare l’eventuale colpo anche Mosca aveva quindi fatto lo stesso, accettando l’allungamento di una già precaria catena logistica e di essere sotto il pieno controllo dei satelliti NATO. Attorno a Kherson e Zaporizhzhya la costante pressione ucraina aveva indotto il comando russo a utilizzare le proprie riserve nel peggior modo possibile, vale a dire per alimentare costantemente le unità a contatto. A metà dell’estate in Ucraina meridionale erano stati concentrati quasi settanta gruppi tattici a fronte della ventina a presidio del Donbas e della quindicina lasciati a guardia di Kharkiv e del settore nord.
Nel VI secolo a.C. in uno dei tanti principi elencati nel suo “L’arte della guerra”, Sun Tzu raccomandava “combatti il tuo nemico dove non è”. E proprio al nord, là dove i russi non c’erano più e di riserve neppure a parlarne, gli ucraini hanno iniziato una ricognizione in forze condotta da sole tre brigate ben presto trasformata nella fortunata offensiva che sta portando l’armata russa al limite del collasso. Lyman è caduta, Kharkiv liberata, Izium e Kupiansk in pieno controllo e l’esercito di Kiev ora preme su Lysychansk e domani, forse, su Severodonetsk . Non va meglio a sud dove nel settore di Kherson la testa di ponte russa è ormai divisa in due mentre circolano voci sempre più insistenti di trattative locali per l’abbandono della città a patto che venga garantita la funzionalità della diga di Nova Kakhovka da dove parte il grande canale Nord Crimea, l’arteria che assicura il rifornimento di acqua dolce alla Crimea.
Più a nord la centrale atomica di Enerhodar è ancora occupata dai russi e bombardata dagli ucraini e Zaporizhzhya sembra poter fungere da base di partenza per un’ultima offensiva ucraina che punti a Melitopol e poi al mar d’Azov. A questo quadro già di per se abbastanza fosco negli ultimi giorni si è aggiunto l’attacco o l’attentato al ponte di Kersh, infrastruttura vitale non solo per la Crimea, ma anche per il sostegno logistico.

A questo punto si è pensato o forse sperato che l’esercito russo fosse al limite del collasso, ma l’inverno è alle porte, i soldati ucraini sono ormai esausti e anche i russi hanno trovato una residua volontà di resistenza e quel limite non è stato superato. Chi oggi parla di disfatta non ha dunque notato che l’esercito russo occupa ancora buona parte del Donbas e del corridoio che da questo conduce a Kherson, per non parlare della Crimea.
Che tuttavia la situazione non sia delle migliori se ne è accorta anche la TV di stato russa che ormai non ha più remore a parlare di gravi difficoltà e della necessità di indire la mobilitazione generale oppure di colpire senza risparmio tutti gli obiettivi che permettono agli ucraini di sopravvivere; vale a dire centrali elettriche, stazioni ferroviarie, ponti stradali, dighe e altre infrastrutture. Di lasciar perdere non ne parla nessuno.
Come sempre accade quando le cose vanno male, a Mosca i falchi oggi prevalgono sulle colombe, ma anche a Kiev, ora che si intravede una concreta possibilità di vittoria, parlare di pace è tradimento. I due leader sembrano dunque imprigionati l’uno dal non poter perdere e l’altro dal non poter rinunciare a vincere.

Per il momento Putin ha cercato di governare la fronda ordinando la mobilitazione parziale dei riservisti. I numeri annunciati sono di 300.000 uomini, ma nella realtà le cartoline recapitate sono più di un milione. Quasi tutti i richiamati alle armi arriveranno dalle province della Russia profonda: dal Dhaghestan, dalla Buriazia, dalla Cecenia o dalla Jacuzia, immense regioni che faremo una gran fatica a individuare su una carta geografica. San Pietroburgo e Mosca, come al solito, saranno trattate con un occhio di riguardo perché è qui che più forte si fa sentire la protesta. Tuttavia Putin sa bene che mentre Mosca strepita e a San Pietroburgo ci si mette in coda alla frontiera finlandese per espatriare, nei villaggi del Caucaso, oltre gli Urali o nella immensa Siberia il richiamo della Madre Russia è ancora forte, come forte è la povertà e la lusinga di una buona paga da volontario nell’esercito.

Alla fine Putin avrà dunque il suo milione di soldati, addestrati ed equipaggiati ad un livello più che accettabile, pronti per essere eventualmente spediti in Ucraina. Quando? Non prima di quattro o sei mesi, cioè per la primavera 2023. Nel frattempo ci si domanda se l’esausto esercito russo, in difensiva su tutti gli oltre 800 chilometri di fronte, reggerà almeno fino all’inizio dell’inverno quando la pioggia e poi la neve imporranno una sosta.
Non che questo dispiaccia agli ucraini alle quali l’offensiva è fin qui costata migliaia di morti. Anche Kiev è infatti conscia che il momento di massimo sforzo offensivo è ormai alle spalle e che conviene trovarsi delle posizioni forti dove passare l’inverno. Come due pugili esausti entrambi attendono il suono della campana e il prossimo round. Ma la partita nel frattempo si è già spostata dal campo alle cancellerie del blocco occidentale che finora, se pur con qualche incertezza, hanno sostenuto Kiev.

In piena crisi energetica e con una difficile gestione del rientro dalla pandemia nessuno nell’Unione Europea ha oggi voglia di affrontare l’ulteriore problema di come fronteggiare un milione e mezzo di soldati russi in partenza per l’Ucraina. Putin li manderà tutti a combattere tra Kharkiv e Kherson? Certamente no, ma basta il numero a spaventare e a costringere Kiev ad aumentare i livelli dei propri effettivi. La domanda rivolta agli Stati Uniti e soprattutto all’Europa è quindi: “Siete disposti a pagare, armare e sostenere un milione di soldati?”

Anche se non impiegato un simile esercito è dunque già di per sé un’arma strategica, forse più delle paventate armi nucleari tattiche. Peraltro, ora che il fronte si è quasi stabilizzato e l’inverno è alle porte nulla vieterebbe al Cremlino di riprendere l’offensiva già nel prossimo febbraio ma questa volta non più con 150.000 uomini, ma con mezzo milione.
A volerli interpretare i segnali ci sono già. Ad esempio la decisione di inviare al fronte per tappare i buchi solo i richiamati delle classi più anziane, quelli che si erano congedati sette o otto anni fa, tenendo i più giovani e freschi in patria in addestramento intensivo per costituire, con ogni probabilità, il nerbo delle nuove unità da inviare in Ucraina prima del disgelo di primavera.

Quali dunque le prospettive nel medio periodo?
A Mosca si è convinti che questa è una guerra che la Russia non perderà, dovesse impiegarci dieci anni, ma si prospettano comunque tempi duri per tutti. La situazione interna è grave, inutile negarlo. Già un centinaio di deputati da diciotto regioni della Federazione hanno firmato una petizione per chiedere le dimissioni di Putin, ma anche Ėl’vira Nabiullina, direttrice della banca centrale russa e autrice del miracoloso salvataggio del rublo, si è sfilata, per non dire della posizione sempre più traballante del ministro della difesa, Sergej Šojgu, indicato come responsabile del fallimento di questa prima parte della guerra. Come c’era da attendersi, gli insuccessi dell’estate hanno causato grandi cambiamenti anche nei vertici militari. Dmitri Bulgakov, generale e vice ministro della difesa, è stato rimosso e sostituito dal generale Mikhail Mizintsev, il “macellaio di Mariupol” un nome che la dice lunga.

Ma non basta. Per rimanere in tema di nomignoli truci, anche l’aeronautica militare in Ucraina ha un nuovo comandante. E’ il generale Sergej Surovikin, già comandante delle forze aerospazioli e soprannominato “Armageddon“. Alexandr Lapin, comandante del Distretto militare centrale e responsabile del settore di Izium e Lyman, cadute all’inizio dell’offensiva ucraina, è stato sostituito da tempo e via di questo passo. Nel frattempo, anche per prendere fiato, il Cremlino agita lo spettro nucleare non si sa con quale convinzione, se non di spaventare un’opinione pubblica occidentale già pronta a gridare all’escalation e alla terza guerra mondiale.
ma a tal proposito è bene ricordare che qui non si sta applicando una logica lineare, quella per intenderci secondo la quale per fronteggiare una grave crisi in campo tattico-operativo si aumentano gli sforzi in quella direzione.

Piuttosto siamo di fronte a un approccio che potremo definire “circolare” in cui gli avvenimenti accadono contemporaneamente ma su fronti diversi; dove se da una parte si è in difensiva da un’altra si conduce una forte offensiva e su un terzo fronte si guadagna tempo, ma tutto nel quadro di un disegno strategico preciso e tutt’altro che improvvisato.
D’altra parte è proprio questa la caratteristica principale della guerra ibrida di cui la Russia è una dei maggiori sostenitori: combattere su fronti diversi, da quello militare a quello economico, dall’informazione all’energia, dalla persuasione al terrorismo, ma riconducendo tutto a un unico disegno coordinato nel tempo e nell’intensità.
Le esplosioni multiple ai gasdotti north-stream 1 e 2, la paventata minaccia dell’uso di ordigni nucleari, i sottomarini con mostruosi siluri termonucleari che navigano nel mar di Barents, la mobilitazione parziale, la stretta energetica così come i referendum indetti in territori che neppure si controllano, possono essere tutte interpretate come azioni volte ad aumentare la confusione e l’indecisione nel campo avverso, vale a dire da noi, proprio nel momento in cui Mosca non riesce ad affermarsi con la sola forza della armi. Parafrasando von Clausewitz oggi la guerra non è più solo la prosecuzione della politica con altri mezzi, ma lo è con ogni mezzo.

In questa logica si inserisce la gestione russa dell’attacco al ponte di Kersh e la conseguente campagna di bombardamenti degli ultimi giorni. Il colpo inferto alla creatura di Putin, quel ponte che significava il rientro in patria della Crimea, non poteva non avere conseguenze gravi. Tuttavia, al di là dei toni largamente usati in Occidente per condannare la reazione russa, proprio da questa si riescono ad intravedere alcuni barlumi che fanno sperare per il futuro.
Innanzi tutto il non aver direttamente attribuito l’attacco al ponte all’esercito o ai missili di Kiev – fatto che di per sé avrebbe costituito una delle condizioni per il rilascio di munizionamento nucleare tattico – è già un segnale che per ora Mosca non intende superare nessuna “linea rossa”. Si è preferito parlare di terrorismo, di azione sconsiderata, di camion suicidi e di settori del servizi segreti ucraini piuttosto che di missili e neppure Zelensky si è certo affrettato a rivendicare l’azione. E questo è un primo punto positivo. Il secondo lo si può intravedere nella dolorosa campagna di bombardamento missilistico dove insieme all’esplosivo viaggiano anche messaggi. Il più importante è che Mosca non vuole colpire i simboli del potere della repubblica ucraina, né quelli dei suoi sostenitori. Niente piazza Maidan dunque, né palazzo del Governo, ambasciate o ministeri. Meglio neutralizzare infrastrutture energetiche e linee di comunicazione che almeno hanno una qualche valenza ai fini militari.

I russi sono infatti a corto di missili e doverne lanciare più di un centinaio in due giorni deve essere costato parecchio. Questo è quindi un secondo segnale che fa capire come in qualche modo Mosca sappia che prima o poi dovrà parlare proprio con Zelensky. Un terzo positivo elemento viene da oltreoceano. Biden si infatti finalmente accorto che è tempo di esercitare un controllo più stringente sull’uso che Kiev fa degli armamenti da lui copiosamente forniti. Non solo. A Washington si è sempre più riluttanti a far partire per l’Ucraina armi e munizioni che possano davvero colpire in profondità il territorio russo, mettendo così de-facto gli USA in stato di belligeranza. D’altra parte tra poco si terranno le elezioni di medio termine e per Biden evitare un conflitto mondiale o addirittura a favorire la pace sarebbe un gran bel regalo. Infine e per la prima volta, se pur con la ruvidezza imposta dalla situazione, sia Mosca per bocca del ministro degli esteri Lavrov, sia Biden hanno accennato alla possibilità di incontrarsi faccia a faccia per discutere di come far finire questa faccenda prima che davvero sfugga di mano. E’ questo un fatto che suggella i colloqui segreti che le due parti mantengono da tempo.

L’opposizione che in patria inizia a farsi sentire dimostra che Putin si è indebolito abbastanza per essere pronto a trattare e forse a Washington ci si è resi conto che il dopo-Putin potrebbe essere addirittura peggiore di Putin stesso. Certamente non si può pensare a una pace giusta, quella in cui i russi si ritireranno oltre frontiera, magari chiedendo scusa e pagando i danni. Sarà impossibile infatti per i russi uscire da una guerra in una posizione di debolezza. Chi auspica una caduta a breve di Putin forse dovrebbe anche suggerire il nome di colui che vorrà iniziare il suo regno gestendo una sconfitta maggiore di quella patita in Afghanistan. Anche se non ci piace la soluzione va quindi cercata con Putin e avrà un prezzo salato sia per gli ucraini che al di là dei proclami è assai probabile dovranno accettare non pochi compromessi, sia per noi europei, vaso di coccio tra vasi di ferro. Se c’è uno sconfitto già in questa fase della guerra è infatti l’Unione Europea che di unione ha sempre meno. E’ ormai palese che una società economico-finanziaria con spolverate di politica sociale quale è oggi l’Unione non è stata in grado di giocare alcun ruolo in questo guaio. Si è preferito trattarlo come si trattasse di una crisi economica o energetica alla quale ciascuno degli stati membri ha comunque risposto a suo modo, adeguandosi poi alla lista delle sanzioni presentate da Washington. Peccato perché qualora fosse stata ben gestita, avrebbe potuto costituire uno dei momenti fondativi dell’Unione, ma allo stato dell’arte non resta che constatare l’inadeguatezza dell’intera architettura comunitaria.
La situazione è quindi fluida e di certo preoccupante ma, a ben guardare, qualche spiraglio, nostro malgrado, potremo anche intravederlo e finalmente cantare…”we’ll meet again”.
Grazie Paolo!
Analisi perfetta, come sempre… bravissimo sig. Generale!
Analisi esauriente! Hai toccato tutti i punti fondamentali del conflitto sia militari sia politici ed evidenziato l’inadeguatezza del ruolo esercitato dall’Europa.