
Passato il tempo in cui di ibrido c’erano solo muli e mandaranci. Poi sono venuti motori e auto; adesso è il momento della guerra. Una guerra che sempre più spesso viene definita ibrida ma che, come al solito, non rinuncia ad alcun mezzo lecito e soprattutto illecito per raggiungere lo scopo: prevalere.
Trucchi di guerra, inganno, corruzione, terrore, manipolazione fanno parte della natura della guerra e vi si ricorre da tempi immemorabili. E’ allora qual è la novità? Cosa c’è in questo nuovo modo di guerreggiare di realmente nuovo? Iniziamo per il momento con definire che cosa è una guerra ibrida.
Secondo una definizione diffusa una guerra è ibrida quando si impiegano contemporaneamente combinazioni di mezzi politici, militari, economici, sociali e informativi uniti a metodi di guerra convenzionali o irregolari, al terrorismo, ad azioni criminali alla disinformazione e alla propaganda. Tutte queste attività possono essere condotte da una combinazione di attori statali e non-statali”.
Più semplicemente possiamo accettare come definizione di guerra ibrida quella che viene condotta sotto la soglia del combattimento aperto. Rientrano in questo dominio la sovversione, la disinformazione, la corruzione, l’attacco politico, il sabotaggio, la manipolazione, le azioni aggressive in campo finanziario, l’ingerenza elettorale, la creazione di movimenti di opinione e così via.
Come caso di scuola si cita spesso la catena di eventi che nel 2014 portò all’occupazione militare e quindi all’annessione della Crimea da parte della Federazione russa; caso conosciuto come l’operazione degli omini verdi. Se invece ci si rivolge alla controparte russa per Mosca sono esempi di guerra ibrida le operazioni che portarono alle primavere arabe e ancor prima la campagna destabilizzatrice che condusse alla seconda guerra del golfo.

Per tornare comunque al caso Crimea che in questi giorni ha almeno la freschezza della cronaca, esso rappresenta il paradigma del modo in cui si possano conseguire obiettivi politico-militari di assoluta rilevanza senza che ricorrere all’uso della forza e, soprattutto senza che nessuno si fosse reso renda conto di cosa stava succedendo se non a cose fatte. Altri esempi sono le operazioni montate dalla Federazione russa per le elezioni americane del 2016 o per il referendum popolare che ha portato alla BREXIT. In questi ultimi due casi allo scopo di radicalizzare o polarizzare le diverse posizioni politiche, sono state manipolate piattaforme informatiche e social media come Twitter e Facebook, per approfondire le faglie già esistenti nelle società americane e britannica, senza escludere strumenti per così dire più ”classici” come la corruzione o l’illecito finanziamento di gruppi, associazioni o leader. Ma non sono questi i soli mezzi cui si ricorre. Ad esempio si è anche pensato ai rifugiati o meglio a gestire flusso e intensità della massa dei profughi come strumento di destabilizzazione politica. Un esempio? Quello della Bielorussia e della Polonia nel 2021 quando migliaia di profughi afghani e siriani sono stati trasportati nelle foreste del confine e là abbandonati a loro stessi per creare una pesante situazione di imbarazzo al governo polacco apertamente anti-russo.

Trascurando questi come i molti altri esempi, il concetto di guerra ibrida è oggi sempre più spesso associato all’agire della Federazione russa. In primo luogo per i buoni risultati che ha ottenuto sia in Crimea, sia in Ucraina, secondariamente perché proprio a un russo, il generale Gerasimov, si deve l’avvio del dibattito su questo nuovo metodo di combattimento. Mi riferisco a quella che impropriamente è appunto definita “dottrina Gerasimov”, felice definizione per una dottrina mai espressa. Sebbene non è corretto attribuire alla Russia il monopolio su questo tipo di guerra, tuttavia è stato proprio osservando l’agire della Federazione negli ultimi dieci o quindici anni che si è iniziato a notare come si possano ottenere grandi risultati militari pur rimanendo sotto la soglia del combattimento.
Con gli strumenti offerti dall’attuale tecnologia tutte la azioni che storicamente hanno sempre fatto parte del bagaglio della guerra possono infatti essere coordinate e distribuite nel tempo o nello spazio con un’efficacia e un tempismo impossibili in passato. E’ questo, in fondo, ciò che definisce questa visione della guerra conferendone una certa novità: essere in grado di coordinare nel tempo, nello spazio e nell’intensità i diversi strumenti del potere nazionale, per la maggior parte non militari, al fine di conseguire un obiettivo politico-militare.
Tra le varie teorie che sottendono questo nuovo modo di confrontarsi e che tentano di spiegarlo una delle più interessanti è quella formulata dal prof. David Kilkullen riguardo la cosiddetta “guerra liminale” (liminal warfare).

Il punto di osservazione scelto da Kilkullen non si sofferma sugli strumenti che concorrono a formare l’arsenale di un confronto ibrido, ma su come questi vengono calibrati in funzione delle soglie di percezione manifestate dall’avversario. In altri termini di come gli strumenti possano o meno operare efficacemente tra le differenti soglie percettive del sistema difensivo avversario. Sono quindi le soglie di percezione gli elementi centrali della teoria di Kilkullen.
La prima è la cosiddetta soglia di rilevamento o di scoperta. Essa individua il punto in cui i sistemi di rilevamento iniziano a percepire che nella loro realtà si sta verificando qualcosa di anomalo, inatteso e potenzialmente dannoso. Può essere la rapida comparsa di un nuovo movimento politico o il potenziale risveglio del terrorismo, un atteggiamento economicamente ostile da parte di un paese o di una coalizione e molto altro. La soglia di scoperta è il momento in cui l’apparato aggredito prende consapevolezza che qualcosa sta accadendo al proprio interno.
E’ evidente che l’assenza della percezione non significa che in quel momento non siano in atto azioni ostili, ma solo che l’apparato difensivo/informativo non ne è cosciente. E’ questa l’area in cui si sviluppano le operazioni invisibili, le attività clandestine.
Superata la soglia di rilevamento gli apparati dello stato iniziano a investigare per comprendere cosa stia realmente accadendo. Qui si innesca un discorso laterale circa la capacità tecnica e tattica dei servizi di sicurezza di percepire la minaccia. Migliori saranno gli apparati di intelligence, più bassa sarà la soglia di percezione e più difficoltoso sarà per l’avversario condurre le proprie operazioni. Percepire il pericolo non vuol dire però individuarne la provenienza, il che da all’aggressore ancora un margine di tempo per proseguire le proprie attività di destabilizzazione. Da parte dell’aggredito si assisterà all’innalzamento del livello di attenzione, all’incremento dell’attività investigativa e con ogni probabilità il mutamento di atteggiamento sarà percepito anche dall’opinione pubblica che se da un lato può sentirsi protetta dall’altro potrebbe percepire tali attività come un attentato alla propria libertà o una delle forme oppressive del potere. E’ questa l’area delle operazioni segrete o coperte che possono continuare finché non si raggiunge la seconda soglia, quella cosiddetta di “attribuzione” in cui finalmente gli apparati dello stato sono in grado di attribuire una paternità e una responsabilità ai mandanti delle operazioni coperte come pure di quelle clandestine.

A questo punto si potrebbe pensare che una volta individuato l’autore dell’aggressione si possa pensare facilmente a una risposta adeguata. In linea teorica è facile dire di si, tuttavia nel campo del reale avere prove certe ed evidenze incontrovertibili che rimandino a questo o a quello stato è estremamente difficile e quindi pericoloso. Esiste sempre un margine di indeterminatezza, ambiguità o insicurezza che non permette di puntare il dito con sicurezza. E’ proprio sfruttando questo ristretto ambito che l’aggressore continua la sua opera. Come? Incrementando la confusione in ogni modo possibile. Ad esempio attraverso dichiarazioni ai massimi livelli volte a negare ogni coinvolgimento, le offerta di aperta collaborazione con organismi sovrannazionali o stati neutrali per l’individuazione dei responsabili come pure indicando un nemico diverso e fomentando l’incredulità e la sfiducia di una parte della popolazione circa l’onestà e la buona fede del proprio governo. E’ questo il campo aperto alle teorie cospirazioniste, dei circoli segreti che governano il mondo e via di questo passo. Insomma lo strumento utilizzato in questo ristretto ambito è la menzogna come generatrice di confusione. Perché? Per il semplice motivo che l’incertezza rallenta e condiziona i decisori sia nei modi come nei tempi e nella forza della risposta.
Ci si avvicina comunque, se pur con alimentata lentezza, alla terza delle soglie individuate da Kilkullen, quella della risposta. E’ questo il momento in cui l’aggredito decide infine di rispondere all’aggressione e l’operazione ibrida può dirsi conclusa e si entra nel confronto se non nell’aperto conflitto.

Mentre il posizionamento delle prime due soglie dipende in gran parte da fattori tecnici e dalla capacità e dalle potenzialità dell’apparato di sicurezza dello stato, quello della soglia di risposta dipende in larga misura dalla politica. Le società democratiche tendono ad avere una soglia di risposta molto più alta delle autocrazie o delle dittature, questo perché molto più numerosi sono i centri di potere, di mediazione degli interessi dei gruppi, più sviluppata è l’architettura di controllo e di compensazione tra poteri. Peraltro non certo ultima è la necessità per ogni politico di creare consenso attorno a sé. Tutto ciò rappresenta una vulnerabilità delle democrazie perché un eventuale aggressore può largamente sfruttare a proprio favore il tempo impiegato a definire e quindi attuare una risposta adeguata alla minaccia. Per mitigarne gli effetti negativi è palese come i paesi democratici debbano dotarsi di apparati di sicurezza leali, altamente tecnologici e reattivi in grado di individuare le minacce fin dal loro palesarsi. Anche lo strumento militare, la sua forza, la capacità di reazione e il livello di prontezza concorrono a dissuadere l’avversario dal tentare azioni particolarmente aggressive. Da ultimo anche la politica deve essere comunque animata da un forte senso dell’interesse nazionale che deve comunque prevalere su quello, legittimo, di parte.
L’obiettivo di una guerra ibrida è quindi di passare più tempo possibile al di sotto della soglia di risposta anche se non necessariamente al di sotto di tutte le altre soglie. Alcune operazioni possono non essere segrete, altre coperte, ma l’obiettivo di chi le conduce è di non far alzare la temperatura fino alla soglia di risposta in modo che esse non vengano interrotte fino al conseguimento dell’obiettivo prefissato. E’ questo ad esempio il caso delle operazioni messe in atto dalla Federazione russa per favorire in Gran Bretagna un voto favorevole all’uscita del paese dalla Unione Europea. In quello specifico caso quando gli apparati di sicurezza britannici si sono avvicinati alla soglia di risposta ormai il referendum si era tenuto e i risultati erano stati dichiarati.
Questo aspetto introduce alla dimensione temporale di ogni operazione liminale. Chi le pianifica, organizza e conduce sa bene che prima o poi tutto verrà a galla. Non è quindi necessario mantenere il segreto per sempre. L’importante è che l’azione rimanga sufficientemente ambigua fino a quando rispondere sarà inutile o intempestivo. Può anche verificarsi che l’aggressore abbia preventivato come inevitabile il superamento prima o poi della soglia di risposta, ma anche in questo caso è comunque determinato ad arrivare a quel punto da una posizione di forza.
Un elemento significativo in questa che si potrebbe definire architettura delle cattive azioni è che è possibile, almeno in teoria, tornare indietro lungo la scala tentando di riposizionarsi sotto una delle soglie descritte. Ad esempio avviando negoziati di pace, dimostrando buona fede, proponendosi come mediatori o sostenitori di una minoranza oppressa, riuscendo ad ottenere un’investitura ufficiale dall’ONU o da un’altra istituzione internazionale. Insomma i mezzi sono molti, ciò che però rimane e dovrebbe restare in mente è che ci si muove sempre e comunque nel campo della malafede, senza essere davvero mossi da un genuino interesse a risolvere la crisi e a limitare i danni.
Sembra essere questo il caso dell’Ucraina in cui le operazioni coperte e segrete sono iniziate ben prima del 2022, forse anche prima del 2014 quando la crisi si è palesata nei sui primi contorni militari e sono proseguite fino ad oggi quando a fronte della possibilità di un cessate il fuoco unilaterale da parte russa e alla proposta di avviare negoziati di pace, la volontà di Kiev di recuperare i territori invasi e annessi potrebbe essere interpretata non come una legittima aspirazione, ma come desiderio di una parte di proseguire comunque una guerra costosa e sanguinosa che altrimenti sarebbe già conclusa. Gli effetti sulla rete di alleanze che tutt’oggi sostengono il governo Zelensky sono facilmente intuibili.

Fin qui si è parlato di cosa significhi subire una guerra ibrida. A questo punto viene spontaneo chiedersi si esista un modo per reagire. Secondo Kilkullen si. A livello teorico si tratta di procedere con azioni che possono essere raggruppate in cinque fasi. Le prime tre coprono le misure da adottare in seguito alla scoperta della minaccia, alla sua attribuzione e alla decisione di reagire. Le altre due prevedono invece la pianificazione e l’organizzazione di una contro-risposta – non necessariamente militare – e successivamente la condotta sul campo della risposta individuata come più appropriata o semplicemente sostenibile. E’ il caso io delle sanzioni – risposta senza dubbio non militare – decise per reagire alla parte di aperto conflitto con cui la Federazione russa intende regolare la questione ucraina.
In conclusione ciò che rimane al di là delle teorizzazioni è che il fenomeno della guerra è profondamente cambiato negli ultimi decenni passando sempre più dal campo della forza e della sua applicazione ad obiettivi ristretti e definiti al costante confronto e scontro di volontà opposte giocato in gran parte sulle capacità di inganno, dissimulazione, manipolazione e modificazione della realtà. Ciò che invece non sembra essere mutato è la percezione che del fenomeno guerra si ha da parte dell’opinione pubblica, ancora legata mani e piedi allo scontro armato tra carri e artiglierie in qualche landa sperduta. Non è così e non lo è più da tempo e prima ce ne renderemo conto, meglio sarà.
Ottima analisi della parte “occulta” dei conflitti moderni, argomento molto complesso tutto da centellinare.