Dopo oltre dieci mesi anche la guerra russo-ucraina inizia a perdere il gusto della novità, entrando nella piatta routine del quotidiano. Il fascino dell’epica resistenziale, della mobilitazione dei Liberi contro il Tiranno, delle catene umane e delle bandiere perde forza svelando la guerra di Putin per quel che è: un conflitto vero, duro, incerto e dalla durata indefinibile, almeno per ora. E’ ormai chiaro che nel breve periodo cannoni, missili e carri armati non porteranno a una svolta decisiva e nell’attesa proseguono i bombardamenti, gli attacchi dei droni, le sanzioni economiche, il lancio di missili e le reciproche dichiarazioni sull’inevitabile vittoria. Di pace si parla poco, anzi troppo. Già, perché la pace, almeno in questa fase, somiglia più a un’invocazione che a un progetto con qualche margine di concretezza.

E d’altra parte come potrebbe essere diversamente vista la sparizione dall’orizzonte politico-diplomatico dell’ONU, lo schieramento dell’intera Unione Europea nel campo anti-russo, la presa di distanza della Cina a cui si unisce il vagheggiare indifferente o interessato di altri attori che, almeno in teoria, potrebbero avere la forza e il prestigio per avviare il primo passo di ogni pace: la trattativa. Ma trattare su cosa? Qui gli scenari si aprono in un ventaglio che va dalla pace ad ogni costo a quella vittoriosa. In mezzo infinite sono le sfumature, tante quante ne hanno coloro che le propongono anche se un minimo comune multiplo si può trovare in ciascuna: l’Ucraina dovrà rinunciare a qualcosa. Quanto questo qualcosa sia vasto o importante è tutto da discutere. Si va dalla definitiva rinuncia alla Crimea, alla cessione del Donbas, alla creazione di exclave per non parlare dell’architettura istituzionale e di alleanze che dovranno accogliere l’Ucraina nei prossimi decenni. Membro della NATO? Certo che no, o forse sì. Paese dell’Unione Europea? O magari una sorta di stato dalla neutralità imbelle che rassicuri non solo il suo ingombrante e aggressivo vicino, ma anche l’Europa che prima o poi ambirebbe liberarsi del peso di questa costosa adozione a distanza. Lungi dall’essere ipotesi concrete si tratta di un pour-parler che tiene occupati e ci illude di far qualcosa mentre ancora romba il cannone.
I temi in discussione sono vasti e travalicano le dimensioni stesse del conflitto russo-ucraino ponendo domande difficili. La prima è come rispondere alla volontà di Mosca di rientrare nella storia da protagonista e non certo da “potenza regionale” come l’aveva incautamente definita non l’attuale, ma un altro presidente americano, Barrack Obama, all’alba dell’invasione della Crimea. C’è poi il tema della stabilità dell’intero sistema di potere russo che prima o poi dovrà affrontare il dopo-Putin e altri decine di argomenti scottanti che riguardano il destino prossimo del gigante euro-asiatico, ciascuno dei quali possiede una potenzialità polemologica tutt’altro che trascurabile. Sull’altro lato della barricata c’è l’Ucraina di Zelensky e soprattutto degli ucraini che dopo quattrocento anni vedono possibile realizzare il sogno di una identità nazionale, diversa da quell’essere considerati “quasi russi” che li ha identificati per secoli. Il sogno oggi è legittimo e raggiungibile, ma sono le condizioni alle quali esso potrebbe realizzarsi che mettono paura. L’Ucraina sarebbe in grado di gestire decenni di contenzioso anche armato con la Federazione Russa? Potrebbe integrarsi nell’Unione Europea? Si è poi sicuri che gli attuali 27 membri siano felici di accettarne un ventottesimo così problematico. Come si comprende dietro la parola pace si nascondono problemi e questioni che anche quando presi singolarmente richiederebbero anni di lavoro politico diplomatico. In attesa che in tavola vengano quindi portate le vere questioni si discute d’altro. Ad esempio su che tipo di pace si vorrebbe avere. E’ interessante a questo riguardo riflettere sull’affermazione sostenuta da più parti che l’eventuale pace “non dovrebbe umiliare la Russia”.

Fermo restando che nessuna umiliazione dovrebbe essere inferta a chicchessia e che la Russia non può sfuggire dal suo status autoinflitto di paese aggressore, si è poi così sicuri che l’eventuale “umiliazione” della Federazione russa sarebbe ineluttabilmente foriera di nuovi e più feroci conflitti? Certo, c’è la possibilità che questo accada, ma da questo ad assumere una simile preoccupazione a legge storica universale ce ne passa. Tra i difensori di una pace non umiliante per Mosca c’è l’ampia schiera di quanti ricordano gli esiti nefasti della conferenza di Versailles del 1919. “Il trattato di Versailles ha fabbricato tedeschi umiliati che hanno fabbricato ebrei erranti che hanno fabbricato palestinesi erranti che hanno fabbricato vedove erranti incinte dei vendicatori di domani” sintetizza lo scrittore Daniel Pennac e ben prima di lui era stato l’economista Keynes nel suo “Le conseguenze economiche della pace” a mettere in guardia dalle inique condizioni imposte alla Germania post-guglielmina che in gran parte, almeno secondo lui, avrebbero rappresentato l’humus sul quale si sarebbe sviluppato il prossimo conflitto mondiale. La traballante repubblica di Weimar, i moti spartachisti, le croci uncinate di Herr Hitler per molti ne sono state la tragica conferma.

E’ dunque questa la legge? Una pace umiliante aprirebbe la strada al prossimo conflitto russo-ucraino o Russia-NATO? Può darsi, ma non è detto. Come definire, ad esempio, la pace imposta alla stessa Germania a conclusione della seconda guerra mondiale? L’unità nazionale mandata in frantumi, amministrazione controllata per anni, eserciti di occupazione, sovranità limitata, processo di denazificazione e via così. Altro che umiliazione. E il Giappone? Come è stato dell’Impero del Sol Levante dopo Hiroshima e Nagasaki? Eppure la Germania e il Giappone di oggi sono potenze di primo piano, con una società che ha profondamente interiorizzato i principi di una democrazia rappresentativa e nessuna delle due ha pensato a riaprire un conflitto. Paradossalmente proprio noi, l’Italia, che tra le potenze sconfitte della seconda guerra mondiale abbiamo subito un trattamento di favore, ci siamo dimostrati più deboli nello sviluppare una sana società democratica, indugiando ancora a lungo tra nostalgie dittatoriali o illusioni rivoluzionarie, per non parlare del diffuso potere del malaffare. Ma gli esempi non si esauriscono qui. Come vogliamo considerare infatti il presente dell’Iraq dopo la guerra per esportare la democrazia? In questo caso non sono state imposte clausole umilianti al cambio di regime, tutt’altro, ma quello che ne risulta è uno stato allo sbando. Sull’altro versante la Repubblica di Serbia che dagli accordi di Dayton fu costretta ad accettare la deprivazione di parte del territorio, il controllo diretto sulle sue forze armate e altre misure tutt’altro che amichevole, insomma una pace umiliante non ha impedito a Belgrado di concorrere oggi per la piena adesione all’Unione Europea.

Insomma a chi teme che un’eventuale, futura pace umiliante imposta alla Russia causerebbe a breve la ripresa della guerra si può rispondere: “può darsi, ma non è detto”. Ciò che invece appare chiaro è che non esiste una legge storica verificata secondo la quale una pace dura o umiliante è automaticamente l’antefatto della prossima guerra. Questa semplice constatazione purtroppo non facilita, anzi complica la ricerca di una soluzione al conflitto russo-ucraino di oggi. E’ qui che assume davvero rilevanza e assoluto valore risolutorio la capacità dei negoziatori di riconoscere, interpretare e valutare la multiforme e controversa realtà del problema che sono chiamati a risolvere e di immaginare soluzioni accettabili alle parti, rifuggendo scenari preconfezionati e manichei in cui buoni e cattivi si vedono da lontano. In linea di principio si tratta cioè di prefigurare uno scenario in cui le speranze e le opportunità offerte ad entrambe le parti superino, magari di poco, i rimpianti per quanto saranno costretti a cedere. Attribuire un valore condiviso a speranze e rimpianti e il vero compito della diplomazia. Ce la faremo? Per ora valgono ancora le parole pronunciate dall’allora presidente francese Georges Clemenceau a Versailles nel 1919: “fare la pace è di gran lunga più complicato che fare la guerra”.
Ottima analisi che mette nel fuoco della lente la complessità del concetto “pace” e della sua realizzazione nel conflitto russo-ucraino. Tornando indietro nel tempo mi viene in mente la grande utopia propugnata dal Presidente Wilson della ” pace senza vittoria” , una sorta di ibrido della “Pax romana”, utopia che poi i grandi trattati, in primis quello di Versailles, hanno generato la nascita e l’affermazione del nazismo con ampio consenso del popolo. Lo stesso diretto confronto tra i due protagonisti Putin e Zelenskyj potrebbe essere interpretato come un sillogismo aristotelico imperfetto tutto da leggere attraverso un prisma a secondo da dove si guarda. Infine, non dimentichiamo che tutti popoli slavi hanno la memoria degli elefanti.