FINCHE’ C’E’ GUERRA C’E’ SPERANZA: alcune conseguenze economiche della guerra russo-ucraina.

Ad un anno dall’inizio dell’operazione militare speciale molte cose sono cambiate e non solo in Ucraina o nella Federazione russa. Ci si è resi conto che una guerra vecchia maniera in Europa è tutt’altro che un ricordo; che gli eserciti non servono solo per missioni di pace in paesi lontani e che la globalizzazione non è poi così compiuta da impedire a uno stato di attaccarne un altro per ragioni solo a lui note. Tra le espressioni riesumate da un passato prematuramente sepolto c’è l’economia di guerra. Il termine evoca giustamente immagini di gente in fila per un pane striminzito, le tessere annonarie, l’oro alla patria e la borsa nera. Siamo dunque a questo punto? Certamente no, ma non c’è dubbio come l’economia di tutti i giorni sia costretta a fare i conti con questa guerra. E’ bene dunque intenderci su cosa sia un’ economia di guerra.

1935, campagna popoolare “oro alla patria” in occasione delle sanzioni internazionali all’Italia per la guerra di Abissinia.

Secondo una definizione sufficientemente condivisa si tratta di quelle misure, riorganizzazioni e adeguamenti che un moderno stato adotta per orientare la sua intera economia alla produzione di guerra; ovvero, per citare il prof. Stefano Manzocchi, prorettore alla LUISS Guido Carli: “ é la sospensione o il restringimento molto forte dell’economia di mercato, di fatto sostituita da un’economia pianificata in cui a livello centrale si decide cosa si deve produrre e cosa no”. A dar retta infine all’economista francese Philippe Le Billon, autore nel 2000 di Political Economy of War: What Relief Agencies Need to Know, per economia di guerra s’intendono tutte le misure prese per orientare l’economia di uno stato alla violenza. In altri termini quando un paese decide di volgersi all’economia di guerra sposterà il suo intero sistema economico per prepararsi a sostenerla. A conversione terminata si produrranno carri armati, cannoni, missili e aerei a profusione a scapito di tutti i beni materiali e immateriali, dei servizi e delle attività economiche che avevano reso così piacevole la vita in tempo di pace.

Ammodernamento di carri T-72 nella fabbrica Uralvagonzavod di Niznij Tagil.

In Russia e nel resto d’Europa siamo dunque a questo punto? Basta uscire per strada per rendersi conto che ci troviamo in tutt’altra situazione. Certo il conflitto russo-ucraino qualche cambiamento lo ha imposto non solo in Russia, ma anche qui da noi e non parliamo solo del prezzo dei carburanti e delle modifiche alle filiere del commercio internazionale. Chi più, chi meno tutti abbiamo potuto verificare che qualcosa è cambiato nella cosiddetta domanda aggregata, val a dire nella spesa totale per beni e servizi delle famiglie,delle imprese e soprattutto del governo. La guerra russo-ucraina, la possibilità che essa possa estendersi ad altri paesi e la consapevolezza che in occidente molti dei paesi si sono scoperti impreparati ad affrontare una simile evenienza ha costretto a orientare parte della spesa verso il comparto difesa&sicurezza, solo fino all’anno scorso ritenuto marginale e talvolta superfluo. Non solo la Russia e l’Ucraina si sono infatti viste costrette ad aumentare le loro spese militari, ma anche nazioni come la Germania, la Francia e la Gran Bretagna, per non parlare di Polonia, Finlandia e paesi baltici hanno rivisto al rialzo i loro bilanci della difesa. Persino l’Italia che alla difesa ha sempre creduto molto poco, si è vista suo malgrado obbligata ad adeguarsi. 16 marzo 2022, la Camera dei Deputati ha approvato un ordine del giorno che impegna il nostro Paese ad allinearsi alle indicazioni della NATO, aumentando le spese militari. Nel giro dei prossimi sei anni, arriveremo a stanziare il 2% del nostro Prodotto Interno Lordo, contro l’attuale 1,5 %.  Insomma, la possibilità di una guerra in Europa ha riportato d’attualità quello che Joseph Goebbels, ministro della propaganda di Hitler, aveva dichiarato nel 1936 in un celebre discorso a Berlino:”…possiamo fare a meno del burro ma, nonostante tutto il nostro amore per la pace, non possiamo fare a meno di armi!

Torrette di carri T72 in revisione in una fabbrica russa (fonte WEB)

Che effetti avrà nel medio periodo questa corsa agli armamenti? Certo priverà molti altri settori vitali di parte delle già scarse risorse, anche se qualcuno anche in questo caso ha resuscitato il vecchio John Maynard Keynes inventandosi la “economia keynesiana di guerra”. Secondo i sostenitori di questa teoria allo stato potrebbe venire in mente di stabilizzare la recessione o dare un impulso alla stagnazione non dando via al solito programma di lavori pubblici, ma accelerando gli investimenti sul settore della guerra. La ricetta non è certo nuova, basti ricordare cosa era diventata la Germania post Weimar tra il 1930 e il ’39. Sta avvenendo tutto ciò? Non in termini giganteschi come allora ma qualche cambiamento si percepisce. Ad esempio la Repubblica Federale tedesca ha deciso di dotare il settore difesa di cento miliardi di euro tondi, tondi da investire nei prossimi dieci anni, per non parlare della Polonia che ha deciso di destinare il 4% del suo PIL alla difesa e si sta dotando di uno dei più potenti eserciti dell’Europa occidentale. Varsavia, che senza dubbio sente il fiato gelido di Mosca sul collo, ha infatti deciso di acquistare 250 carri armati Abrams dagli USA, 180 carri K2 dalla Corea del Sud, 200 obici semoventi K9 sempre sudcoreani e via così. Viene da chiedersi se questa corsa al riarmo o all’economia keynesiana di guerra sia un riflesso diretto della corrente guerra russo-ucraina. Qualcuno resterà sorpreso nel vedere che da una ricerca del Stockholm International Peace Reserch Institute, uno degli istituti di studi su pace e disarmo più prestigiosi al mondo, già nel 2020 la spesa mondiale destinata agli armamenti era cresciuta del 2,6% arrivando a superare i 2000 miliardi di dollari. In questo studio tra le cinque nazioni che dedicavano alle armi almeno il 4% del proprio PIL, oltre naturalmente agli USA, avremmo trovato la Federazione Russa seguita, indovinate da chi? Proprio dall’Ucraina. Per restare a casa nostra la società LEONARDO del gruppo FINMECCANICA che raggruppa la maggior parte delle nostre industrie della difesa, nel suo bilancio 2022 ha dichiarato ricavi per oltre 9,9 miliardi di euro, vale a dire oltre il 46 % di incremento rispetto al 2021, che pure era stato un anno di crescita eccezionale. Dunque se nella spesa aggregata qualcuno ci ha perso, qualcun altro come al solito ci ha guadagnato.

la catena di montaggio del caccia USA F 35

Viene da chiedersi quali sono gli effetti della guerra sull’offerta aggregata, vale a dire sulla la quantità di beni e di servizi prodotti e offerti sul mercato dalle imprese. A questo riguardo è illuminante accennare agli Stati Uniti. Nel suo ultimo viaggio a Washington Zelensky non ha fatto che chiedere nuove armi e altre munizioni. Perché allora il suo principale alleato, per l’appunto gli Stati Uniti, sono così restii a rifornirlo ai livelli richiesti? Al di là dalle ragioni di sicurezza interna e di equilibri internazionali ve n’è una assai più pratica. Nel 2021 ben il 54% delle budget assegnato al Pentagono è infatti servito per pagare ditte e aziende del comparto difesa in senso stretto. Molti di queste aziende sono oggi restìe ad avviarsi verso la produzione di guerra vera e propria, vale a dire ad aprire nuovi stabilimenti, assumendo e formando nuovo personale per produrre un bene, ad esempio un missile controcarri FGM-148 Javelin, per il quel nessuno può sapere fino a quando ci sarà mercato. Ci vorrebbe una garanzia da parte delle autorità federali americane che il mercato, leggasi la guerra in Ucraina, durerà ancora a lungo, ma al momento non è possibile fornire agli industriali una simile rassicurazione. Non si tratta infatti di aprire un paio di fabbriche e di mettere su doppi turni.

Interno della fabbrica Rheinmetall a Kassell (fonte WEB)

Dando in un’occhiata più da vicino alla struttura produttiva del comparto difesa americano si scopre che in testa alla piramide alimentare ci sono solo cinque super-predatori e segnatamente: Lockeed, Boing, General Dynamics, Raytheon e Northrop Grumman. Un gradino più in basso le cose già si complicano visto che Boing ha 897 aziende che sono sue fornitrici dirette, la General Dynamics ne ha 598, e la Lockeed Martin 408, la Raytheon 223 e la Northrop Grumman, si fa per dire, solo 199. Se si scende infine nella palude dei subappalti si passa a decine di migliaia di piccole e piccolissime aziende ciascuna delle quali produce magari una guarnizione del missile o una semplice vite a testa quadra senza le quali però un Javelin non esce dalla fabbrica. Riconfigurare alle esigenze dell’Ucraina un simile mostro produttivo non significa quindi riaprire un paio di stabilimenti o pagare gli straordinari a qualche migliaio di operai; al contrario è una decisione di politica economica che riguarda un’intera struttura produttiva. Ecco perché il mondo industriale, in assenza di un dato certo sulla durata della guerra oppone forti resistenze a cambiare passo per soddisfare i voraci appetiti dell’armata di Zelensky. La soluzione finora è stata di rivolgersi alle scorte strategiche delle forze armate USA, quelle tanto per intenderci da toccare solo in caso di III guerra mondiale. Qui sono invece i Generali e gli Ammiragli a opporre fiera resistenza. Per ora quindi si chiede a Kiev di consumare meno e con maggiore attenzione, poi si vedrà. Per rimanere in tema di offerta aggregata un’altro effetto è dato dall’accelerazione imposta al progresso tecnologico. Al momento sui campi d’Ucraina non si è ancora visto niente di assolutamente nuovo, a parte l’innovativo impiego di droni a basso costo, ma si deve stare certi che da qualche parte qualcuno sta utilizzando le steppe ucraine come un gigantesco laboratorio per testare nuovi materiali o tecnologie. Da non sottovalutare infine gli effetti della guerra sull’individuazione delle fonti di approvvigionamento energetico. Per ora, almeno in Occidente, tutti stanno pensando a trovare nuovi fornitori di gas e petrolio, ma nel frattempo le ricerche e la tecnologia legata all’economia green hanno subito un significativo balzo in avanti e potrebbero essere un futuro molto più vicino di quanto immaginavamo solo un anno fa.

Rimane da dare un’occhiata agli effetti prodotti dalla guerra sulle supply-chain e, in genere su una struttura produttiva ormai globalizzata. Ve lo ricordate il mantra del periodo del Covid-19 per il quale “niente sarà più come prima”? Sembrerebbe ritornato di moda, stavolta declinato come l’annuncio della prossima fine della globalizzazione. A dire il vero quando all’inizio della pandemia c’eravamo accorti che nazioni ai vertici della produzione industriale mondiale come la nostra non erano in grado di produrre una mascherina di carta da 10 cent avevamo capito che qualcosa andava rivisto nell’architettura produttiva mondiale. Molti stati hanno iniziato a riflettere che, almeno per i settori strategici, un livello minimo di produzione nazionale sarebbe dovuto essere mantenuto e, in alcun casi, ripristinato. La guerra ha solo confermato questa che era ormai un’evidenza, ma da qui a pronosticare la fine della globalizzazione e il ritorno al mondo dei dazi e delle dogane ce ne corre. Visto che siamo in tema di dazi e controlli è inevitabile dare un’occhiata al tema delle sanzioni. E’esperienza condivisa che le sanzioni in primis danneggino chi le emana e solo secondariamente chi le subisce. Gli esempi in questo caso non mancano, basti pensare a Cuba sotto embargo dai tempi di Fidel Castro, all’Iran komeinista, alla Corea del Nord e via così. Ora è il tempo della Russia di Putin per la quale si era pronosticata una caduta verticale del PIL inizialmente del 12% annuo, poi del 7% e ora di meno del 2% (fonti Fondo Monetario Internazionale). Questo perché? Per una serie di motivi, primo dei quali è che nessuno, tantomeno Putin, inizia una guerra senza aver preventivamente messo al riparo adeguate scorte finanziarie e di materie prime per condurla. Secondariamente c’è da considerare la resilienza delle economia in periodi anche lunghi di crisi. Si pensi infatti che l’anno migliore in termini di produzione per la Germania hitleriana non su il ’41, anno in cui la Wehrmacht conquistava l’Europa, ma il 1944 quando gli Alleati bombardavano l’intero paese giorno e di notte. Fatto sta che ad un anno dall’inizio del conflitto la Russia di Putin sembra essere ben lungi dalla catastrofe e dal collasso economico produttivo. Le fabbriche di armamenti come la UralVagonZavod producono oltre 50 nuovi T90M al mese, lo stesso la KB-Mashinostroyeniya continua a produrre i missili Iskander che periodicamente si abbattono sulle città ucraine.

Come è possibile? Innanzi tutto grazie ad un significativo livello di scorte accumulate negli anni precedenti il conflitto e ora attraverso il contrabbando, le triangolazioni, la vendita conto terzi e via così. Basti dare un’occhiata al traffico di TIR tra la Turchia e la Russia, come all’andirivieni di navi battenti bandiere di comodo messe a disposizione di compiacenti armatori occidentali per non parlare della nuova flotta di petroliere di cui si sta dotando la Russia per trasportare il proprio greggio. Si tratta di vere e proprie carrette del mare che però qualche società assicuratrice indiana è ancora disposta a coprire e per le quali qualche staterello non trova difficoltà ad iscrivere nel proprio registro navale. Vuol dire che le sanzioni non servono? Certamente no: servono a rendere più caro e lento l’approvvigionamento di prodotti essenziali e più difficoltoso commerciare i propri. Insomma servono ad aumentare i costi, non a fermare l’economia e tanto meno la guerra. Come si vede molte delle vite di giovani soldati oggi nelle trincee del Donbas passano anche, se non soprattutto, dalle piazze della finanza e dalle stanze dell’economia. Per dirla con Alberto Sordi in un indimenticabile film del 1974, “Finché c’è guerra c’è speranza”.