Solo un anno fa in pochi avrebbero scommesso non solo sull’incredibile resistenza dell’esercito e dell’intero popolo ucraino, ma addirittura sulla loro capacità di reazione. L’operazione militare speciale di Putin, nata con l’intento di sovvertire in pochi giorni il governo ucraino, sebbene sottodimensionata agli scopi e ai tempi d’una vera invasione, aveva comunque colto l’esercito ucraino non al meglio delle proprie capacità operative.
Problemi di mobilitazione di ingenti numeri di militari; scarsa disponibilità di armamento e di equipaggiamenti e difetti nell’addestramento del personale sembravano segnare il destino di Kiev e invece, giorno dopo giorno, i fatti hanno provveduto a smentire il pronostico. Tuttavia, in guerra non esistono miracoli e neppure quello compiuto dall’esercito azzurro-oro lo è stato. Si è trattato al contrario di un sorprendente e sapiente uso delle risorse a disposizione; pianificate, coordinate e impiegate nel migliore dei modi. Il prezzo da pagare è stato comunque alto, molto alto; sia in termini di vite umane sia di materiali.Focalizziamo l’attenzione su quest’ultimo aspetto e in particolare sugli armamenti pesanti; vale a dire i carri armati, i veicoli per il trasporto e il combattimento per la fanteria e i pezzi d’artiglieria. All’inizio del conflitto per l’esercito ucraino, come per quello russo, tutto questo usciva dai depositi e dagli arsenali ex-sovietici.

Si parla dei carri armati T64 e T72, dei veicoli BMP 1 e 2, dei BTR 90 e via così. Materiali a bassa tecnologia, rustici, economici, pensati e costruiti in previsione di una possibile guerra ad alta intensità nel centro dell’Europa contro il nemico di sempre: la NATO.

Gli eventi che seguirono la caduta dell’URSS e del muro di Berlino sono noti a tutti. Nulla o quasi di quel mondo è sopravvissuto, a meno dei mezzi e delle armi pensate per combattere. Qui è bene porre attenzione a una prima differenza tra l’esercito della Federazione russa e quello di Kiev. All’inizio della guerra, così come in gran parte anche ai giorni d’oggi, Mosca poteva contare su uno sterminato arsenale di mezzi e munizioni accantonati in previsione di un conflitto che, per fortuna non ci fu. E’ da quei parchi perduti oltre gli Urali che sono arrivati i T64, i BRDM, i vecchi camion ZIL e i BMP che avremmo visto in gran numero incendiati e distrutti ai bordi delle fangose strade ucraine. Pur se costituito sulle stesse macchine, il parco veicoli da combattimento dell’esercito ucraino non poteva certo disporre di questo pozzo senza fondo di scorte. E non solo. Affascinati dal potere distruttivo dei javelin e dei droni anticarro switchblade ci siamo infatti dimenticati della terribile usura imposta dal combattimento a tutti i veicoli, russi o ucraini che fossero.

E’ infatti indubitabile come nei mesi di guerra Mosca abbia sofferto terribili perdite anche in termini di materiali, ma mentre l’esercito russo poteva attingere ad un magazzino quasi infinito, Kiev sapeva che ogni singolo carro perso, ogni blindato andato in fiamme, ogni obice colpito dalla controbatteria difficilmente sarebbe stato sostituito. Questa semplice costatazione a Mosca si è trasformata in una precisa strategia di guerra: in mancanza di significativi avanzamenti sul terreno sarebbe stato necessario infliggere a Kiev perdite materiali tali da compromettere la volontà e la capacità di sostegno e di alimentazione che nel frattempo il campo occidentale era stato in grado di sviluppare. Insomma,obbligare Kiev a bruciare molta più legna di quanto riusciva a tagliare.
La domanda non posta era infatti fino a quando l’Occidente sarebbe stato in grado di alimentare lo sforzo ucraino? Quali costi finanziari e di materiali sarebbe stato disposto a pagare? Sulla risposta a queste due domande Mosca aveva basato gran parte della sua strategia di guerra; vale a dire tirarla tanto per le lunghe fino al punto di costringere l’occidente a “staccare la spina” al suo alleato sotto attacco.In questa prospettiva per Mosca ogni carro consumato era un carro guadagnato.
Da parte occidentale la risposta inziale , in gran parte inattesa, era stata di “sollecitare” i nuovi membri della NATO, un tempo appartenenti al patto di Varsavia, a cedere all’Ucraina gran parte del loro parco veicoli di fabbricazione ex-sovietica.
Paesi come Polonia, Repubblica Ceca, Slovacchia, tutti i paesi baltici ma anche Bulgaria, Romania e persino una recalcitrante Ungheria avevano quindi provveduto a rimpinguare l’arsenale di Kiev con i loro vecchi mezzi dalla stella rossa. Non era però bastato. Così si era deciso di acquistarli in giro per il mondo ad esempio da India, Marocco, paesi arabi vari e persino da Cipro.
Tuttavia le necessità di approvigionamento imposte da questa guerra non erano e non sono tutt’ora sufficienti a coprire le esigenze quotidiane di consumo e a questo punto si arriva alla questione dei carri occidentali. Dopo un anno di guerra trovare carri, pezzi di artiglieria, veicoli da trasporto di derivazione ex-sovietica è diventato molto, molto difficile. L’unico posto dove reperire altri carri armati erano quindi gli arsenali e i depositi dei paesi occidentali, in primo luogo quelli americani. Qui però la faccenda si complica.

Già all’inizio dell’estate era apparso chiaro che continuare a supportare Kiev avrebbe significato attingere alle dotazioni e alle scorte degli eserciti dell’Alleanza. Non sarebbe stata dunque la NATO a consegnare alcunché, ma ogni singolo paese avrebbe dovuto decidere se e cosa dare a Kiev e in che tempi. La prospettiva di dover cedere parte dei propri costosissimi e rari assetti da combattimento ha scatenato all’interno di ogni paese una forte e motivata discussione. Non si trattava infatti solo di una scelta di tipo etico sulla giustizia o meno di fornire armi pesanti con cui proseguire la guerra, ma anche valutare che impatto una simile decisione avrebbe potuto avere non tanto sui rapporti presenti con Mosca, già abbastanza compromessi, ma soprattutto per il futuro. Infine si trattava di valuitare con attenzione l’effetto che la fornitura di carri armati avrebbe sortito sull’opinione pubblica di ognuno, vale a dire sull’elettorato.
Accanto a queste che possono essere considerate comuni preoccupazioni, per alcuni paesi in particolare valgono anche considerazioni di politica industriale. E’ questo il caso della Germania dove la Rheinmetall produce il celebre Leopard 2. A livello mondiale questo carro è il naturale competitor dell’americano Abrams, del francese Leclerc e del britannico Challenger ed è un leader nel mercato mondiale.

A Berlino qualcuno ha pensato che consegnare la flotta di Leopard 2 all’Ucraina avrebbe anche potuto significare aprire un buco presto forse non più riempito da altri Leopard 2 ma, perché no, da Abrams statunitensi o addirittura, da K2 Black Panther coreani. Nel momento in cui Polonia, Spagna e gli altri 23 paesi che sono attualmente equipaggiati con Leopard 2 avessero ceduto i loro carri all’Ucraina che garanzia avrebbe mai avuto la Germania di mantenere la propria quota sul mercato dei carri? Il dubbio ha imposto quindi prudenza nel liberare questi paesi dai vincoli contrattuali che li legano a Berlino e alla Rheinmetall.
Esiste poi il problema di quale versione consegnare. Tra un Leopard 2 A1 e una versione A6 corrono infatti enormi differenze tecnologiche che equivalgono a enormi segreti industriali e altrettanti enormi problemi di gestione logistica. La prospettiva del retro-engineering, vale a dire della possibilità che una volta catturato dai russi uno di questi carri sarebbe stato smontato e copiato bullone per bullone era ed è più che concreta e anche questo aspetto impone prudenza.
Infine, c’è la possibilità che una volta schierati nelle pianure ucraine i Leopard 2 possano performare male, vale a dire fare una brutta figura. Che impatto avrebbe infatti sul mercato mondiale l’eventuale distruzione di questi costosissimi carri da parte di uno scalcinato sistema controcarro russo? Perché – potrebbero chiedersi molti governi – pagare così tanto per un carro che, dopo tutto, va a fuoco come qualsiasi altro? Era già successo in Siria quando una quindicina di Leopard 2 dell’esercito turco erano andati in fiamme esattamente come tutti gli altri.
Se esuliamo dall’ambito tecnico e si entra in quello politico viene infine da chiedersi se l’occidente voglia davvero dotare Kiev di una forza in grado di sovvertire le sorti della guerra. Finora sia Biden, sia gli altri leader occidentali hanno giustamente sostenuto il sacrosanto diritto di Kiev a difendersi dall’aggressore. Tuttavia, difendersi è una cosa e vincere un’altra. Si è disposti a sostenere un’offensiva ucraina ad esempio contro la Crimea? E come comportarsi se una puntata offensiva di qualche unità corazzata ucraina decidesse di attraversare il confine russo?
Per evitare ogni rischio è bastato rispondere a Zelensky, il quale chiedeva con urgenza 7-800 carri per vincere, che gli sarebbero stati consegnati circa 200 carri per difendersi, Quando? Con comodo a partire dal maggio di quest’anno per concludere le consegne entro il prossimo anno. Non dimentichiamo infatti che anche quando sostiene valori universali, come il diritto di un popolo di difendersi da un’aggressione, la politica rimane il regno del possibile e del conveniente.
il saggio merita una riflessione molto accurata in merito, tanto per cambiare sul problema non di semplice soluzione : alla fine chi paga?