Nel Mediterraneo sempre più conteso e lacerato, senza più – in apparenza – grandi protettori, l’Italia può ancora considerarsi un paese con una coscienza marittima?

Mediterraneo è oggi una parola quasi priva di significato.
Questo mare chiuso che contiene poco più dell’1% dell’acqua salata del pianeta, ma sul quale transita oltre il 20% del commercio marittimo mondiale, non è oggi infatti solo un “mare tra le terre”, ma piuttosto un “medioceano”. Come altro definire infatti il mare che fisicamente collega l’immenso oceano indo-pacifico con l’Atlantico? Appunto “medioceano”. La definizione è di assoluta rilevanza se si pensa che sugli oceani viaggia circa il 90% delle merci prodotte al mondo e che il comparto marittimo, comprensivo di cantieristica, logistica portuale, rotte, noli, trasporti e via elencando fornisce oltre il 12% del PIL dell’intero pianeta.
Ma il “medioceano Mediterraneo” non è solo traffici ed economia. È linea di faglia tra mondo cristiano e musulmano e, più profonda e instabile, tra ricchi e miserabili. Sulle sue rive si affacciano democrazie evolute, dittature sanguinarie, giovani paesi in cerca di un ruolo e antiche potenze ansiose di riscatto. Sulle sue acque si misurano strategie di piccolo cabotaggio e interessi planetari di super potenze come Stati Uniti e Cina mentre sul suo fondale corre gran parte della rete di approvvigionamento energetico di un intero continente e molta parte dei cavi che collegano l’Europa al resto del mondo è adagiata sulle sue profondità. In questo mare ribollente di crisi ma anche di opportunità la geologia ha posto il lungo molo della nostra Penisola. 1000 miglia la separano da Gibilterra, circa 600 da Suez.

Viene quindi da chiedersi se l’Italia si è accorta di tutto ciò e se, soprattutto, ha intenzione di collocarsi stabilmente in questo complesso scenario, sviluppando una propria realistica strategia e un credibile potere marittimo.
Si potrebbe brutalmente definire il potere marittimo non solo l’insieme coordinato della flotta mercantile e di quella militare, ma anche quello dei porti, dei cantieri, delle tecnologie di connessione, del sistema multimodale dei trasporti e non ultima della politica e della cultura marittima di un popolo. In particolare questi due, sebbene immateriali, costituiscono il lievito di ogni reale potere marittimo. Si tratta infatti di definire quale sia la consapevolezza che un popolo e la sua classe dirigente hanno della propria “marittimità” e della loro storia marittima.

Senza voler tirare di nuovo in ballo Cristoforo Colombo, Amerigo Vespucci o Antonio Pigafetta è noto a tutti che l’Italia come penisola mediterranea possa vantare una storia marittima millenaria i cui effetti sono patrimonio della nostra stessa italianità. Tuttavia a partire dalla sconfitta nella seconda guerra mondiale la marittimità del paese è andata via via affievolendo, limitandosi ormai al ristretto ambito di quanti con il mare e sul mare ci lavorano e ci vivono. Per tutti gli altri e soprattutto per la classe dirigente di questo paese quando si parla di Mediterraneo si pensa a una fonte di guai o a un parco giochi per l’estate. Nel primo caso si guarda all’immigrazione clandestina dai paesi dell’Africa; fenomeno che sta di certo assumendo una dimensione preoccupante, ma non tale da fare dei migranti l’unico interesse italiano verso l’ex “mare nostrum”; come a dire che i 42.449 disgraziati che dal 1 gennaio al 5 maggio 2023 sono sbarcati sulle nostre spiagge non sono un numero sufficiente per farci voltare le spalle al mare. La visione del Mediterraneo come gigantesco parco divertimenti è meno ansiogena visto che sdraie, ombrelloni e pedalò, insieme alle città d’arte, concorrono per ben il 13% a formare il nostro prodotto interno lordo. Balza agli occhi che in entrambi i casi si tratta di una visione molto angusta, priva di ogni profondità politica e, in definitiva, pericolosa per gli interessi generali della comunità che in questa spensierata Penisola ci vive ignara se ha o meno una cultura marittima, vale a dire, secondo un’efficacie definizione di Luca Caracciolo una cultura che invece di guardare il mare dalla terra sollecita a guardare la terra dal mare.

Alla ricerca di uno sguardo marittimo l’Italia si scopre se non proprio cieca almeno molto miope. Ciò che palesemente manca è una visione del mare come estensore e moltiplicatore di potenza, un mezzo vitale per esprimere il soft-power italiano e uno spazio indispensabile alla difesa degli interessi vitali del Paese. Alla luce di questi tre parametri possiamo ben dire che l’Italia non si è ancora ripresa dal trauma causatogli della fine della guerra fredda. Vediamo di capire perché.
Tutto ha inizio a partire dalla fine degli anni ’90, con il definitivo collasso dell’URSS, quando gli Stati Uniti scoprono che era giunto il tempo di prestare attenzione a nuovi teatri; in primo luogo a quello indo-pacifico dove Washington era ed è tuttora convinto di dover giocare la decisiva partita con la Cina. Peraltro a dare una spallata alla noblesse del Mediterraneo aveva pensato l’allargamento a est della NATO. Polonia, stati baltici, Ungheria, ma anche Romania e Ucraina garantivano un più vicino e pressante contributo al contenimento della Russia, nel frattempo faticosamente riemersa dall’apnea post-sovietica.
Per Washington il Mediterraneo si è dunque negli anni trasformato in un teatro di secondo piano, in cui l’impero americano poteva anche non intervenire direttamente, lasciando alle foederatae civitates la gestione delle crisi regionali. L’incancrenita questione israelo-palestinese, il disfacimento del Libano, la guerra civile in Siria, l’espansione turca ai danni dei Curdi, gli attriti balcanici tra Serbia, Kossovo e Croazia, le “primavere arabe” o il sorgere dello stato islamico erano in fondo questioni che il pilastro europeo della NATO e il suo specchio politico della Unione Europea potevano a gestire oppure sopportare, poco importa.

In questo vuoto di potere alcuni stati hanno ritenuto di trovare lo spazio per proporre e talvolta imporre una propria strategia, altri no. Tra i primi il più vivace è stato di certo la Turchia con la sua visione della “patria blu”, ma anche l’Algeria o la Grecia. Anche la Federazione russa ha tentato e sta tentando di uscire dalla morsa dell’allargamento a est della NATO cercando un aggiramento sul fianco sud dell’Alleanza; manovra questa che passa attraverso il diretto coinvolgimento militare in Siria, l’appoggio all’Egitto e la presenza fisica non solo in Libia ma anche tra gli stati del Sahel africano.
Persino stati lontani, non propriamente mediterranei hanno sviluppato una visione di sé che li sta portando a immaginarsi lontano dai contesti attuali. E’ questo il caso della Polonia, degli stati baltici e di altri otto paesi, raggruppati nell’iniziativa del cosiddetto “tri-marium”. Si tratta di un progetto per collegare e difendere gli interessi politici, economici, commerciali e di sicurezza di un area che, partendo dal mar Baltico, arriva al mar Nero e all’Adriatico. L’iniziativa a guida polacca è stata sostenuta sia dall’amministrazione Trump sia da quella attuale di Biden a sottolineare l’avvenuto spostamento a est dell’asse americano in Europa e la costanza della strategia anti-russa di Washington. Fuori da questa iniziativa sono rimasti la Germania, paese che comunque affaccia sul Baltico, ma ancora troppo “filo-russo” e l’Italia.

Al riguardo il nostro paese, come a confermare la mancanza di una visione strategica di sé stessa, dapprima ha reagito con sorpresa e in seguito con completo disinteresse. Ci è voluto del tempo per ricordarci che siamo noi a detenere il controllo completo dell’Adriatico e che siamo sempre noi a disporre dei porti più numerosi e attrezzati sulle sue sponde, partendo da quello di Bari, passando per Ancona, Ravenna, Venezia e concludere a Trieste. Poco importa: la parte adriatica dell’iniziativa è stata affidata alla Croazia. Chapeau!
Eppure mai come in questo momento la situazione generale sembra essere a noi favorevole. Il progressivo disimpegno degli USA, per anni elemento pacificatore dell’intero bacino ha aperto spazi di autonomia solo parzialmente occupati da altre potenze come Turchia, Federazione russa ma anche Francia e Gran Bretagna. Ma c’è dell’altro.
Attraversati da feroci crisi economiche, con la disoccupazione alle stelle, sferzati dalla crisi del grano – sottoprodotto del conflitto russo-ucraino – i paesi della sponda sud del Mediterraneo sono oggi sull’orlo di una crisi che può diventare irreversibile e pertanto cercano disperatamente un appoggio robusto e affidabile nei paesi della sponda nord. Un appoggio che sarebbero disposti a pagare o compensare in termini di controllo dei flussi migratori e forniture energetiche, basterebbe tendere la mano senza ritrarla all’ultimo momento come avvenne nel 2019 quando a fronte delle richieste di aiuto da parte del governo di Tripoli, un governo che noi per primi avevamo concorso ad insediare, preferimmo fare orecchi da mercante, spingendo così la Tripolitania tra le braccia di Ankara, ben felice di porre non uno, ma due piedi nel ex “bel suol d’amor”

Non si tratta della sola Libia dove, a oltre dieci anni dalla caduta di Gheddafi, ancora non s’intravede una via di pacificazione, ma anche della Tunisia i cui giovani sono in fuga dalla fame o dello stesso Egitto dove il governo, nel marzo scorso, per assicurare il pane agli oltre 110 milioni di abitanti, è stato costretto a imporre il prezzo di 50 piastre – poco più di tre centesimi – per un panino di 45 grammi. Il motivo? La crisi del grano scatenata dalla guerra in Ucraina.
A sud del Sahara – immediato retroterra della sponda sud del medioceano – la situazione e ancor più grave. La francafrique è ormai agli sgoccioli, rimpiazzata da cinesi e russi, il Sudan è in preda a una violenta lotta per il potere, il Ciad è anch’esso attraversato da forte instabilità, in Repubblica Centroafricana gli uomini del Gruppo Wagner sono ormai di casa e, come se non bastasse, su tutto questo gravano gli effetti del cambiamento climatico e della perdurante siccità che sta inducendo masse sempre più consistenti di individui a tentare la sorte muovendo verso nord.
“Grande è la confusione sotto il cielo, quindi la situazione è eccellente!” avrebbe forse commentato Mao Tze Tung osservando quando accade in questo irrequieto quadrante. Certo, situazione eccellente a patto di disporre di un disegno capace di coglierne le opportunità e della forza per perseguirle. L’Italia, malgrado tunnel, trafori o valichi, resta in sostanza separata dall’Europa centro-settentrionale dalle Alpi, ed è, sempre suo malgrado, per gran parte un paese mediterraneo. Basterebbe questa banale constatazione geografica per indurre all’azione, ma nulla o poco accade.

In pochi sembrano chiedersi perché in un mare attraversato dal 27% del traffico container mondiale quasi il 90% delle porta-container, una volta uscite da Suez, preferiscono affrontare altri sette o otto giorni di navigazione per arrivare ad Antwerp, Amburgo o Rotterdam piuttosto che attraccare a Napoli, Genova, Bari o Trieste. Eppure il nostro paese è attraversato da alcuni tra i più importanti “corridoi” europei. Abbiamo quello scandinavo-mediterraneo che collega i principali centri urbani in Germania e in Italia con la Scandinavia e il Mediterraneo. C’è poi il corridoio Mediterraneo che collega Spagna e Francia con l’Ucraina e l’Ungheria, passando attraverso le Alpi e l’Italia. Non dimentichiamo i 2400 km del corridoio baltico-adriatico tra i porti del Baltico in Polonia e quelli adriatici, connettendo i centri economici di Varsavia, Vienna, Venezia, Trieste e Ravenna e infine il corridoio alpino collega sull’asse nord-sud i porti sul Mare del Nord di Rotterdam e Antwerp con le basi nel Mediterraneo, come il porto di Genova.

Perché allora la flotta mercantile italiana nell’ultimo decennio ha visto diminuire la propria consistenza e attrattività? Da uno studio pubblicato dal Gruppo Giovani di Confitarma risulta che essa è passata da un tonnellaggio complessivo di 17.044.319 ton. nel 2010 a 14.723.084 ton. nel 2018. Nello stesso periodo la Danimarca da 12.126.432 è passata a 20.966.896 ton. Nel 2008, poco prima della ben nota crisi economica mondiale che ha investito anche lo shipping, l’Italia si collocava al 15º posto della classifica mondiale per tonnellate di gross tonnage (tonnellate di stazza lorda) registrate dai principali Paesi marittimi. Dopo 10 anni, l’Italia ricopre oggi solo la 18ª posizione mentre altri Paesi europei, come Portogallo e Danimarca, in condizioni macroeconomiche del tutto simili alle nostre, ci hanno sorpassato.
Sebbene la situazione, solo a volerla ricercare, sia chiara, il sistema-paese-Italia, definizione tanto cara alle classi dirigenti degli ultimi trent’anni, sembra ancora ostinarsi a far finta di nulla, preferendo guardare il mare dalla terra piuttosto che la terra dal mare.
Si tratterebbe in fondo di coprire quegli otto giorni tra Suez e Rotterdam gettando sul mercato mondiale la controfferta di 36 ore tra Gioia Tauro e Berlino. Tuttavia per giocarsi e vincere questa battaglia dei quattro giorni sono necessarie non certo infrastrutture isolate o di richiamo (vds ponte sullo stretto) ma un sistema combinato di porti-strade e ferrovie all’altezza dell’obiettivo. In questo contesto i fondi del PNRR potrebbero rappresentare un’occasione irripetibile per far ritornare il nostro paese a una dimensione marittima di rilievo. Tuttavia, almeno a stare alla quotidiana vulgata mediatica, di tutto questo sembra giungere un’eco smorzata, come se ignorare la situazione fosse un modo per sfuggirne gli effetti. (fine della prima parte)