TUTTI AL MARE (seconda parte)

Nella seconda parte di questo (lungo) intervento si parla ancora di Mediterraneo ma dal punto di vista di chi una sua visione ce l’ha.

(segue dalla prima parte) Per fortuna non tutti hanno paura di navigare in acque travagliate. Ad esempio va ricordato come nel gennaio scorso l’amministratore delegato dell’ENI Claudio Descalzi ha firmato un accordo quarantennale con la Libia del valore di dieci miliardi di dollari per la fornitura di gas.

L’amministratore delegato dell’ENI, Claudio Descalzi (foto WEB)

Allo stesso modo l’ENI e il presidente della National Oil Corporation (NOC) libica, Farhat Omar Bengdara sembrano decisi al completo ripristino dei 520 km del gasdotto greenstream che dalla centrale di compressione di Mellitah può trasportare a Gela fino a 10 miliardi di metri cubi/anno di metano. Farà piacere sapere che grazie all’Italia e alla messa in esercizio del giacimento Zohr– il più grande mai individuato nel Mediterraneo – l’Egitto ha ormai raggiunto la quasi completa autonomia energetica. E via di questo passo con decine se non centinaia di iniziative, molte delle quali innovative e produttive, che coprono parzialmente il vuoto di visione della Repubblica italiana.

La sede a Tripoli della National Oil Company.

Mentre noi continuiamo a procedere a tentoni altri hanno elaborato un pensiero definito e preciso riguardo la loro vocazione marittima e sono pronti a trasformarlo non solo in una strategia politico-economica , ma anche militare.

E’ giusto sottolineare come accanto al vuoto di potere lasciato nell’area dagli Stati Uniti e allo spostamento dell’asse geopolitico mondiale, un altro elemento ha permesso ad alcuni un nuovo sguardo verso il bacino mediterraneo. Mi riferisco a ciò che è comunemente definita come la “terrorializzazionedel mare.

Per comprendere il valore di questo termine che regola l’attuale regime degli spazi marittimi è necessario fare un passo indietro di una quarantina d’anni. In quell’epoca, agli sgoccioli della guerra fredda, si parlava di acque territoriali, di piattaforma continentale e di alto mare, che potremo definire come “il mare di tutti”. A quel tempo a nessuno sembrava poter venir in mente di “cartolarizzare” l’alto mare, ma mai dire mai.

Mareggiata sul lungomare di Tripoli (foto P.Capitini)

A partire dagli anni ’80 del secolo scorso, in forza di trattati e convenzioni ma anche di manovre unilaterali o di politiche particolarmente aggressive, lo spazio destinato al mare-di-tutti si è molto ridotto. In particolare, nel 1982, con la convenzione di Montego Bay, sono state istituite le Zone Economiche Esclusive che hanno compresso l’Alto Mare, anche se non sono riuscite ad eliminarlo del tutto. Una ZEE[2] è infatti una zona di mare dedicata all’esercizio esclusivo di alcuni diritti da parte dello Stato che la dichiara. Si tratta di diritti quali la pesca, il monitoraggio antiinquinamento, ma soprattutto lo sfruttamento del fondale e del sottosuolo.

Le attuali Zone Economiche Esclusive nel Mediterraneo. L’Italia deve ancora definire al sua

In un mare chiuso sul quale si affacciano venti Stati diversi basterebbe questo a definire il potenziale di crisi e contenziosi generato dalla dichiarazione di una ZEE, così come la perdita di opportunità conseguente la sua mancata individuazione.

Se è vero che una ZEE non ha niente a che vedere con la sovranità esprimibile ad esempio all’interno di acque territoriali e che comunque viene garantito il diritto alla libera navigazione da parte di navi di altri paesi, essa rappresenta comunque un elemento fortemente condizionante il potere marittimo. Nel tempo, alcuni paesi, in primo luogo la Turchia ma anche Grecia, Algeria o Cipro hanno sviluppato una visione più esclusiva e proprietaria della propria ZEE.

Ad esempio nel marzo 2018 un decreto del presidente della Repubblica algerina ha disegnato la ZEE del paese nordafricano estendendola fino ai confini delle acque territoriali italiane, cioè a 12 miglia marine dalla costa sarda e altri contenziosi riguardano ad esempio le isole greche prospicenti la Turchia o le condizioni delle acque attorno a Cipro.

La Zona Economica Esclusiva definita dall’Algeria. Notare la distanza dalla costa sarda.

E l’Italia? In questa corsa a tracciare confini sul mare a che punto siamo? Anche in questo caso la risposta è sconfortante. Il sito della Camera dei Deputati informa infatti che, ad oggi:”…è all’esame della Commissione Affari esteri della Camera, in sede referente, la proposta di legge A.C. 2313, d’iniziativa della deputata Iolanda Di Stasio ed altri, concernente l’istituzione di una zona economica esclusiva oltre il limite esterno del mare territoriale”. Quindi mentre l’Algeria si crede a casa sua a 12 miglia da Carloforte, a Roma stiamo ancora pensando se e quando dichiarare quale sarà la nostra ZEE, sempre che rimanga abbastanza mare per averne una.

In riferimento al tempo che corre qualcuno forse ricorderà anche il caso del cosiddetto accordo di Caen tra Italia e Francia riguardante i confini marittimi a nord della Sardegna. L’accordo firmato il 21 marzo 2015, dopo un lungo negoziato avviato nel 2006 e terminato nel 2012, non è stato ancora ratificato a conferma di come mentre per alcuni il mare va recintato e preservato per noi rimane ancora solo “acqua salata”.

Le crescenti tensioni nel bacino del Mediterraneo stanno infine riportando le marine militari di molti paesi, incluso il nostro, ad esercitare il loro pieno diritto di navigare e operare nelle ZEE di qualche altro paese. Come è ovvio ciò è stato, e ancor più sarà, causa di tensioni e forse di incidenti soprattutto quando una di queste marine è l’emanazione di uno stato che le idee sulla propria posizione nel Mediterraneo le ha ben chiare. E’ questo il caso della Turchia.

Incardinare le proprie scelte politiche in base a una strategia precisa e a lungo termine permeata di dottrina e dal carattere visionario non è una prerogativa di tutti i Paesi. Sono poche le potenze mondiali che possono realmente dirsi in grado di condurre questo tipo di scelta. Una di questa è oggi la Turchia, che da quando Recep Tayyip Erdogan è salito al potere sembra aver intrapreso con costanza l’idea di voler riprendere il posto da cui è stata detronizzata dalla prima guerra mondiale.

Il primo decennio del suo governo ha avuto come faro strategico dotare il paese di una propria profondità strategica da ricercare non solo in terra con l’apertura ai vari stati turcofoni della galassia ex-sovietica, ma anche sul mare. Padre di questa strategia è stato il ministro degli esteri e poi primo ministro Ahmet Davutoglu. Sua infatti la visione di espansione e di penetrazione della Turchia in diverse direttrici e la trasformazione del paese in attore di primo piano nelle contese mediorientali. Sua anche la volontà di espandere Ankara verso i tre mari che circondano la Turchia – Mediterraneo orientale, Mar Nero e Mar Egeo – ma anche verso mari più distanti ma utili a mantenere le roccaforti costruite negli anni della “profondità”.

I confini marittimi secondo la Turchia (fonte Limes)

Tutto questo ha un nome e si chiama “Mavi Vatan”, altrimenti conosciuta come la dottrina della “patria blu”. A idearla è stato l’ammiraglio Cem Giurdeniz nazionalista e kemalista convinto e per questo odierno oppositore di Erdogan. L’obiettivo di mavi vatan è uno solo: controllare il mare per controllare le risorse energetiche e imporre così la propria influenza. Secondo la visione di Ankara sarà dunque il mare, la “patria blu”, a sostenere i suoi piani egemonici e di leadership.

La portaerei/porta droni turca ANADOLU varata il 4 maggio 2019

Non si tratta tuttavia solo di progetti e visioni. 27 novembre 2019 l’allora premier libico Al-Sarraj e il presidente Erdogan hanno concordato la delimitazione delle rispettive ZEE. La decisione era nell’aria da qualche mese dopo che UE, Gran Bretagna, Israele e Stati Uniti erano scesi in campo a difesa dei giacimenti di gas scoperti attorno a Cipro.

Mappa che illustra l’accordo turco-libico del 2019 sulle rispettive ZEE.

L’accordo del 2019 ha finito per costituire una minaccia diretta per i diritti della Grecia sugli spazi marittimi circostanti Creta e il Dodecanneso. La potenziale ZEE di Creta è stata infatti privata di un’ampia porzione poiché quella turco-libica si estende dal promontorio ad ovest di Antaya al tratto di costa libica tra il confine con l’Egitto e Derna e al suo interno si trova per giunta l’isola greca di Castellorizo. Al tempo sulla questione il Ministero degli esteri italiano si era espresso testualmente in questi termini:

”…l’orientamento nella disputa turco-cipriota è diretto a favorire i diritti sovrani di Cipro e ad assumere un atteggiamento fermo ma reversibile auspicando che la Turchia voglia tornare al più presto a un atteggiamento più costruttivo”.

Cosa pretendere di più?

Quello del 2019 è comunque solo il primo di una serie di accordi e di iniziative diplomatiche messe in atto dalla Turchia per esportare il modello “patria blu” anche ad altre frontiere marittime. In tal senso particolarmente rilevanti sono le trattative in corso con Israele per definire una ZEE confinante sul modello di quella turco-libica. Cosa ne possano pensare la Grecia, l’Egitto, Cipro o altri attori dell’area del Mediterraneo orientale è facile da immaginare.

In apertura si è introdotto un neologismo,“medioceano”, è quindi tempo presentare il maggiore degli attori extra-mediterranei ed oceanici che sul nostro ha un’influenza tanto nascosta quanto decisiva: la Cina. Per questo partiamo da un nome e da una data. Il nome è Zhōngguó e la data è 2049.

Carta del mondo secondo Pechino- notare la posizione centrale della Cina.

Zhōngguó, liberamente tradotto in “impero di mezzo” è la definizione che i cinesi danno di sé stessi. Verrebbe da chiedersi in mezzo a che? Al mondo, naturalmente. La Cina popolare e prima di lei quella imperiale si è sempre vista come il centro del mondo; il perno attorno al quale orbitano le altre terre. La cosa non dovrebbe sorprenderci più di tanto, visto che Pechino ha la stessa visione di sé che per oltre 500 anni ha avuto l’Europa e che dopo la seconda guerra mondiale è stata allargata ad un’indefinita realtà geografica denominata “Occidente”, solo per non dire il mondo anglosassone, bianco e capitalista e liberale.

Il mondo secondo l’Occidente – notare l’Europa al centro.

Nulla di sorprendente se lo Zhōngguó, fedele alla sua auto-percezione intenda muoversi per imporla anche al resto dei satelliti, noi compresi.

La visione della Cina nei prossimi anni è dunque di trasformarsi rapidamente da potenza eminentemente terrestre in una super-potenza marittima.

La portaerei cinese “Shandong”

Questo sforzo che non dipende solo dall’incremento degli strumenti fisici del potere marittimo come navi, rotte o porti, ma passa anche dal mutamento di quelli immateriali della storia navale e della coscienza marittima di un popolo sterminato tutt’oggi in gran parte contadino e per ciò stesso legato alla terra.

Chiariamo ora perché si è indicato il 2049. Questa è la data entro la quale Pechino intende definitivamente affermarsi come super-potenza globale attraverso il conseguimento di precisi obiettivi. Per quanto di interesse uno degli obiettivi più importanti è il dominio sul mar cinese meridionale con l’annessione di Taiwan e la connessione al resto del mondo attraverso le “nuove vie della seta”.

Pechino ha dunque capito che per competere davvero con gli Stati Uniti deve trasformarsi in potenza marittima espandendo la propria influenza all’estero anche attraverso il commercio, ma non solo. Chi immagina le nuove vie della seta come semplici assi di penetrazione economico-commerciale commette un errore di sottovalutazione. Essi sono parte di una precisa strategia di potenza.

Nel 2012 Wang Yizhou – vicepreside della facoltà di Studi internazionali all’Università di Pechino – presentò la teoria della “creative involvement diplomacy” come chiave di lettura della nuova diplomazia cinese, non più limitata alla ricerca di risorse energetiche, ma più partecipativa e diretta. Interventismo, ma non interferenza, commercio, ma non sottomissione all’Occidente.

Le nuove vie della seta (fonte Limes)

Questa nuova fase della politica estera mette insieme, secondo il suo autore, grandi opportunità e grandi incertezze per lo “impero di mezzo”, abituato a un’aggressiva diplomazia commerciale fondata sulla ricerca di risorse per alimentare la sua enorme industria. Il mezzo per perseguire questo disegno strategico è la Nuova Via della Seta (in cinese “yī dài yī lù – una cintura, una via liberamente tradotta in inglese in “Belt and Road Initiative). Presentato da Xi Jinping, il piano prevede di ricostruire gli antichi collegamenti tra oriente e occidente lungo una direttrice terrestre e una marittima.

Il presidente cinese Xi Jin Ping

La via terrestre partirà dalla Cina e toccherà Iran, Iraq, Siria e Turchia per poi raggiungere l’Europa continentale, mentre quella marittima passerà per Malesia, India, Sri Lanka e Kenya per poi attraversare il Mar Rosso e arrivare sempre in Europa attraverso il Mediterraneo dove si ricongiungerà con la via terrestre.

L’unione di tre continenti attraverso questa doppia cintura terrestre-navale fornisce una chiarissima visione di quello che la Cina vuole riuscire a conseguire prima delle fine di questo secolo: riconquistare il titolo di impero di mezzo. E’ a questo punto che l’Occidente farebbe bene a riflettere sul fatto che per la Cina la dimensione economico-commerciale e quella militare sono un tutt’uno. Le nuove vie della seta sono dunque essenzialmente uno strumento di potere militare e come tali vanno trattate con le dovute cautele.

Cautela che nel 2019 l’allora governo Conte e il suo ineffabile ministro degli esteri non hanno dimostrato di avere allorché aderirono entusiasticamente alla proposta cinese di inserire l’Italia nell’ambito di questa cintura.

Ci volle del tempo per far comprendere al governo che l’Italia la sua scelta l’aveva già fatta nell’aprile del 1949, aderendo alla NATO e che, volenti o nolenti, eravamo parte di quell’Occidente che la Cina aveva identificato se non come nemico almeno come concorrente.

Gli Stati Uniti fecero altresì sommessamente notare che in Italia erano ancora presenti 13.000 militari americani che per la maggior parte lavorano in una delle nove basi principali sparse per la penisola e che per inciso il comando della 6^ flotta USA era ancora a Napoli.

Un F-16 in decollo dalla base USAF di Aviano

Un membro anziano dell’Alleanza Atlantica e della Unione Europea, paese baricentrico nel Mediterraneo, repubblica fedele alleata degli Stati Uniti che apriva la porta di casa al loro principale avversario non aveva rappresentato un lampante successo della nostra politica estera e ci è voluto del bello e del buono per sfilarsi dalle clausole più stringenti dell’accordo con Pechino.

Perché dunque visti da Pechino Mediterraneo e Italia sono importanti? Perché molto prima di noi i cinesi hanno compreso la funzione di “medioceano” del nostro mare, cioè l’essere il Mediterraneo un canale di transito tra il Pacifico e l’Atlantico. Per garantirsi libero transito e completa libertà d’azione nel Mediterraneo come nel mar cinese meridionale Pechino deve allentare la catena di contenimento americana; una catena i cui anelli sono le isole, gli stretti, le basi e i gruppi da battaglia statunitensi che senza sosta pattugliano il Pacifico, l’oceano Indiano e l’Atlantico.

Le nuove vie della seta sono dunque le direttrici che la Cina intende percorrere per rompere o allentare l’abbraccio contenitivo americano. La via terrestre e quella marittima non sono né alternative l’una all’altra, né certamente separate, ma vanno intese come diramazioni di un unico progetto, di un’unica concezione dell’Eurasia in cui i porti – tanto per restare sul mare – fungono da punto di connessione tra le due diramazioni.

La visione è senza dubbio affascinante e di lungo respiro, così come è proprio della millenaria tradizione cinese, ma presenta dei gravi punti di vulnerabilità, che per l’antagonista statunitense rappresentano altrettante opportunità di rinsaldare la presa attorno al collo del Dragone.

Sia via terra, sia via mare queste vie sono fragili. Esse infatti attraversano territori estremamente instabili, basta pensare all’Afghanistan, alla Russia e oggi alla Ucraina, ma anche sul mare – per il tratto che interessa il Mediterraneo – c’è poco da stare tranquilli.

Malgrado la precarietà la Cina continua a investire in quelli che ritiene essere i punti di forza o se preferite “le oasi” per le sue carovane in marcia lungo le vie della seta. Ve ne sono anche in Italia.

navi portacontainer della China Ocean Shipping Company (COSCO)

Ad esempio perché non ricordare Vado Ligure dove è stato realizzato il Vado Gateway, terminal container gestito da APM Terminals Vado Ligure Spa, società italiana composta da APM Terminals (50,1%), COSCO Shipping Ports (40%) e Qingdao Port International, (9,9%). Trieste dove Pechino continua a investire anche dopo il repentino raffreddamento della partecipazione italiana alla via della seta. E’ dal gennaio 2023 infatti che la Hamburger Hafen und Logistik, società che gestisce il porto tedesco di Amburgo e divenuta gestore anche del porto triestino. Si dirà “Sono tedeschi”. Certo, peccato che il 24,9% di HHL è in mano al colosso cinese COSCO.  A palazzo Gardini, a Ravenna, troviamo la sede europea di CMITChina Merchants Industries Technology Europe; un colosso che tra le tante attività gestisce 53 porti in 20 Paesi ed è uno dei leader mondiali nella costruzione e riparazione di navi e piattaforme off-shore.

Ravenna – Inaugurazione del CMIT a palazzo Gardini

In Sardegna, a Pulaimmerso nel verde, a un’ora di macchina da Cagliari… come recita il suo sito sorge il CRS4 (Centro Ricerca, Sviluppo e Studi Superiori in Sardegna), un centro di ricerca all’avanguardia realizzato grazie alla collaborazione della Regione Sardegna con il colosso cinese delle telecomunicazioni HUAWEI che dal 2016 vi ha investito 17 milioni di euro. Che fanno a Pula i cinesi? Gestiscono il Joint Innovation Center, un laboratorio che ha l’obiettivo di realizzare infrastrutture sperimentali con cui verranno sviluppati servizi intelligenti per le smart cities, le città del futuro. Per ultimo abbiamo lasciato il Mortara (PV) che di questi fin qui enunciati ha finora avuto la sorte più infelice. In mezzo alle risaie di Mortara, o forse proprio per questo, sorge il Polo Logistico Intermodale dal quale alle 11, 50 del 28 novembre del 2017 è partito il primo e finora unico treno destinato a percorrere la linea ferroviaria Mortara/Milano – Chengdu capoluogo della provincia cinese del Sichuan.

Come ovvio iniziative di questo tipo non riguardano solo l’Italia. Noto a tutti è il caso del porto greco del Pireo, acquisito nel 2016, nel pieno della crisi del debito che travolse Atene, dall’immancabile COSCO e odierna via d’accesso privilegiata per le merci destinate ai mercati dell’Europa orientale e punto di smistamento più servito per quelle destinate ai mercati dell’Europa centrale.

La base militare della Repubblica Popolare cinese a Gibbuti

E’ interessante gettare uno sguardo al di là delle sponde del medioceano per giudicare il respiro della strategia di liberazione cinese. Questo sguardo porta nel Corno d’Africa, all’imbocco dello stretto di Bab el-Mandeb. Qui, a Gibuti, a soli 13 km dalla più grande base americana in Africa, da cinque anni opera la prima base militare cinese sul continente nero.

Per citare le parole pronunciate nel 2021 dal generale Stephen Townsend, comandante dell’Africa Command (AFRICOM), alla commissione per le forze armate della Camera statunitense a proposito della presenza cinese in Africa, “La Cina emerge come la forza economica esterna dominante in Africa e i suoi investimenti in Africa stanno superando quelli degli Stati Uniti e dei suoi alleati. La Cina usa il suo peso economico anche per offrire prestiti sfavorevoli ai paesi africani, che funzionano come trappole del debito che aiutano a garantire l’accesso di Pechino alle infrastrutture chiaveSono letteralmente ovunque nel continente”. Per tornare a Gibuti e alla luce della realistica visione del generale Townsend, laggiù la Cina non ha solo una base militare, ma anche il più importante terminal per un colossale progetto infrastrutturale che prevede di unire con una ferrovia la costa orientale dell’Africa con quella atlantica. In linea d’aria sono oltre 4.000 chilometri, la metà della ferrovia transiberiana che qualora si riuscisse davvero ad attraversare con un asse ferroviario e stradale permetterebbero di bypassare in parte Suez e di aprire alla Cina un proprio sbocco diretto in Atlantico.

Cannukkale – stretto dei Dardanelli (foto P.Capitini)

Si potrebbe proseguire nell’elencazione di altre iniziative simili, ma quello che premeva rappresentare qui oggi – in una città che prende il proprio nome dall’essere in mezzo alla pianura e quindi per definizione lontana dal mare – è di come attorno a questo antico mare chiuso come attraverso le sue acque navighino non solo navi e traffici ma manche visioni strategiche di altissimo respiro. La Turchia con la sua “Patria blu”, l’Algeria che tra poco considererà anche la spiaggia del Poetto a Cagliari come Zona Economica Esclusiva, con la Libia in fiamme e 200 milioni di nordafricani potenzialmente pronti a salpare suona rassicurante che da noi Mediterraneo significhi ancora ponte sullo stretto e fiera opposizione alla direttiva europea sugli stabilimenti balneari. Buona fortuna.


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