Perché l’Europa sembra contare come il 2 di coppe quando la briscola è a denari.
Quello che sta venendo a galla con la presidenza Trump più che una modifica di una politica è l’esaurirsi di un lungo ciclo storico.
L’America sembra, infatti, aver smesso di vedersi come un impero e fatica sempre più a comportarsi come tale. Al contrario Trump con i suoi variopinti, multiformi e numerosi seguaci, si interpretano come Grande Nazione: la più grande del mondo, certo ma con i limiti che l’essere nazione e non più impero comportano.
Sotto lo sgualcito Boss of the Plain e con al fianco uno dei revolver di Samuel Colt, lo sguardo dell’America sembra rivolto di nuovo alle praterie e alle Montagne Rocciose. I tempi della costante espansione della bandiera a stelle e strisce verso l’esterno sembrano finiti così come il controllo militare, economico e valoriale verso l’esterno e l’assimilazione di quell’esterno a sé. Badate bene, non è che l’America si sia ritirata dalla competizione mondiale, tutt’altro, solo che vuole giocarsela senza avere la responsabilità e il peso delle decine e decine di clientes che in settant’anni ha racimolato in giro per il mondo.
È la fine di un ciclo politico-strategico che inizia ai tempi di Wilson[1], il presidente della prima guerra mondiale, e arriva fino a Biden, passando per Kennedy, Reagan, Bush – padre e figlio – e da ultimo Obama.
Quello di Trump è il ritorno alla “fortezza America” dei tempi del presidente McKinley; uno stato-continente che accoglie ma poi obbliga all’assimilazione nel modello protestante e anglosassone.
Alla luce di questa impronta culturale e quasi etnica le dichiarazioni del presidente Trump riguardo al Canada come possibile 51° stato dell’Unione o della Groenlandia come pertinenza territoriale statunitense sono meglio interpretabili. Il Canada è infatti un’estensione oltre il confine settentrionale della popolazione bianca e protestante degli USA; insomma i canadesi sono quanto di più simile ad un americano si possa trovare da quelle parti. La Groenlandia è invece assimilabile per il semplice fatto di essere disabitata.
Il Messico, così vicino e popoloso così come gli altri paesi dell’America latina, al contrario, non hanno alcuna attrattiva in quanto, appunto “latinos” e come tali non assimilabili al modello WASP. Peggio, i latinos sono potenziali portatori del batterio della sostituzione invece che dell’assimilazione.

Tra una chiamata alle armi di Macron, una video conferenza tra amici e una riunione di qualche comitato europeo, quello che si deve constatare è che le classi dirigenti europee che saltellano di fronte all’incurante sguardo del Donald sono figlie dell’America di Wilson in tutte le sue declinazioni e non capiscono per nulla questa che gli sta abbaiando addosso. Le élite europee sono spiazzate in quanto frutto della fase storica precedente, quella dell’America globale e imperiale. Quella di Clinton per intenderci.

L’attuale amministrazione americana non ha dunque alcun interesse a mantenere i rapporti con questa classe dirigente europea che considera e percepisce come altro-da-sé. Al contrario, sta lavorando per favorire ogni movimento politico e sociale che riconduca il Vecchio Continente ad una narrativa più simile a quella americana.

Ecco dunque il sostegno aperto di Elonio – che caspita di nome – alla tedesca AfD, il rammarico per la mancata elezione del nuovo presidente rumeno, il sostegno aperto al governo italiano e al Front National di Marie Le Pen così come lo scioccante discorso di pochi giorni or sono del vice presidente Vance alla 61ª Conferenza di Monaco sulla sicurezza. In questo nuovo scenario l’amministrazione Trump intente relazionarsi all’Europa con un modello bilaterale dove, giocoforza, gli USA sarebbero sempre e comunque prevalenti e in aggiunta intende disporre di interlocutori europei, per così dire, trump-compatibili.
La fortezza America ha dunque preso coscienza del fallimento dell’idea globalista del secolo americano che ha sostenuto tutte le amministrazioni dalla caduta del muro di Berlino fino a poco tempo fa. In altri termini l’America si è resa conto di non aver forze a sufficienza per essere l’unica potenza mondiale e che, al contrario, questa iper-estensione, la stava portando al collasso economico prima che militare e politico.
Nel frattempo si è resa conto che la Cina da docile “fabbrica del mondo” era diventata se non ancora il nemico almeno il principale competitore e che la Russia, in qualche modo sopravvissuta al terrificante decennio eltisiniano, non solo non si era dissolta, ma dava anche segni di ripresa, reclamando a gran voce – sempre inascoltata – di voler rioccupare il posto che credeva le spettasse tra le grandi potenze planetarie.

È bene al riguardo ricordare come dal 1999, quando Vladimiro salì al potere, la Federazione russa persegue con costanza tre linee strategiche. La prima è di restaurare e consolidare la sua influenza nell’ambito dello spazio ex-sovietico, includendo in questo non solo i giganteschi “stan” dell’Asia centrale o il turbolento Caucaso, ma anche quello occupato dagli stati dell’Europa orientale nel frattempo divenuti membri della NATO e della UE. Mi riferisco a quello che la buon anima di Gianfranco Funari indicava in litania ponendo l’accento sull’ultima sillaba: la Polonìa, l’Ungherìa, la Romanìa, la Bulgarìa e … via dicendo. La seconda linea vuole contenere l’espansione della NATO a oriente che da Mosca, a torto o a ragione, è percepita come una minaccia incombente e mortale non solo alla sicurezza dello stato, ma alla sua cultura e alla sua storia. La terza linea strategica vuole infine far tornare la Russia a giocare un ruolo rilevante non solo nel rapporto con gli USA, ma anche con i diversi poli che in questi 20 anni di ipertrofia statunitense si sono comunque sviluppati. Si parla certo di Cina e di India, ma anche di altri paesi dei BRICS e non ultima dell’Africa.

Se dunque gli Stati Uniti si scoprono Fortezza America delineando con chiarezza la loro zona di influenza esclusiva, come possono negare ad altri di volerne o mantenerne una loro? Peraltro dopo un’iniziale anarchia in cui Stati grandi o piccoli hanno sgambettato per ricavarsi un loro spazio indipendente sta emergendo chiaramente l’addensarsi di molti di essi attorno a poli ben precisi la cui massa di attrazione è rappresentata da quelli che possono essere definiti come “stati-civiltà”. Ecco quindi gli USA essere lo stato polarizzatore della civiltà occidentale; liberista, democratica, capitalista e individualista accanto ai quali si pone però lo stato-civiltà cinese o quello indiano senza trascurare potenze di seconda o terza fascia, come, ad esempio la Turchia o l’Iran.

Cos’è dunque uno stato-civiltà? Sono gli stati possessori di una propria cultura, di un proprio modo di stare nel mondo e di definire con chiarezza e perseveranza il posto da essi occupato nel contesto mondiale. Sono quelli che possiedono una loro visione strategica, avendo una idea ben chiara del loro futuro o, se si preferisce, del loro destino. Sono soprattutto quelli che alla luce di tutto questo sono capaci di azione per modellare gli spazi del mondo adattandoli alla loro visione.

In questa visione non è compresa l’Europa, né tantomeno l’Unione Europea, per il semplice fatto che essa non ha alcuna delle caratteristiche appena richiamate. Cosa diversa è e soprattutto è stata per gli Stati e le nazioni che la compongono. Si tratta però ormai di storia, anche gloriosa, che non ha più la vitalità indispensabile per poter agire nel contesto attuale. L’Europa in quanto tale non è infatti mai stata un soggetto politico cioè un’entità capace di individuare autonomi interessi, stabilire linee di azione strategiche proprie per perseguirli, individuare e reperire i mezzi necessari e infine attuarle.
Si dice che tutti i nodi, prima o poi, vengono al pettine. Quello europeo ha iniziato ad aggrovigliarsi la notte di natale del 1991 quando la bandiera con Falce e Martello venne ammainata per l’ultima volta dalle cupole del Cremlino.
Quell’atto aveva fatto calare il sipario su gran parte del ventesimo secolo. La rivoluzione del 1917, la vittoria sul nazismo, il primo uomo nello spazio, i Gulag, i carrarmati a Budapest e a Praga, il muro di Berlino, l´Afghanistan: tutto spazzato via. Anche l’importanza dell’Europa occidentale che per cinquant’anni era stato il frutto conteso tra USA e URSS. Per lei e per garantirsi la sua fedeltà l’America aveva avviato il piano Marshall, inviato una flotta permanente nel Mediterraneo, riempito i suoi territori con oltre 100.000 soldati e speso un’enorme quantità di denaro. Aveva anche fondato un’alleanza – la N.A.T.O. – il cui unico scopo era porre il continente europeo sotto l’ombrello atomico di Washington scoraggiando così Mosca dal compiere anche il più piccolo passo in avanti rispetto alle posizioni concordate a Yalta nel febbraio del 1945.
Secondo una definizione di quegli anni la NATO serviva dunque a tenere “Gli americani dentro, i tedeschi sotto e i russi fuori”. E c’è riuscita. Non solo per merito suo ma soprattutto grazie a cinquant’anni di guerra cognitiva rivolta al vecchio continente affinché non solo abbandonasse la secolare abitudine di scatenare guerre al suo interno, ma che non avesse mai più la forza di accendere fuochi mondiali come era accaduto nel 1914 e poi nel ’39.

Visto dalla prospettiva del 2025 si deve dire che il compito è stato assolto. Non solo non sono più state combattute guerre in Europa occidentale, ma la stessa idea di combattere è stata espunta dalle coscienze dei sui quasi 500 milioni di abitanti che hanno preferito concentrarsi sull’essere una potenza economica piuttosto che politica e tanto meno militare. A questo avrebbero pensato gli Stati Uniti. Peccato che con la fine dell’URSS e dopo la presa di coscienza che la Federazione russa, sebbene le sue 4600 testate atomiche, non sarebbe più tornata ad essere l’Unione Sovietica di Stalin l’Europa è divenuta sempre meno importante negli equilibri mondiali e sempre più pericolosa nella competizione economico-finanziaria con gli Stati Uniti.

Per concentrare la riflessione ai soli aspetti militari e di difesa, la N.A.T.O. dei tempi del Dottor Stranamore ha perso ogni significato e, dopo aver perso la partita di aggiramento della Federazione russa con la perdurante guerra in Ucraina, stenta a trovarne uno nuovo.
In molti ambienti americani si inizia a parlare di NATO-Silente, una sorta di Alleanza à-la-carte da attivare in caso di bisogno. Per il resto ognuno per sé e dio per tutti. L’inutile e improduttivo ruolo auto-assunto di guardiano del mondo a Washington è costato molto; troppo e Donaldo insieme a Elonio non intendono continuare a pagare il conto.
D’altra parte anche Obama aveva iniziato a spingere in tal senso se pur in modi decisamente più garbati e forse per questo inascoltati. Trump, con la sua delicatezza da buttafuori di locali di terz’ordine, ha annunciato di voler ridurre del 50% le spese militari americane e contemporaneamente presenta il conto a tutti i commensali. All’Ucraina con un accordo capestro sulle risorse del paese e facendo ingollare una immeritata resa dopo tre anni di guerra; all’Europa imponendo o minacciando dazi e ordinando – non più chiedendo garbatamente– l’aumento della spesa militare al 3 o al 5% del PIL, naturalmente rivolgendo questo flusso miliardario in euro all’industria militare americana.

Dietro questa sguaiata retorica si intravede però un disegno politico che neppure la rozzezza di Donaldo e le fantasie marziane di Elonio possono camuffare.
La prima linea strategica intende mantenere in mano americana la stessa capacità militare dei bei tempi della guerra fredda cedendo però al “pilastro europeo” l’intera responsabilità della difesa del suo continente e delle relative spese. È ovvio che Washington conserverà la leva dell’utilizzo, se necessario, del potere bellico dell’intera Alleanza, magari in Medio oriente o nell’Indo-pacifico, chissà.
La seconda linea è connessa alla prima. In un continente in crisi economica per gli effetti suicidi della politica energetica imposta dall’amministrazione Biden con il corollario delle sanzioni oggi arrivate al sedicesimo pacchetto; con l’industria europea che è quasi ferma anche a causa delle politiche all-green degli ultimi anni e con una classe politica ai minimi in termini di fiducia e capacità, l’aumento delle spese militari rappresenterebbe un potentissimo detonatore sociale a tutto favore di quei movimenti nazionalisti, sovranisti e conservatori così cari alla nuova amministrazione a stelle e strisce. Insomma indebolire e impoverire l’Europa anche attraverso lo strumento della spesa militare per marginalizzarla definitivamente, concedendo a Washington mano libera nel tentativo di sedurre Mosca perché tradisca il suo matrimonio – in verità mai d’amore – con Pechino. Vedremo come andrà a finire. Per ora ci sentiamo come la ragazza più bella della festa che invecchiando nessuno invita più a ballare.
[1] Thomas Woodrow Wilson (Staunton, 28 dicembre 1856 – Washington, 3 febbraio 1924) è stato un politico statunitense, 28º presidente degli Stati Uniti dal 1913 al 1921.