Parigi ti cattura sempre l’occhio. La sua strana magia ti schiaffeggia improvvisa con una mano monumentale, ma subito ti consola con particolari minuti, quasi infantili: un colore, un fiore, il fregio su un ponte o lo sbadiglio di un gatto.
Elegante e sudata ad ogni passo ti ricorda come una città possa essere seducente e allora negli angoli dove ristagna il puzzo dell’urina, Parigi mette un mercatino di fiori o ti fa arrivare le note di un pianoforte nel vociare indistinto di una stazione.
Qui ragazze bionde dai volti bellissimi e dagli occhi di lupo si mischiano a neri monumentali e sfaccendati o a magrebini dall’aria truce. Inutile carne senza nome. Li ritrovi nei musei, fissi sui Samsung a gettare un’occhiata fugace al capolavoro di turno; uno sfondo per l’immancabile selfie.
Le pietre pazienti di questa come di tutte le altre città nel loro tempo dilatato si permettono il lusso aristocratico di ignorare la nostra cadùca biologia che brulica ai suoi piedi.
Mentre cammino lungo il Canal Saint Martin o il Boulevard de Sebastopol guardo tutti quei visi. Inutili come il mio. Occhi vuoti e bocche che parlano di amori, rabbie e speranze. Tutto si confonde nella rapida parabola di qualche respiro, ma Parigi ostinata ti mette davanti la bellezza, l’insolito, il genio di pochi e la sapienza artigiana di molti.
Parigi ha fiducia che prima o poi qualcuno se ne accorgerà.










































































