E’ ARRIVATO UN BASTIMENTO CARICO DI…

Mentre sul fronte la situazione sembra essersi fossilizzata, nelle retrovie e nelle fabbriche si gioca la partita del prossimo futuro.

Cosa accade quando il piano fallisce; quando le prospettive e le ipotesi della vigilia vengono sbriciolate dall’impatto con la realtà? Il dilemma in fondo è semplice: o si abbandona l’impresa o si va avanti. Entrambe le scelte aprono a orizzonti inesplorati e a conseguenze imprevedibili. Eravamo alla fine di febbraio dell’anno scorso quando Putin aveva dato il via libera a quella che con qualche ragione era stata definita “operazione militare speciale”.  L’intervento armato che in due settimane avrebbe dovuto condurre al collasso delle strutture governative ucraine, alla sostituzione della sua classe dirigente e al festoso rientro di Kiev tra le braccia della Grande Russia non poteva infatti definirsi una vera e propria guerra.

Come spesso accade le cose sono poi andate diversamente e da dieci mesi tra Federazione russa e Ucraina si combatte una guerra vera, con migliaia di morti, distruzioni imponenti di infrastrutture, crisi economiche mondiali e il coinvolgimento per ora quasi indiretto della principale potenza militare del pianeta. Lo stesso Putin, che si era affrettato a varare una legge per punire chi avesse scambiato la sua operazione per una guerra, oggi si lascia sfuggire in pubblico che di questo appunto si tratta. Cosa succede allora quando il piano iniziale va a farsi benedire ma si va avanti malgrado tutto? Si brancola nella nebbia dell’imprevisto, urtando una volta contro lo spigolo di una logistica impreparata, un’altra contro quello di soldati insufficienti, inciampando su comandi non coordinati, disomogenei e troppo sensibili agli umori dell’inquilino del Cremlino. Nel frattempo però il tempo passa e la nebbia si alza dando modo di intravedere il panorama con maggiore chiarezza.

il Presidente Vladymir Putin e, alle spalle, il ministro della difesa della Federazione Russa Sergej Shoigu (fonte WEB)

Nei dieci mesi passati l’Ucraina ha capito che una volta assorbito l’urto iniziale avrebbe dovuto far tesoro della confusione che agitava il campo russo e dei preziosi aiuti che ne frattempo l’Occidente, vale a dire gli Stati Uniti, stava profondendo senza risparmio. A Kiev si chiedeva solo di avere il coraggio di combattere senza paura il gigante che sempre più sembrava poggiare su piedi d’argilla. E i giovani soldati ucraini l’hanno fatto con un entusiasmo e una capacità combattiva che in pochi sospettavano solo l’inverno scorso. Tuttavia anche per Kiev l’impatto con la realtà di un nemico caparbio, disposto a grandi sacrifici pur di non mollare la presa ha iniziato a intaccato il sogno di vittoria che giorno dopo giorno assume gli evanescenti contorni di un miraggio o peggio di uno slogan. E’ infatti vero che a fine estate l’intera regione di Kharkiv è stata liberata e che i russi sono stati costretti a lasciare Kherson, il cosiddetto “balcone su Odessa”, ma è altrettanto innegabile che gran parte del Donbas è ancora in mano russa, così come il corridoio di terra che lo congiunge alla Crimea passando per Mariupol, Melitopol e Berdiansk.

soldati ucraini sulla linea del fronte (foto WEB)

L’autunno ha quindi presentato a entrambi i contendenti lo stesso scenario, quello di una guerra su vasta scala, dagli enormi consumi di uomini, mezzi e materiali che al momento si è arenata su una linea del fronte lunga poco più di 500 km che riporta alla mente le Fiandre del 1915. Come un secolo fa si pensa e spera che prima o poi verrà scatenata l’offensiva che permetterà di capire chi vince e chi perde, ma per ora si è di fronte a quella che von Falkenhayn nel 1916 aveva definito la “materialschlacht”; una battaglia di materiali.

I numeri della guerra sono infatti impressionanti, almeno se vengono letti alla luce di quell’illusione che per tre decenni ha cullato i sogni dei governi e degli stati maggiori del mondo occidentale e che andava sotto il nome di “missioni per il mantenimento della pace e della sicurezza internazionale”. Sulle pianure e nelle balke di Ucraina per dichiarare “mission accomplished” non bastano più qualche migliaio di blindati leggeri, un centinaio  di elicotteri multiruolo, qualche mortaio per autodifesa e un manipolo di forze speciali per i lavori sporchi. Qui ogni mese si macinano decine di migliaia di granate di artiglieria, centinaia di carri armati, tonnellate e tonnellate di carburante, montagne di pezzi di ricambio, centinaia di missili e di droni lasciando volutamente per ultimo il computo delle vittime che ormai hanno superato le decine di migliaia. Almeno nei numeri quella russo-ucraina non è un’operazione speciale; è la guerra che per ora si è allontanata dalle mappe dei tattici per appoggiarsi ai calcoli della logistica. Per ora non sembra che sarà un redivivo Napoleone a risolvere la faccenda quanto invece la capacità di una delle due parti di sopraffare l’altra in termini di armi, materiali e uomini. Iniziamo dunque da questi ultimi.

soldati ucraini (foto WEB)

Vi ricordate quando a settembre Putin aveva proclamato la mobilitazione parziale? In occidente l’iniziativa era stata presentata come una mossa disperata per mettere una pezza a colori su una campagna fino a quel momento fallimentare. Le immagini di centinaia di renitenti in fuga, di giovanotti catturati appena fuori dai bar come quelle dei coscritti ubriachi sui camion che li stavano conducendo al fronte avevano fatto il giro del mondo, almeno del nostro, dando l’illusione di una mossa del tutto inutile. Dopo qualche mese bisogna invece riconoscere che il provvedimento qualche effetto l’ha prodotto. In primo luogo ha consentito all’esercito di Mosca di contenere la controffensiva ucraina un Donbas e in secondo luogo ha dato il tempo di addestrare migliaia di nuovi soldati per la spedizione putiniana. Quanti? Da una stima generica si parla di circa 300.000 uomini che potrebbero affiancarsi a quanti da mesi si trovano al fronte, in pratica raddoppiando gli effettivi di Mosca.

Carro armato russo T90M (foto WEB)

E l’Ucraina come ha reagito? Stando alle parole di Valerij Fedorovyč Zalužnyj, il 49enne generale a capo della difesa ucraina, si potrebbe dire con maggiore realismo di quanto abbiano fatto molte cancellerie occidentali. Zalužnyj ha infatti esortato a non prendere sottogamba gli effetti prodotti nel medio e lungo termine dalla mobilitazione russa auspicando a breve un analogo provvedimento da parte di Kiev. Se infatti questa prima parte del conflitto ha visto l’Ucraina prevalere nel rapporto uomo-contro-uomo con Mosca, l’immissione di questa nuova imponente massa di personale porterebbe ad un suo rapido ribaltamento dei valori che passerebbero dall’1 a 1 attuale ad un possibile 3 a 1 per Mosca. In altri termini, per riequilibrare la bilancia, a Kiev serviranno presto nuove reclute addestrate ed equipaggiate da spedire in prima linea. Viene poi da chiedersi come un’eventuale nuova chiamata alle armi potrebbe essere presa da quei giovani ucraini che finora l’hanno scampata.

Caccia bombardiere russo SU 57 – negli ultimi due mesi ai reparti di volo ne sono stati consegnati circa 20 (foto WEB)

Soprattutto da quanti – e sono decine di migliaia – che per svariati motivi hanno trovato rifugio all’estero. Infine Si presenta infine un ulteriore aspetto che non può essere trascurato. Infine l’Occidente sarà ancora disposto ad accollarsi l’onere dell’ulteriore potenziamento dell’armata ucraina? A questo riguardo Mosca scommette che prima o poi ci stancheremo di aiutare Kiev e spingeremo il governo ucraino ad accettare una trattativa con l’aggressore, fatto che avrebbe il sapore di una resa. Per il momento in questa partita a poker con Mosca, Biden e la sua amministrazione continuano a rilanciare anche se a fatica. La guerra in Ucraina infatti costa a Washington miliardi di dollari e ne sta intaccando a fondo le scorte di materiali, armi e munizioni e anche se Biden ha dato prova di sostenere Zelensky senza “se” e senza “ma”, qualche voce in dissenso inizia a farsi sentire. Tra tutte quella di Mark Milley, capo di stato maggiore generale delle forze armate USA, che già nel novembre scorso invitata Kiev ad avviare trattative di pace ora che si trovava in posizione di relativo vantaggio, sottintendendo che questo momento felice non sarebbe durato per sempre. Finora l’invito è caduto inascoltato anche se ormai appare sempre più evidente che qualcosa è cambiato nell’economia della guerra e non si tratta di cose di poco conto. Se infatti è vero che Mosca ha finora dovuto incassare pesanti sconfitte e ingenti perdite è altrettanto vero che non è giunta al punto di rottura. Nel frattempo è invece riuscita in gran parte ad adeguare il proprio apparato industriale ai ritmi della guerra. Oggi dagli arsenali e dalle fabbriche russe escono migliaia di proiettili di artiglieria ogni giorno (si stima quasi 5 milioni di granate in un anno) e nuovi veicoli da combattimento stanno man mano prendendo il posto della vecchia ferraglia post guerra fredda che si era vista all’inizio.

Carro tedesco Leopard 2 (foto WEB)

I moderni carri T 90 M non sono più una fugace apparizione e convogli con decine e decine di questi carri giungono ogni giorno alle retrovie del fronte, lo stesso per altri materiali d’armamento. Anche l’impiego dei missili balistici non sembra risentire dell’embargo occidentale imposto dall’inizio della guerra, per non parlare dei droni acquistati in Iran per qualche migliaio di dollari l’uno. Il divario è anche maggiore se si guarda all’aeronautica dove Mosca dispone di velivoli che per numero e avionica surclassano la malandata aeronautica di Kiev. Ecco cosa serve oggi a Kiev: carri armati moderni, aerei da combattimento e munizionamento d’artiglieria, peccato che tutti o quasi i governi occidentali sembrano finora restii ad equipaggiare Zelensky con il meglio del loro arsenale. Nei mesi scorsi per equipaggiare le unità corazzate ucraine si è provveduto a rastrellare ogni T64, T80 e T72 ancora disponibile nelle caserme polacche, ungheresi, slovacche e addirittura cipriote.

Carro T84 OPLOT ucraino (foto WEB)

A questi si sono aggiunti quelli catturati o abbandonati in gran numero a Kharkiv, Kherson e in altre zone del fronte, ma ormai quel pozzo si sta prosciugando, come in via di esaurimento sono le scorte di parti di ricambio e i materiali per le manutenzioni. Certo, nei mesi scorsi l’Occidente ha fornito anche materiali di pregio come il sistema missilistico HIMARS o gli obici leggeri M777 o ultimo il sistema antimissile PATRIOT, ma il resto è rappresentato ancora da blindati, qualche pezzo controaereo o vecchi arnesi anni ottanta e novanta non in grado di reggere il confronto con una nuova generazione di armi russe. In questo clima non si può certo chiedere all’industria ucraina di colmare il divario, anche se qualche T84 OPLOT esce ancora dalle fabbriche malgrado la fornitura a singhiozzo di elettricità, ma è impensabile che senza un intervento deciso degli americani e di noi europei la situazione possa risolversi. Per ora il primo a pronunciarsi è stato il cancelliere tedesco Olaf Scholz che ha chiarito di non aver alcuna intensione di rifornire di moderni Leopard 2 l’arsenale di Kiev. Biden per ora non si è pronunciato ma si sa di forti resistenze nel concedere robuste forniture di carri M1A2Abrams o di M60A3. Sarebbero invece disponibili a concedere veicoli da combattimento per la fanteria IFV M2 Bradley, ma non è quello che serve davvero.

C’è infine da riflettere su quale incubo organizzativo possa essere il mantenere, riparare e tenere in efficienza mezzi così tanto diversi con catene logistiche tra loro incompatibili. Ad oggi la maggior parte delle riparazioni e delle manutenzioni più importanti devono essere svolte fuori dall’Ucraina con ovvie conseguenze sulla capacità operativa dei reparti. Tutto ciò vuol dire che l’Ucraina è destinata a perdere la guerra? Certamente no, ma è innegabile considerare come si sia giunti ad un momento importante della campagna dove il solo coraggio e il solo morale potrebbe non bastare più. Occorre che USA e altri Paesi riflettano e decidano alla svelta se e quanto rilanciare. Per ora a noi non resta che seguire gli eventi e attendere.

CHE PACE TRA I CAMPI DI UCRAINA

Dopo oltre dieci mesi anche la guerra russo-ucraina inizia a perdere il gusto della novità, entrando nella piatta routine del quotidiano. Il fascino dell’epica resistenziale, della mobilitazione dei Liberi contro il Tiranno, delle catene umane e delle bandiere perde forza svelando la guerra di Putin per quel che è: un conflitto vero, duro, incerto e dalla durata indefinibile, almeno per ora. E’ ormai chiaro che nel breve periodo cannoni, missili e carri armati non porteranno a una svolta decisiva e nell’attesa proseguono i bombardamenti, gli attacchi dei droni, le sanzioni economiche, il lancio di missili e le reciproche dichiarazioni sull’inevitabile vittoria. Di pace si parla poco, anzi troppo. Già, perché la pace, almeno in questa fase, somiglia più a un’invocazione che a un progetto con qualche margine di concretezza.

E d’altra parte come potrebbe essere diversamente vista la sparizione dall’orizzonte politico-diplomatico dell’ONU, lo schieramento dell’intera Unione Europea nel campo anti-russo, la presa di distanza della Cina a cui si unisce il vagheggiare indifferente o interessato di altri attori che, almeno in teoria, potrebbero avere la forza e il prestigio per avviare il primo passo di ogni pace: la trattativa. Ma trattare su cosa? Qui gli scenari si aprono in un ventaglio che va dalla pace ad ogni costo a quella vittoriosa. In mezzo infinite sono le sfumature, tante quante ne hanno coloro che le propongono anche se un minimo comune multiplo si può trovare in ciascuna: l’Ucraina dovrà rinunciare a qualcosa. Quanto questo qualcosa sia vasto o importante è tutto da discutere. Si va dalla definitiva rinuncia alla Crimea, alla cessione del Donbas, alla creazione di exclave per non parlare dell’architettura istituzionale e di alleanze che dovranno accogliere l’Ucraina nei prossimi decenni. Membro della NATO? Certo che no, o forse sì. Paese dell’Unione Europea? O magari una sorta di stato dalla neutralità imbelle che rassicuri non solo il suo ingombrante e aggressivo vicino, ma anche l’Europa che prima o poi ambirebbe liberarsi del peso di questa costosa adozione a distanza. Lungi dall’essere ipotesi concrete si tratta di un pour-parler che tiene occupati e ci illude di far qualcosa mentre ancora romba il cannone.

I temi in discussione sono vasti e travalicano le dimensioni stesse del conflitto russo-ucraino ponendo domande difficili. La prima è come rispondere alla volontà di Mosca di rientrare nella storia da protagonista e non certo da “potenza regionale” come l’aveva incautamente definita non l’attuale, ma un altro presidente americano, Barrack Obama, all’alba dell’invasione della Crimea. C’è poi il tema della stabilità dell’intero sistema di potere russo che prima o poi dovrà affrontare il dopo-Putin e altri decine di argomenti scottanti che riguardano il destino prossimo del gigante euro-asiatico, ciascuno dei quali possiede una potenzialità polemologica tutt’altro che trascurabile. Sull’altro lato della barricata c’è l’Ucraina di Zelensky e soprattutto degli ucraini che dopo quattrocento anni vedono possibile realizzare il sogno di una identità nazionale, diversa da quell’essere considerati “quasi russi” che li ha identificati per secoli. Il sogno oggi è legittimo e raggiungibile, ma sono le condizioni alle quali esso potrebbe realizzarsi che mettono paura. L’Ucraina sarebbe in grado di gestire decenni di contenzioso anche armato con la Federazione Russa? Potrebbe integrarsi nell’Unione Europea? Si è poi sicuri che gli attuali 27 membri siano felici di accettarne un ventottesimo così problematico. Come si comprende dietro la parola pace si nascondono problemi e questioni che anche quando presi singolarmente richiederebbero anni di lavoro politico diplomatico. In attesa che in tavola vengano quindi portate le vere questioni si discute d’altro. Ad esempio su che tipo di pace si vorrebbe avere. E’ interessante a questo riguardo riflettere sull’affermazione sostenuta da più parti che l’eventuale pace “non dovrebbe umiliare la Russia”.

Fermo restando che nessuna umiliazione dovrebbe essere inferta a chicchessia e che la Russia non può sfuggire dal suo status autoinflitto di paese aggressore, si è poi così sicuri che l’eventuale “umiliazione” della Federazione russa sarebbe ineluttabilmente foriera di nuovi e più feroci conflitti? Certo, c’è la possibilità che questo accada, ma da questo ad assumere una simile preoccupazione a legge storica universale ce ne passa. Tra i difensori di una pace non umiliante per Mosca c’è l’ampia schiera di quanti ricordano gli esiti nefasti della conferenza di Versailles del 1919. “Il trattato di Versailles ha fabbricato tedeschi umiliati che hanno fabbricato ebrei erranti che hanno fabbricato palestinesi erranti che hanno fabbricato vedove erranti incinte dei vendicatori di domani” sintetizza lo scrittore Daniel Pennac e ben prima di lui era stato l’economista Keynes nel suo “Le conseguenze economiche della pace” a mettere in guardia dalle inique condizioni imposte alla Germania post-guglielmina che in gran parte, almeno secondo lui, avrebbero rappresentato l’humus sul quale si sarebbe sviluppato il prossimo conflitto mondiale. La traballante repubblica di Weimar, i moti spartachisti, le croci uncinate di Herr Hitler per molti ne sono state la tragica conferma.

E’ dunque questa la legge? Una pace umiliante aprirebbe la strada al prossimo conflitto russo-ucraino o Russia-NATO? Può darsi, ma non è detto. Come definire, ad esempio, la pace imposta alla stessa Germania a conclusione della seconda guerra mondiale? L’unità nazionale mandata in frantumi, amministrazione controllata per anni, eserciti di occupazione, sovranità limitata, processo di denazificazione e via così. Altro che umiliazione. E il Giappone? Come è stato dell’Impero del Sol Levante dopo Hiroshima e Nagasaki? Eppure la Germania e il Giappone di oggi sono potenze di primo piano, con una società che ha profondamente interiorizzato i principi di una democrazia rappresentativa e nessuna delle due ha pensato a riaprire un conflitto. Paradossalmente proprio noi, l’Italia, che tra le potenze sconfitte della seconda guerra mondiale abbiamo subito un trattamento di favore, ci siamo dimostrati più deboli nello sviluppare una sana società democratica, indugiando ancora a lungo tra nostalgie dittatoriali o illusioni rivoluzionarie, per non parlare del diffuso potere del malaffare.  Ma gli esempi non si esauriscono qui. Come vogliamo considerare infatti il presente dell’Iraq dopo la guerra per esportare la democrazia? In questo caso non sono state imposte clausole umilianti al cambio di regime, tutt’altro, ma quello che ne risulta è uno stato allo sbando. Sull’altro versante la Repubblica di Serbia che dagli accordi di Dayton fu costretta ad accettare la deprivazione di parte del territorio, il controllo diretto sulle sue forze armate e altre misure tutt’altro che amichevole, insomma una pace umiliante non ha impedito a Belgrado di concorrere oggi per la piena adesione all’Unione Europea.

PARIS, FRANCE – AUG. 02: Peace sign on the ukrainian flag in protest manifestation against war in Ukraine on Republic Square of Paris on aug. 02. 2014 in Paris, France.

Insomma a chi teme che un’eventuale, futura pace umiliante imposta alla Russia causerebbe a breve la ripresa della guerra si può rispondere: “può darsi, ma non è detto”. Ciò che invece appare chiaro è che non esiste una legge storica verificata secondo la quale una pace dura o umiliante è automaticamente l’antefatto della prossima guerra. Questa semplice constatazione purtroppo non facilita, anzi complica la ricerca di una soluzione al conflitto russo-ucraino di oggi. E’ qui che assume davvero rilevanza e assoluto valore risolutorio la capacità dei negoziatori di riconoscere, interpretare e valutare la multiforme e controversa realtà del problema che sono chiamati a risolvere e di immaginare soluzioni accettabili alle parti, rifuggendo scenari preconfezionati e manichei in cui buoni e cattivi si vedono da lontano. In linea di principio si tratta cioè di prefigurare uno scenario in cui le speranze e le opportunità offerte ad entrambe le parti superino, magari di poco, i rimpianti per quanto saranno costretti a cedere. Attribuire un valore condiviso a speranze e rimpianti e il vero compito della diplomazia. Ce la faremo? Per ora valgono ancora le parole pronunciate dall’allora presidente francese Georges Clemenceau a Versailles nel 1919: “fare la pace è di gran lunga più complicato che fare la guerra”.

VIVERE, MUOVERE E (forse) COMBATTERE.

Est la guerre qui nourrit la guerre”. Bei tempi quelli in cui Napoleone poteva permettersi di dire che era la guerra a dover nutrire la guerra stessa. Di quei giorni rimane valido solo l’adagio che è “l’argent qui fait la guerre”, per il resto ci pensa la logistique, anzi la logistica, branca dell’arte militare che riguarda gli organi, i mezzi, i materiali, le attività e l’organizzazione in grado di permettere a un esercito di vivere, muovere e combattere e possibilmente anche vincere. In altri termini al logista spetta l’ingrato compito di ridimensionare, reindirizzare e limitare i sogni napoleonici di ogni tattico. La formula in questo caso è sempre la stessa: “comandante, mi spiace, ma non ce la facciamo a sostenere questo piano, a meno che…” scoprendo una verità semplice quanto negletta, quella per la quale ogni carro armato, pezzo di artiglieria e non certo ultimo, soldato non ha solo bisogno di un buon piano, di una robusta motivazione e di comandanti capaci, ma soprattutto di cibo, cure mediche, carburante, pezzi di ricambio, munizioni, officine e via dicendo. In sintesi ha bisogno della logistica.

convoglio ferroviario russo (foto WEB)

In questi dieci mesi di conflitto russo-ucraino si è sentito parlare un po’ di tutto; dall’ipotetica pazzia di Putin, ai siluri in grado di affondare la Gran Bretagna; dalla bomba sporca, alla guerra lampo, ma poco di logistica. Tuttavia, ora che l’inverno inizia a stringere uomini e mezzi che si fronteggiano nelle pianure d’Ucraina e che la prospettiva di rapide e decisive offensive si allontana a pari velocità, il tema di come far sopravvivere e combattere i due eserciti appare sempre più come uno degli elementi decisivi per l’esito del conflitto.

Partiamo da una prima costatazione. Lungo i quasi 600 chilometri di fronte, mezzo congelati dentro una trincea, seduti su un rugginoso sedile di un carro o nel fango di una postazione di artiglieria si fronteggiano oggi circa 400.000 uomini che prima di avanzare o ritirarsi, consumano. Per immaginare il livello del problema logistico è sufficiente osservare uno dei materiali più consumati in ogni guerra moderna: le granate di artiglieria. Ce ne sono certo di calibri diversi ma qui basterà soffermarci su quelle più comuni, vale a dire su quelle da 152 mm di produzione sovietica e quelle da 155 mm fornite all’Ucraina dai contributori occidentali. La differenza tra le due non è significativa. Si tratta infatti di un oggetto di ferro riempito di esplosivo ad alto potenziale dal peso di circa 40 kg e dal diametro di circa 15 cm, sparato dalla maggior parte delle artiglierie dell’una e dell’altra parte.

granate da 155 mm NATO (foto WEB)

Secondo stime attendibili dall’inizio delle ostilità, il 24 febbraio scorso, fino ad oggi l’artiglieria di Putin ha sparato circa cinque milioni di queste granate, vale a dire 200.000 tonnellate e questo solo per quelle da 152 mm. Le munizioni da 122 mm, i razzi per i lanciarazzi multipli, le bombe da mortaio e via discorrendo, fanno un conto a parte. Dal punto di vista logistico si è trattato di reperire, trasportare e distribuire queste centinaia di migliaia di tonnellate fino all’utilizzatore finale, vale a dire a pochi metri dalle centinaia e centinaia di pezzi di artiglieria che costellano l’intera linea del fronte. La faccenda si complica ulteriormente allorché ci si ricorda come ogni movimento avvenga in zona di combattimento; lungo itinerari limitati a pochi assi stradali spesso colpiti dall’artiglieria nemica o muovendo convogli lungo linee ferroviarie che si contano sulle dita di una sola mano. Non bastasse tutto ciò, c’è da considerare che la gran parte di queste munizioni è stivata in depositi dispersi a qualche migliaio di chilometri dal fronte, nell’immenso territorio russo. Analoghe riflessioni possono valere per il carburante dei carri o l’olio dei motori, come per il cibo e il vestiario dei soldati o i pezzi di ricambio di questo o quel veicolo. Il rifornimento e il trasporto sono solo due delle diverse attività logistiche necessarie all’esercito di Putin. Degli approvvigionamenti, della manutenzione del parco veicoli, del recupero dal campo di battaglia di quanto è momentaneamente inutilizzabile o della cura dei malati e dei feriti non ne parleremo ma ognuna di queste attività assorbe energie in termini economici come di personale e di tempo.

Limitarsi al solo munizionamento per artiglieria è comunque più che sufficiente per comprendere come colpire l’organizzazione logistica russa sia uno degli obiettivi vitali per lo stato maggiore di Kiev. Qualche esempio? La perdita mesi fa del nodo ferroviario di Izium che ha costretto i russi a una lunga deviazione ferroviaria per alimentare le brigate nel Donbas, come pure il brivido dell’attentato al ponte di Kerch che ha dimostrato che colpire quell’arteria di rifornimento non è impossibile. Ogni ponte, ogni scambio ferroviario, ogni tratto autostradale distrutto rallenta o interrompe l’alimentazione logistica e quindi impedisce ogni azione tattica. In termini più tecnici va ad impattare sull’autonomia logistica di uomini e unità. Contrariamente a quanto si può pensare quando si parla di autonomia logistica non ci si riferisce alla libertà di rifornirsi come meglio si può, ma ad un tempo: quello intercorrente tra un rifornimento e quello successivo. Per garantire ai reparti al fronte la loro autonomia logistica, espressa in termini poniamo di tre giorni, vuol dire che si deve fare in modo che dopo tre giorni dall’ultimo rifornimento ne arrivi un altro di pari livello, pena il decadimento o la perdita della capacità di combattimento dell’unità.

munizioni per artiglieria NATO (foto WEB)

In questi giorni si è molto discusso della possibilità per i russi come per gli ucraini di vivere a breve una grave crisi nei rifornimenti di munizioni. Si tratta di situazioni molto diverse ma accumunate dallo stesso livello di preoccupazione. Iniziamo con i russi.

Chi sperava che Mosca stesse per finire le munizioni è andato deluso. L’Armata Rossa prima e l’esercito della federazione poi ha accumulato depositi pressoché infiniti di munizionamento convenzionale, soprattutto da 152 mm. Il problema per loro è il trasporto e la distribuzione in un territorio dove le strade sono poche, le ferrovie ancor meno e i camion a disposizione non sono certo un esempio di efficienza. Per gli ucraini il discorso è diverso. Le scorte iniziali di munizionamento ex-sovietico si sono in gran parte esaurite e quelle fatte arrivare dai paesi NATO un tempo appartenente all’ex Patto di Varsavia, come la Polonia non coprono certo il fabbisogno come quasi ininfluenti sono i depositi russi caduti in mano ucraina a seguito delle fortunate offensive della scora estate. Il grosso del munizionamento in uso oggi dall’esercito ucraino è dunque di origine NATO, o meglio americana. Si tratta delle granate da 155 mm, sostanzialmente analoghe a quelle russe da 152 mm che l’artiglieria ucraina macina a ritmo di 6000 colpi al giorno, vale a dire circa 180.000 colpi al mese. Nessuno si aspettava consumi di questo livello per un tempo così lungo e per gli ucraini si che il numero dei colpi disponibili sta diventando un problema.

soldati russi in trincea (foto WEB)

Fin’ora l’Occidente ha rifornito Kiev con all’incirca un milione di granate. Di queste circa 900.000 sono partite dai depositi USA; 20.000 da quelli britannici, 13.000 sono tedesche, circa 6000 francesi e il resto provengono da altri paesi. L’Italia? Non si hanno dati pubblici, ma è certo che la richiesta di munizioni da 155mm per l’Ucraina è andata a cadere in una situazione più che precaria delle nostre scorte. Se si è voluto aggravarla non è dato sapere. Tornando però al ritmo di consumo ucraino di 180.000 colpi/mese viene da chiedersi chi sia in grado di mantenere questo ritmo di rifornimento.

una colonna ruotata russa in Ucraina (foto WEB)

Di certo gli Stati Uniti potrebbero. Dispongono infatti di scorte strategiche stimate tra i 2,5 e i 4 milioni di colpi, ma come dice la parola stessa, sono scorte strategiche e quindi che Washington se ne voglia privare appare davvero difficile. In America ne vengono prodotte si e no 100.000 al mese con la possibilità in futuro di portare la produzione sui 150.000 colpi, ma ci vogliono tempo e anche molti soldi. Sulle capacità produttive europee per ora è meglio non contarci troppo. Quindi mentre per Mosca il problema è far arrivare le munizioni sotto gli obici schierati tra la Crimea e il Donbas, per Kiev si pone il dilemma di sparare meno o di concentrare il consumo su obiettivi ritenuti particolarmente importanti. Per entrambi l’inverno sarà un utile momento per limitare i consumi e prendere un po’ di tempo, ma a primavera c’è da immaginare che la faccenda si riproporrà drammaticamente. Per ora di drammatico c’è – almeno in campo russo – la disponibilità di materiali di equipaggiamento individuali. Molti reparti al fronte lamentano di non aver ricevuto giacche a vento e indumenti in grado di resistere al freddo e all’usura dell’impiego in campagna. Non sono pochi i video in cui soldati di Mosca si lamentano di essere stati costretti a comprare di tasca propria qualcosa per non morire di freddo e questo non solleva certo il morale delle truppe. Come pure per Surovikin, comandante delle truppe russe in Ucraina, la mancanza di pezzi di ricambio, ma soprattutto di personale tecnico in grado di eseguire riparazioni e manutenzioni inizia a diventare un problema serio. Insomma se davvero, come voleva Napoleone, la guerra deve nutrire la guerra sembra che per entrambi si profilino tempi di dieta.