KHERSON – io vorrei, non vorrei, ma se vuoi…

Cosa sta succedendo in città tra annunci di ritiro, timori per una trappola e speranze per una trattativa.

Sergej Šojgu, ministro della difesa della federazione russa, con l’empatia comunicativa di un citofono, alla fine l’ha annunciato. I russi se ne vanno da Kherson l’ultima e anche unica grande città in mano all’esercito di Putin. Gli ha fatto sponda un’altra faccia patibolare, quella del generale Surovikin, il quale ha aggiunto che il riposizionamento (mai chiamarlo ritirata) si è reso necessario per salvaguardare la vita dei soldati e meraviglia non poco sentire queste parole pronunciate da chi in Siria si era guadagnato il soprannome di “Armagheddon”, prendiamolo comunque per buono. Chi invece a questo ritiro non sembra crederci fino in fondo è Kiev. Nella sua ultima apparizione televisiva il presidente Zelensky ha annunciato la liberazione di una trentina tra villaggi e fattorie attorno a Kherson, ma non ha fatto alcun cenno a quest’ultimo; anzi tutt’altro. Da più parti si sospetta che l’annunciato ritiro sia in realtà una trappola, un’esca per far abboccare i reparti di Kiev e costringerli a un massacrante e prolungato combattimento nei centri abitati, incubo di qualsiasi esercito. Qualche esempio? Che ne dite di Stalingrado, Aleppo, Beirut, Sarajevo?

I timori di Zelensky e del suo Stato Maggiore non si limitano a questo scenario, ma si estendono a considerare possibile e forse anche probabile che i russi facciano saltare in aria la grande diga di Nova Kakovka, quella che, sbarrando il corso al Dnepr, ha formato un enorme invaso lungo quasi 200 chilometri che dalla diga arriva a nord fino a Zaporizhzha. Liberare una tale massa d’acqua significherebbe cancellare Kherson e modificare l’intera orografia della zona. Qualche precedente, come le dighe sul Inhulet c’è stato. Ma per tornare ai dubbi sul ritiro vanno citati anche quelli della stessa NATO espressi per bocca del suo Segretario Generale, il norvegese Jens Stoltenberg, il quale solo ieri si è limitato a commentare che se il ritiro da Kherson fosse confermato si tratterebbe di una grave smacco per l’esercito di Mosca, ma pur sempre di un se si tratta.

E’ quindi lecito chiedersi se nel mondo dei satelliti spia e della possibilità di osservare il campo di battaglia fin nei suoi più minuti particolari è possibile davvero avere di questi dubbi. A premessa è bene dire che si, è possibile. Non certo riguardo all’osservazione diretta di ciò che avviene o non avviene sul terreno; in questo campo i margini di incertezza sono davvero pochi. Quel che è più difficile capire è dove vuole andare a parare Mosca annunciando urbi et orbi quella che da tutti viene interpretata come una grave sconfitta.

 Partiamo come al solito dai fatti. Kherson è stata la prima città ucraina occupata all’inizio della “operazione militare speciale”. Ci avevano pensato le unità russe provenienti dalla vicina Crimea, occupandola senza sparare un colpo. Si tratta di una città di oltre trecentomila abitanti, che si affaccia su uno dei tratti più ampi del Dnepr e che è attraversata da una serie di altri fiumi e canali che ne fanno una sorta di Amsterdam del Mar Nero. Le ragioni che avevano spinto Mosca a prendere immediatamente la città erano sostanzialmente due. La prima è che da lì, ma soprattutto dalla cittadina di Nova Kakhovka, si controlla il tratto iniziale del Grande Canale Nord Crimea, l’arteria di acqua dolce che permette a metà della Crimea di sopravvivere. La seconda risiedeva nell’idea di utilizzare Kherson, la cosiddetta “terrazza su Odessa” come base per una futura offensiva contro il porto sul Mar Nero, distante poco più di un centinaio di chilometri. Nei mesi la situazione è andata però cambiando, a danno dei piani di Mosca e soprattutto dei suoi soldati.

Dall’inizio dell’estate Kherson e i suoi dintorni sono infatti sotto costante pressione dell’esercito di Kiev. Ci sono state alcune puntate offensive, altri attacchi diretti contro questo o quel villaggio, l’aeroporto internazionale è inutilizzabile senza però realizzare un vero e proprio sfondamento. Tuttavia quello che agli ucraini è riuscito perfettamente è il blocco della città e di gran parte dei dintorni che l’ha tagliata fuori dal resto della zona in mano ai Russi. In questo si sono dimostrati decisivi gli HIMARS, le bombe a guida GPS fornite in grande numero degli USA. Si deve in gran parte a questo munizionamento di estrema precisione e potenza la distruzione o il danneggiamento di tutti i ponti che congiungono la sponda est con quella ovest della città. Il principale di questi è il grande ponte Antonevsky oggi ridotto a poco più di una passerella pedonale, ma sorte peggiore è toccata al ponte ferroviario di Pridnyprovske, a quello di Thyahinka e a tutti gli altri passaggi che permettevano la circolazione sull’intricata rete di fiumi e canali che disegna la città.Come risultato oltre 200.000 abitanti e 20.000 soldati russi sono stati tagliati fuori dalla possibilità di essere riforniti con continuità di qualsiasi genere di bene: dalla farina alle granate di artiglieria.

Per tutta l’estate l’armata russa si è ostinata a realizzare precari ponti di barche, pontoni galleggianti, barchette e anche un servizio di chiatte fluviali per assicurarsi un minimo di flusso logistico. Inutile dire che ognuno di questi si è rivelato un perfetto bersaglio per gli HIMARS e per l’artiglieria ucraina. Chiusi a est dal fiume Dnepr e circondati a ovest dall’esercito ucraino, le unità del 2° corpo d’armata come pure quelle della 76^ divisione di fanteria e della 106^ divisione di assalto aereo si sono travate e si trovano tutt’ora in una posizione pericolosa. L’abbandono della città si è dunque via, via presentato come l’unico ordine ragionevole dal punto di vista militare, ma non da quello politico.

Dopo la mancata presa di Kiev, la perdita di Kharkiv, l’affondamento dell’incrociatore “Moska”, l’attentato al ponte di Kerch e con l’offensiva in Donbas che arranca, Putin non aveva certo bisogno di un nuovo smacco militare. Si è continuato quindi a rimanere in città, ma durante l’estate qualcosa sembra essere cambiato nel pensiero dei vertici del Cremlino inducendo ad un approccio più realistico. Ci si è infine accorti che tenere Kherson è divenuto troppo costoso in termini di sforzo logistico e ostinarsi potrebbe portare davvero alla fuga precipitosa degli otre 20.000 difensori. Meglio quindi una ripiegamento ordinato che consenta di salvare uomini, mezzi, armi, ma soprattutto la faccia. Per questo motivo, già da un mese, la televisione russa ha iniziato a preparare l’opinione pubblica alla possibilità di “dolorose concessioni” necessarie a salvaguardare vite umane e porre le premesse per una futura vittoria. C’era da aspettarselo visto che l’ordine di mobilitazione parziale emanato dal presidente Putin non è certo stato accolto da grida di giubilo guerresco. Si è iniziato quindi con l’evacuare i civili, quasi 100.000 fino ad oggi, ricorrendo a traballanti pontoni e a traghetti. L’evacuazione della popolazione civile ha impedito all’artiglieria ucraina di battere e distruggere i ponti residui e gli attraversamenti e si può essere certi che i russi ne hanno approfittato saranno per rifornire le truppe in città e iniziare a evacuare qualche equipaggiamento di pregio. Ad oggi si stima che in città siano rimasti tra i 70 e i 90.000 abitati, oltre a gran parte del presidio russo. Kherson è ormai una città fantasma dal destino incerto e intanto i russi hanno iniziato il saccheggio delle abitazioni e degli uffici. Si prende di tutto, dalle auto alle lavatrici segno che nessuno si aspetta di tornare presto in città.

Vale la pena un cenno su come possano andarsene. Nei mesi scorsi l’armata russa ha messo in piedi un elaborato sistema di traghetti per attraversare il Dnepr. Un’organizzazione che prevede punti di raccolta temporanei, approdi mutevoli e tempi rapidissimi per l’attraversamento di piccole quantità di personale ed equipaggiamenti. Ad oggi sembrerebbero attivi dai cinque agli otto punti di attraversamento con traghetti, il tutto sempre sotto l’incombente minaccia dell’artiglieria ucraina che di certo non vuole consentire ai russi di mettere in salvo il meglio dei loro armamenti. Sebbene dunque il ritiro sia in atto già da giorni, rimane da chiedersi cosa faranno sarà i soldati lasciati in città. Anche in questo caso sembrerebbe che il comando russo abbia deciso di non attivare una difesa a oltranza, stile Stalingrado per intenderci, preferendo lasciare un velo di truppe che con azioni di fuoco, piccoli contrattacchi e temporanee difese di qualche punto nevralgico guadagnerà tempo consentendo così al grosso di ripiegare sulla sponda est. Insomma Mosca vorrebbe scambiare Spazio per Tempo.

La domanda da porsi è però cosa faranno i russi una volta giunti in massa dall’altra parte del fiume? Shoigu ha parlato di difesa della riva orientale, non di ripiegamento chissà dove. Da alcune settimane, lungo la riva orientale del Dnepr, si scava. Per un tratto lungo almeno 200 km si intende costruire una linea difensiva trincerata, sullo stile della prima guerra mondiale, con tanto di casamatte prefabbricate, depositi interrati e filo spinato. Per ora sono stati realizzati meno di una cinquantina di chilometri, ma a opera finita, almeno nell’idea di Mosca, si avrà un complesso su tre linee difensive quasi parallele che dal Mar Nero arriveranno quasi a Zaporizhzha, rendendo molto difficile la ripresa di un’offensiva ucraina da quelle parti e consentendo nel contempo a Mosca di risparmiare forze da utilizzare più a nord, in un settore di fronte molto più ristretto, magari tra Zaporizhzha e Izium o qualche altra città del Donbas.

Questo dunque il piano: abbandonare la parte ovest di Kherson e tenersi quella est, accettando però di trasformarsi in una specie di poligono per l’artiglieria ucraina. Eppure gli ucraini sembrano non fidarsi, al punto che non sembrano approfittare di questo momento di grave crisi degli occupanti russi per sferrare un colpo decisivo. La ritirata o ripiegamento come lo si voglia chiamare è infatti una delle operazioni più difficili, complesse e pericolose che un’unità militare sia costretta ad affrontare. |Si è infatti costretti a difendersi e a combattere senza quasi disporre di un minimo di supporto logistico e nello stesso tempo arretrare in tempi dettati non dalle proprie esigenze ma dalla pressione che il nemico mette addosso. Un’occasione d’oro per Kiev che però sembra procedere con cautela. Viene da chiedersi perché. Al riguardo possiamo fare solo ipotesi. La prima riguarda la possibilità tutt’altro da escludere che Kiev e Mosca abbiano raggiunto un accordo per l’abbandono della città in modo incruento a patto che l’Ucraina consenta l’evacuazione del presidio e la disponibilità futura dell’acqua del Canale Nord Crimea e Mosca da parte sua s’impegni a non difendere a oltranza la città e, soprattutto a non far saltare le dighe. Dietro l’inattività di Kiev potrebbe però anche esserci un caldo invito da parte di Washington a rallentare il ritmo delle operazioni in previsione di un futuro negoziato, visto che in America i giorni in cui Biden era accusato di fare troppo poco per l’Ucraina sembrano ormai lontani, sostituiti dall’accusa di oggi di fare un po’ troppo. Si potrebbe parlare di negoziato, magari già quest’inverno? Forse, ma allora perché mai Mosca ha voluto già lasciare Kherson precludendosi di giocarsi questa carta sul tavolo dei negoziati futuri. Le domande sono molte ma il fatti è che lentamente i russi se ne stanno andando e gli ucraini non ne stanno per ora approfittando. Vedremo nei giorni a venire.

Chi di rave colpisce…

Sul decreto legge anti-rave passata è la tempesta, anche se non si ode alcun uccello far festa. Allora forse è il momento giusto per parlarne un po’. Per prima cosa c’è da dire che il decreto legge – sebbene scritto in un momento di post coma etilico da un maori neozelandese appena sbarcato a Livorno – non vieta in alcun modo di organizzare un rave. Se si decide di rincoglionirsi per tre o quattro giorni senza mangiare, dormire, lavarsi, saltellando allegramente al ritmo della pressa-maglio dell’Ansaldo officine; ebbene, si può fare. Basta organizzarsi.

Non parlo del giro segreto e carbonaro via WEB per informare 5.000 cristiani di trovarsi sull’aia del signor Filippo il tal giorno alla tal ora. No, intendo qualcosa di un tantino più complicato, ma che il signor Filippo di certo apprezzerà. Intanto inizi aprendo una bella partita IVA, poi affitti o compri un luogo, anche quello del signor Filippo se te lo dà, oppure se è già tuo lo metti a disposizione per il rave che vuoi organizzare. Nel frattempo vedi in che comune abita il signor Filippo. Perché? Ma perché devi individuare lo Sportello Unico Attività Produttive (SUAP) di quel comune al quale mandare tutta la documentazione.

Se al rave inviti solo 200 persone (incluso te e il signor Filippo) e ti impegni a spegnere tutto entro mezzanotte sarà sufficiente mandargli una Segnalazione Certificata di Inizio Attività (SCIA). Dentro ci dovrà essere la relazione tecnica di un professionista, che attesti le condizioni di sicurezza della manifestazione e che il montaggio di tutti gli apparati verrà eseguito a regola d’arte. Se hai un parente ingegnere o geometra o tecnico non ti costa nulla se no qualcosa devi pur tirar fuori. Se invece il rave, come sospetto, proseguirà oltre mezzanotte e avrai invitato più di 200 persone le cose cambiano un po’. In questo caso sarà necessario ottenere dal Comune un’autorizzazione per manifestazione di pubblico spettacolo, a norma dell’articolo 68, TULPS, e, da un punto di vista tecnico, sarà necessario, ai fini del rilascio dell’autorizzazione, richiedere la convocazione della Commissione di Vigilanza Comunale per i Pubblici Spettacoli e ottenere il suo parere favorevole, a norma dell’articolo 80, TULPS, e dell’articolo 141, regolamento TULPS…insomma un rompimento di scatole, ma tant’è.

Tutto qui? No. Dal 2017 il Prefetto Gabrielli ha emanato una  circolare in materia di Safety e Security piuttosto strettina. Quell’estate a Torino, in piazza San Carlo erano infatti morte un po’ di persone che si erano trovate là per festeggiare la vittoria della Juve. La cosa non era piaciuta molto e quindi da allora si è stabilito che è necessario presentare al SUAP del Comune anche il piano di emergenza della manifestazione nel quale dovranno essere indicati, in particolare, la tipologia dell’evento; le caratteristiche della location; la capienza massima del luogo ove si terrà la manifestazione e il numero di partecipanti previsto; l’individuazione delle vie di fuga, che dovranno essere chiaramente segnalate con appositi cartelli; le dotazioni di personale e di attrezzature e mezzi per il rischio incendio e per l’assistenza sanitaria; le modalità di sbarramento degli accessi e delle uscite, etc, etc.

foto LA STAMPA

Insomma… se non sei capace di farlo tu è bene che ti rivolga a una ditta specializzata in queste cose. Magari dopo che ti sei noleggiato il truck con le mega-case ti avanza qualche soldo per pagarne una a buon prezzo. Finito? Forse sì.

Se il rave lo fai dal signor Filippo, allora ti metti d’accordo con lui per il prezzo dell’affitto, se invece te ne vuoi andare da un’altra parte devi considerare che forse il posto che hai scelto è suolo pubblico. Allora? Niente paura. Basta pagare il relativo canone di occupazione di suolo pubblico, a meno che il Comune non rilasci il patrocinio all’evento, nel qual caso sei esentato dal pagamento, ma un rave organizzato con il patrocinio del Comune di Rocca Secca non ha un grande appeal, lo capisco.

foto WEB

Nei giorni del rave ci sarà un po’ di casino e un sacco di gente per cui il solerte sindaco di Rocca Secca sarà costretto a comandare i suoi 2 vigili urbani 2 a dare una mano perché tutto vada liscio. Chi paga? L’articolo 22, comma 3-bis, decreto legge n. 50/2017 dice che paghi tu e se al comune i suoi 2 vigili non bastano ed è costretto a chiamare i rinforzi, paghi sempre tu.

Tranquillo, quasi finito.

Ci sono due o tre tra leggine e Decreti del Presidente della Repubblica che faresti bebe a conoscere: sono quelli che riguardano la normativa sull’impatto acustico e sono più che certo che le dovresti leggere con attenzione.

Di sicuro mi sarò anche dimenticato qualcosa, ma ritengo che a questo punto siano chiare un paio di cose. La prima è che se sei disposto a passare tutta questa trafila devi avere una passione per la musica che Mozart al tuo confronto era svogliato. La seconda è che forse avrai notato che l’ideona del rave ha un sacco di conseguenze, alcune anche potenzialmente pericolose per te, per gli amici e anche per il signor Filippo. Ritorno quindi al decreto legge- quello scritto da un Sumero – per evidenziare che in fondo ti dice solo che non puoi farti gli affari tuoi a casa d’altri, con i loro beni e a loro spese.  

SANREMO-Quartiere “LA PIGNA”

Vicoli minuti dove l’odore del piscio e dell’aglio sono spariti da anni, disinfettati dalla modernità delle villette a schiera e dei televisori al plasma. Questo quartiere, la Pigna, è fuori dal tempo. Un guscio svuotato dalla lumaca umana che un giorno l’abitò.

Si erano arrampicati su quella collinetta verso l’anno Mille, per paura dei pirati e della fame, man mano rinchiudendosi in un bozzolo di vicoli angusti e pareti altissime. Da lassù scendevano al mare giusto il tempo di guadagnarsi il pane. Quando però i pirati sono scomparsi e la fame s’è placata, anche la paura se n’è andata e chi abitava da quelle parti s’è sentito povero e stretto. Meglio andarsene. Da morta, come tanti borghi d’Italia, anche La Pigna era pronta a trasformarsi in quello che le guide turistiche amano definire: ” un suggestivo e pittoresco quartiere medioevale“.

Mi arrampico per le sue viuzze e non incontro nessuno; neppure un gatto grasso, un lenzuolo arricciato o una bici alla catena. Dietro un muro di questo luogo senza angoli d’improvviso due ragazze maghrebine ridono e chicchierano sedute su un gradino. Sono estranee al mio paese che mai le ha accolte, ma si vede che si sentono a casa in questa kasba abbandonata di vicoli scoscesi.

Sono luoghi così che ti fanno capire l’estraneità; tanto intricata, opprimente e apparentemente incoerente è la loro planimetria che per trovarci un senso devi esserci nato, altrimenti ne sei inevitabilmente espulso. Qui le case, i fondi e gli archi non seguono mai le regole del catasto, ma quelle dei matrimoni, delle disgrazie e delle fortune delle famiglie. Quella finestra è stata murata dopo che la vedova si era risposata e quell’altro portone, con le due finestre superiori era stato aperto con i soldi fatti in America. Ci si allargava seguendo la logica dell’odio e dell’amore. Spariti entrambi tutto è davvero pietrificato e ora che la sua tribù è evaporata non c’è più nulla che me ne rende la cristallina coerenza.

Non si capisce neppure che ore siano visto che nessuna finestra arriva l’odore della cipolla soffritta, né quello delle sarde in tegame. Figurarsi il gridare dei bambini. Alla Pigna sembrano esserci ormai solo gli extracomunitari. Strana parola per gente che arrivata dai quattro angoli del Mediterraneo qui ha fatto comunità, come se comprendesse l’alfabeto e la lingua di queste pietre addormentate. Qui vive gente sospettosa della città giù da basso, quella con le strade larghe, gli alberi e le luci la sera. Si rifugiano quassù gli ultimi arrivati, senza soldi e senza storia. Sanno ancora che chi viene dal basso è sempre nemico, un tempo saraceno oggi carabiniere.

Sui muri s’incontrano pesci colorati, quasi tutti verticali. Non sono insegne, non sono graffiti post-moderni. Solo magri pesci dagli occhi grandi e dalle lische prominenti. Su una pietra liscia d’arenaria qualcuno ha lasciato il suo dubbio musicale. Poco più in alto un enorme albero di ficus copre d’ombra una minuscola piazzetta. Vuota e silenziosa.

Proseguo. Salgo, scendo, giro e svolto. L’orizzonte non arriva mai oltre tre o quattro metri da me e solo rovesciando all’indietro la testa ti accorgi del cielo. Le piazzette ti appaiono con la velocità di una diapositiva; in questa c’è una biblioteca, una casa editrice, una brutta fontana e un’edicola sacra di una fede ancora viva, almeno a giudicare dai fiori freschi e rossi.

Scendo fino ad arrivare al più grande dei pesci occhiuti, scoprendone finalmente la tana. Insieme a loro ci vive Andrea, il pittore palermitano che li ha evocati facendoli spiaggiare fin quassù come dopo una mareggiata. Lui e altri come lui si sono ricavati un nido tra queste pieghe; liberi dai regolamenti condominiali e dalla Pay-TV. Parliamo un po’ e dopo avermi studiato il giusto, afferra un mazzo di chiavi e mi dice “VIENI”. E io vado. Passiamo sotto un arco basso e bianco del XIII secolo, saliamo delle scalette traballanti e infine Andrea apre una porta che non avevo neppure visto. Dentro ci sono due o tre muratori che riparano non so che. Si sale per una scala immacolata di graniglia rossa. Sono abituato alle scale ripide ma queste sono infinite. Arriviamo infine sulla faccia de La Pigna che in pochi vedono: le terrazze. Quassù c’è solo cielo e sole, il mare è così vicino e blu che lo puoi quasi toccare.

Capisco perché i suoi pesci sono saltati fin quassù.