MalanDroni – la guerra a distanza può cambiare le carte in tavola?

L’offensiva ucraina dell’estate si sta esaurendo dopo aver conseguito una serie di clamorosi successi, per molti versi inattesi. La regione di Kharkiv è ormai rientrata sotto il controllo di Kiev; nel settore centrale i russi non hanno completato l’annunciata conquista del Donbas e per ora si accontentano di difendere i dintorni di Severodonetsk e di scavare trincee per qualche decina di chilometri. A sud le cose vanno anche peggio. Kherson, il cosiddetto balcone su Odessa è completamente accerchiata. Ogni tentativo di rifornirla è legato alla possibilità di tenere in piedi qualche traballante ponte di barche, almeno finché una salva di missili HIMARS non lo manderà a fondo. Oltre 70.000 civili hanno abbandonato la città e in molti pronosticano che a breve saranno seguiti dalla guarnigione russa. A cornice del quadro generale è bene ricordare che la centrale nucleare di Energodar è ancora in mano russa, più ostaggio che obiettivo militare e che percorrere il ponte di Kerch, il più lungo d’Europa, fa salire qualche brivido lungo la schiena dopo che meno di un mese fa un camion-bomba l’ha fatto saltare in aria. Stessa cosa per le retrovie dell’operazione militare speciale al di là del confine russo-ucraino.

un drone di fabbricazione iraniana Shaded-136 in procinto di abbattersi su un obiettivo – foto WEB)

L’esercito di Mosca è dunque in grande difficoltà mentre quello ucraino sogna di liberare tutti i territori occupati, Crimea compresa, ma sia l’uno, sia l’altro sanno bene di non essere pienamente padroni del proprio destino. Il Suchoputnye Vojska, così si chiama l’esercito russo, si è scoperto in piena crisi di equipaggiamenti, di armi ma soprattutto di uomini e di leadership. Quello di Kiev dipende per intero dal flusso di denaro e di rifornimenti per ora garantito dall’Occidente. Sarebbe abbastanza per iniziare a pensare a una possibile tregua se non proprio alla pace, ma per Mosca questa è la guerra che dovrebbe alla fine metterla al sicuro dalla minaccia della NATO, mentre per Kiev è l’occasione di porre fine a quattro secoli di sudditanza. Per quanto difficile da comprendere entrambi combattono dunque per la vita. Quindi? Quindi si va avanti e se non si può per terra si tenta in cielo.

drone iraniano Mohajer-6 (foto WEB)

Sul piatto cielo d’Ucraina, dove le città sembrano galleggiare sull’immensa pianura, la Russia sta percorrendo una nuova linea operativa e lo sta facendo in gran parte con mezzi inattesi. Iniziamo dal disegno operativo sviluppato dal comando dell’operazione militare speciale. Preso atto che per tutto l’autunno e per gran parte dell’inverno non sarà possibile riprendere l’iniziativa di nuove offensive terrestri, l’unico modo per mantenere la pressione sul governo di Kiev è degradarne la rete infrastrutturale, energetica e dei rifornimenti essenziali. Via quindi al bombardamento continuo delle centrali elettriche, dei nodi di smistamento ferroviario, delle infrastrutture logistiche, dei metanodotti e degli acquedotti. L’obiettivo è chiaro: far passare un inverno al buio, al freddo e possibilmente anche con poca acqua a tutta l’Ucraina nella speranza che questo ammorbidisca il governo di Kiev inducendolo alla trattativa. Ci riusciranno? E’ tutto da vedere anche perché, come si è accennato, per Kiev questa è un’occasione quasi unica per affrancarsi definitivamente dal secolare abbraccio di Mosca e non tanto Zelensky quanto la sua gente sembra più che decisa a sopportare gravi disagi pur di chiudere la partita.

drone turco Bayraktar in dotazione all’esercito ucraino (foto WEB)

Mosca invece sembra scommettere sul contrario e per condurre il gioco ha deciso di affidarsi a una tecnologia nuova che poi tanto nuova non è: quella dei DRONI. Per primo ricordiamo che ciò che rende diverso un drone da un missile, da un razzo o da un siluro è la possibilità di essere pilotato da remoto in tempo reale lungo tutta la rotta fino al punto di utilizzo. Già perché i droni, altrimenti detti aeromobili o natanti a controllo remoto, non sono fatti solo per autodistruggersi su un obiettivo, ma possono svolgere missioni assai diverse che vanno dalla ricognizione lontana, al bombardamento di obiettivi, alla sorveglianza di aree vaste, al coordinamento di azioni a terra come alla ricerca e soccorso.

drone statunitense Predator MQ-1C dell’aeronautica militare italiana (foto WEB)

L’idea di un oggetto senza pilota in grado di colpire il nemico non è nuova. Sembra infatti che siano stati gli austro-ungarici nel 1849, nella nostra prima guerra di indipendenza, a caricare di esplosivo qualche pallone aerostatico e a spingerlo quindi su Venezia, ma è dagli anni 2000 che la tecnologia dei droni è ampiamente utilizzata in operazioni militari cinetiche. Allora dov’è la novità? Questa in gran parte è rappresentata dall’arrivo nell’arsenale russo di droni di produzione iraniana. Il presidente Zelensky ha parlato di una “collaborazione con il male”, mentre Washington ha evidenziato che il trasferimento di questo tipo di armi viola il divieto di export su alcuni prodotti militari imposto a Teheran dal Consiglio di Sicurezza dell’Onu su Teheran. La realtà è che questi droni costano poco e funzionano.

un drone navale ucraino spiaggiato sulla costa turca (foto WEB)

Con il miglioramento delle capacità contraeree e grazie alla capillare copertura satellitare e radar dello spazio aereo ucraino per un aereo russo volare oggi sul cielo ucraino è sempre più pericoloso. Per gli elicotteri nemmeno a parlarne. Rimangono i missili balistici e quelli da crociera, ma hanno un difetto che in tempi di sanzioni e di embargo si amplifica giorno per giorno: sono costosi e difficili da costruire ora che reperire le componenti elettroniche necessarie a realizzare i loro complessi sistemi sono quasi introvabili, anche sul mercato clandestino. Fa riflettere infatti che oltre il 60% della componentistica elettronica di un missile russo sia di produzione americana, coreana o giapponese; comunque non russa. Ecco allora come un trabiccolo volante dal costo unitario di poco più di 5.000 dollari rappresenta una soluzione efficace e alla portata di tutti. Mi riferisco essenzialmente al drone iraniano del tipo Shaded-136, che i russi sembrano aver ridipinto e rinominato Geran-2.

Si tratta di velivolo capace di percorrere una rotta di circa 1800 km a una velocità di poco superiore a 180 km/h, volando a una quarantina di metri d’altezza. Certo non è un miracolo di ingegneria aeronautica. Il suo sistema di guida si basa sul GLONAS, la versione russa del nostro GPS e la propulsione è assicurata da un quattro cilindri aeronautico a due tempi da 50 cavalli, più o meno la potenza della vecchia Panda. E’ in grado di trasportare una carica di esplosivo di circa 35 kg, pari a tre granate convenzionali da 155 mm, ma soprattutto costa poco.

Certo non è in grado di colpire obiettivi puntiformi e fugaci come un carro armato o un obice d’artiglieria in movimento, ma per un deposito carburanti, una centrale elettrica, una cabina di smistamento ferroviario va benissimo. In presenza di una buona difesa controaerea le possibilità che un simile aggeggio arrivi a destinazione sono però basse. Si stima infatti che la difesa aerea ucraina sia in grado di abbatterne in volo tra il 60 e l’80%, ma a quale prezzo? Fino ad ora, Kyiv ha potuto proteggersi dalle centinaia di attacchi solamente facendo ricorso a missili terra-aria ex-sovietici S-300 o ai tedeschi Iris-T nonché a sortite della propria aeronautica. Ma queste armi rappresentanto un enorme spreco di risorse di fronte a un sistema d’arma pericoloso ma perfettamente sacrificabile.

veduta aerea della base navale russa a Sebastopoli (foto WEB)

Dall’inizio dell’offensiva aerea russa Zelensky non fa che richiedere armamento contraereo, ma è davvero possibile pensare di proteggere con un simile ombrello tutto il territorio ucraino? E a quale prezzo? D’altra parte non si può neppure far finta di niente e continuare a riparare, rabberciare e sostituire con cadenza giornaliera tutto ciò che viene distrutto.

Dal canto loro i russi, ben consapevoli di maneggiare una tecnologia rudimentale, hanno scelto di impiegare a sciame i loro droni, ad esempio lanciandone una quarantina nella certezza che almeno una decina arriveranno a bersaglio. E il giorno dopo si ricomincia. Oltre al basso costo vediamo di mettere a fuoco quali altri vantaggi possono derivare. In primo luogo si risparmiano non tanto costosissimi aerei ma soprattutto i loro piloti. L’addestramento di un buon pilota da caccia-bombardiere costa infatti qualche milione di dollari ai quali vanno aggiunti quelli per il velivolo che gli viene affidato. Vuoi mettere con una bomba volante pilotabile a distanza che costa meno d’un’utilitaria di seconda mano? Inoltre si deve valutare la costante pressione psicologica e l’insicurezza diffusa alle quali viene sottoposta la popolazione. Si tratta quindi dell’arma perfetta? Non esageriamo. La potenza distruttiva di questi velivoli non è in grado di neutralizzare permanentemente un’infrastruttura, ma riesce comunque a danneggiarla facendola funzionare male e a tratti. Tutto questo almeno fintanto che anche gli ucraini non inizieranno a loro volta a rispondere pan per focaccia. E sembra che già abbiano iniziato. E’ dell’altro ieri infatti la notizia che sei o sette barchini pilotati da remoto, coadiuvati da qualche drone volante, sono riusciti a penetrare all’interno del porto di Sebastopoli, la sede della flotta russa del Mar Nero. Si tratta di una grande base navale costruita su una serie di fiordi e canali stretti e lunghi il cui accesso è angusto e vigilato da reti sommerse anti-intrusione. Eppure i droni-barchini, navigando a pelo d’acqua per qualche centinaia di chilometri, sono riusciti a entrare e a colpire quattro navi all’ormeggio, causando l’affondamento di una di esse mentre i droni volanti colpivano qualche infrastruttura logistica e un cantiere di riparazione. C’è mancato poco che non venissero presi anche due vecchi sottomarini della classe “KILO” (a proulsione diesel/elettrica e non nucleare), ma all’ultimo momento non erano più al molo.

sottomarino russo classe Kilo a propulsione convenzionale (foto WEB)

Poca cosa verrebbe da dire, se non fosse che anche in questo caso si è raggiunto il non trascurabile obiettivo di far sentire insicuri i marinai russi persino a casa loro, obbligando il comando navale a innalzare le misure di sorveglianza e scoperta. In ultima istanza a spendere di più per cercare di stare tranquilli.

Ci stiamo dunque incamminando verso una guerra di droni? In parte sì, anche se lo scenario alla terminator appare abbastanza di là da venire. Più vicino invece può essere il pericolo che queste tecnologie a basso costo, facilmente riproducibili e difficilmente intercettabili entrino a far parte massicciamente dell’arsenale della malavita organizzata o di gruppi terroristici particolarmente intraprendenti. Non ci vuole infatti una gran fantasia a immaginare un barchino pieno di cocaina che navigando a 50 cm dal pelo dell’acqua arriva su qualche costa dell’Europa o del Nord America e neppure un drone costruito in garage che svolazza sul cielo di una città cercando un obiettivo su cui schiantarsi. Di questa preoccupazione si fanno interpreti, ad esempio, gli israeliani che dei razzi sparati da Hamas hanno una pluriennale esperienza. Passare da un tubo di stufa riempito d’esplosivo a un drone con 40 chili di TNT sarebbe per loro un drammatico salto di qualità. Forse per questo Israele si è affrettato a fornire a Kiev alcuni di sistemi di sorveglianza e scoperta in grado di contrastare anche questo tipo di minacce.

In attesa dell’arrivo dell’inverno e della risposta ucraina, Mosca continua a lanciare i sui Geran-2, insieme a qualche grosso missile Kalibr avvertendoci che la guerra sarà ancora lunga.

“La morte che consuma” – racconto dell’alba atomica.

Le parole che seguono non sono mie. Mi verrebbe da aggiungere “magari”, ma sono di un grande giornalista italiano,Vittorio Zucconi.

Parlano dell’alba dell’era nucleare, di quando il mondo pensava di aver per le mani l’arma che avrebbe finalmente posto fine a tutte le guerre. Forse l’avranno pensato anche gli Achei dell’Età del Bronzo o gli Archibugieri spagnoli nel ‘600. La bomba atomica non pose fine a nessuna guerra, ma diede il nome a un’intera era, quella in cui ancora viviamo.

Quello che raramente si trova scritto sono però i nomi e la vita di chi quell’era l’ha vista annunciarsi. Di questo parla l’articolo di Vittorio Zucconi. Un consiglio? Leggetelo.

Vittorio Zucconi – 1944 – 2019 foto WEB

Era il 1951 e tutti nel mondo dormivamo il sonno della ragione, rimboccati sotto la coperta nucleare della Guerra Fredda. Dormiva anche Martha Laird, in una notte di quel 1951. Una giovane mamma di 26 anni addormentata accanto al marito, ai due figli piccoli, alle sue pecore e ai suoi cavalli nelle colline del Nevada a ovest di Las Vegas, in un villaggio minuscolo chiamato Twin Springs, sorgenti gemelle.

Ci svegliò un lampo di luce che ci scaldò il viso come se il sole fosse esploso davanti alla finestra” racconta adesso. “Dopo qualche secondo sentimmo arrivare da lontano il ruggito, come di un terremoto. La casa cominciò a tremare, le finestre si sbriciolarono, la porta volò via come un vecchio giornale. I bambini piangevano. Mio marito e io ci stringemmo uno all’ altra, fino a quando il rombo si calmò e il sole di notte si spense. Non capimmo niente”.

Cominceranno a capire più tardi, quando il bambino più grande si ammalò di leucemia, il più piccolo di cancro alle ossa, il marito al pancreas e il neonato che Martha portava in sè nacque prematuro, di sei mesi, “con due strane appendici nere e contorte che gli penzolavano sotto la pancia, al posto delle gambe”. Visse cinque ore prima di morire anche lui, come i fratelli, come il padre, come i puledri deformi usciti dal ventre delle giumente che galoppavano via con gli occhi da matte, come se avessero paura di quel che avevano partorito. “Allora non sapevamo di essere i ‘ downwinders’ , il popolo-cavia che viveva ‘ sottovento’ rispetto agli esperimenti nucleari nel poligono atomico del Nevada” dice Martha. Ora, 40 anni dopo, lo sanno. Lo sa anche il governo americano che ha versato pochi giorni or sono a questa donna, e a migliaia di ‘ sottovento’ come lei, 50 mila dollari, 70 milioni a testa, per “risarcimento danni da radiazioni” secondo una legge finanziata con un fondo speciale voluto da Clinton di oltre 200 miliardi di lire annui. Soltanto oggi, dopo anni di querele, cause, processi, inchieste e soprattutto morti orribili su morti orribili, la verità sulla guerra segreta condotta contro il popolo dei “Sottovento” comincia a venire a galla, sciolta dall’ omertà della Guerra Fredda.

Le 104 bombe all’ idrogeno fatte esplodere all’ aria aperta nel deserto del Nevada fra il 1951 e il 1963, quando Kennedy firmò la messa al bando degli esperimenti atmosferici, e poi le oltre 800 detonate nelle caverne sotterranee fino a ieri hanno fatto più vittime di Chernobyl, qui nell’enorme regione fra l’ Arizona, lo Utah e il Nevada coperta dalla nuvola del ‘ fallout’ nucleare. Il loro numero esatto è ancora un segreto di Stato. Forse 50 mila, come in Vietnam. Eppure Clinton sta meditando di autorizzare altri quattro test nucleari, entro il 1996. Come tutto quel riguarda l’ atomo, anche di questo orrore non v’ è segno visibile altro che nelle conseguenze.

Bisogna cercare gli effetti nella famiglia Laird, distrutta dalla ricaduta della bomba ‘ Harry’ (ogni esperimento aveva un suo nome, Harry, Bob, Frank, John, per umanizzarlo. Anche quella che distrusse Hiroshima era detta simpaticamente ‘ Fat Boy’ , (ciccione). L’ impronta di quella guerra interna sta nei 100 mila indiani della nazione Navajo impiegati come minatori d’ uranio per scavare il minerale necessario alle bombe, sterminati dai tumori al polmone e morti senza neppure poter dare un nome a ciò che li uccideva: in lingua Navajo non c’ è una parola che esprima il concetto di ‘ radioattività’ .

La chiamavano la “morte che consuma”. Per anni, il silenzio ufficiale fu assoluto, feroce. Nel paese di St.George, un villaggio fra i mormoni dello Utah, un medico del posto scoprì a metà degli anni ‘ 60 quantità mostruose, inspiegabili di tumori, 25 volte più della media nazionale… perchè? chiese alle autorità, perchè tanta mortalità fra questa gente sana, in uno degli angoli più belli e vergini d’ America? Come risposta gli arrivò a casa un agente dello Fbi: lei non è per caso un comunista? Una spia russa? Il medico lasciò perdere. Non ci sono monumenti, medaglie, eroi di quella guerra segreta di Americani contro altri Americani. Solo cimiteri. Solo il nulla sinistro e gigantesco di roccia e deserto che fu il ‘ Nevada Test Site’ , il poligono atomico.

Di quell’ inferno oggi resta soltanto un cartello – “Warning! Attenzione! State entrando nel poligono nucleare del Nevada!” – a poco più di un’ ora d’ auto da Las Vegas. Non è proibito entrarci, ma molti dicono che sia stupido. La polvere che ricopre la strada è forse ancora ‘ calda’ , radioattiva e lo sarà per 400 anni. A bassa voce, per non disturbare i turisti, i vecchi del posto ti suggeriscono di viaggiare coi finestrini della macchina ben chiusi, la ventilazione bloccata e le mascherine di carta sulla bocca per non respirare la ‘ morte che consuma’ . Quella stessa morte che uccise anche John Wayne e tutta la gente che lavorava con lui sul set di un western realizzato da queste parti. Nessuno della troupe di quel film girato accanto al poligono nucleare è scampato. Tutti sono morti qualche tempo dopo aver lavorato qui per 4 settimane, tutti di cancro al polmone. Dissero che erano le sigarette. Allora non sapevamo quel che sappiamo ora, si difendono le autorità, eravamo sprovveduti, ingenui. Ma non è vero. Sapevano benissimo. Quando il vento spirava dal poligono in direzione di Las Vegas e di Los Angeles, rimandavano gli esperimenti. Aspettavano che il vento girasse e portasse la polvere verso le Montagne Rocciose, a est, nelle zone poco abitate, verso i disgraziati che vivevano sparsi nei villaggi sottovento, come Martha e i suoi figli.

Il Pentagono le chiamava “popolazioni marginali”. Diciamo pure la parola: cavie. Sapevano, eccome sapevano. Da Las Vegas si vedevano benissimo i ‘ funghi’ stagliarsi contro l’ orizzonte ad appena 100 chilometri. I giocatori si alzavano dai tavoli del ‘ Blackjack’ , si staccavano dalle slot machines per correre sui tetti a vedere ‘ the mushroom’ , il fungone. Le scuole distribuivano pasticche di iodio ai bambini per combattere l’ effetto delle radiazioni. Dicevano ai genitori che erano “vitamine”.

Ai soldati che in 250 mila vennero piazzati a pochi chilometri dal ‘ ground zero’ , il punto della detonazione, veniva data paga doppia, come agli scienziati che lavoravano agli esperimenti. Dunque il rischio era ben noto. “Li pagavano profumatamente e gli dicevano che era un lavoro patriottico, indispensabile per difendere l’ America dalle bombe dei comunisti” racconta la vedova di un cow-boy del Nevada. Suo marito aveva il compito di portare vacche vicino alla bomba per studiare gli effetti. Alle bestie usciva una schiuma purpurea dalle narici, gli occhi si gonfiavano fino a cadere dalle orbite. Qualche volta anche ai vaccari. E le vedove zitte. “Non una parola con nessuno, mi disse mio marito vomitando abbracciato alla tazza del cesso, dopo un esperimento”. Morì sei mesi dopo. Lungo la ‘ Frontiera della Bomba’ oggi non c’ è più niente di vivo. Deserto doppio. Vedo, dal finestrino ben chiuso della mia macchina, la carcassa di un vecchio carro armato bianco, calcinato dall’ esplosione. Rottami di autobus, macchine, tronconi sbriciolati di ponti in cemento armato, pezzi di rotaia divelti, usati per misurare l’ effetto-bomba, tutti coperti da quella polvere candida e finissima che viaggiava per centinaia, per migliaia di chilometri.

A volte ricadeva fitta come neve sui villaggi e i bambini correvano fuori a tuffarvisi dentro, ridendo e respirando. La notte vomitavano, la mattina apparivano le prime piaghe e i capelli cominciavano a cadere 48 ore dopo. Le madri pregavano per loro. Prima perchè guarissero. Poi perchè morissero in fretta. La gente si fidava.

La propaganda funzionava e la ‘ Bomba’ non dispiaceva affatto. Quel fungo enorme contro il cielo terso del West era una bandiera, un segno di trionfo. Era l’ America. Miss Nevada 1953 vinse il titolo indossando un costumino da bagno fatto di bambagia a forma di fungo atomico. Parve una gran trovata. Il due pezzi rivelatore non si chiamava forse ‘ Bikini’ , l’ atollo della prima Bomba H? Nel deserto del Nevada, spuntavano gli ‘ Atomic Bar’ , ‘ Atomic Restaurant’ , ‘ Atomic Casinò’ . Le prostitute di Reno offrivano ai clienti ‘ The Atomic Fuck’ , la scopata atomica. Le famiglie andavano a fare i pic-nic sulle colline per guardare il ‘ sole a mezzanotte’ attraverso gli occhiali affumicati.

L’ esercito distribuiva e proiettava nei paesi sottovento del Nevada, dell’ Arizona, dello Utah un filmino rassicurante intitolato “Il Cappellano e la Bomba”. Anno: 1956. Recitava il cappellano: “Domani assisterai in prima linea a un esperimento nucleare, hai paura?”. Il soldato: “Un po’ sì, Padre”. “Non averne, figliolo. Non c’ è alcun pericolo. Vedrai un grande lampo, sentirai il calore sul viso come quando prendi il sole al mare, avvertirai la terra tremare, il vento alzarsi. E poi vedrai un fungo di colori meravigliosi volare verso i cieli, verso il Signore. Sarà bellissimo”. “Sì padre, ora sono tranquillo”.

Vedo nel deserto resti di enormi gabbie, come grandi voliere sparse qua e là. Erano le gabbie per gli animali collocate a varie distanze dal “ground zero”. I più vicini venivano polverizzati. I più sfortunati, quelli più lontani, vivevano un giorno o due. Reason Wareheim, un ex Marine di servizio nel Poligono che oggi ha 67 anni ed è sopravvissuto a un tumore al polmone, ricorda ancora le grida e gli ululati strazianti di quelle bestie, lasciate a morire sotto il cielo del deserto. Sopravvivevano solo scorpioni e scarafaggi. Bisognava farlo. C’ era la Guerra Fredda. Stalin e Kruscev. Budapest e Cuba. Il giorno dell’ Olocausto atomico sembrava inevitabile, imminente. Gli esperti parlavano di “deterrenza” nucleare fra Usa e Urss per garantire la pace. Forse milioni di vite furono risparmiate. Certamente migliaia di vite furono consumate in silenzio, qui nel Selvaggio West della Bomba coperto dalla polvere portata dal vento del Nevada che lasciava in bocca “un sapore metallico, come leccare la lama di un coltello”. E il ‘ fallout’ radioattivo arrivava sino a New York, dicono le carte segrete. Racconta ancora Martha Laird: “Poco prima di morire mio figlio alzò la testa dal letto dove stava tutto avvolto in un guscio di gommapiuma perchè le sue ossa erano ormai diventate così fragili per il tumore che si spezzavano solo a muoversi. Mugolava come un cane… mamma sento il vento arrivare… mamma ferma il vento… Credevo che delirasse”. Martha ha messo in cornice l’ assegno del governo. Giura che non incasserà mai quei soldi portati dal vento del Nevada, come la morte senza nome che consumò tutti i suoi figli.

VITTORIO ZUCCONI

21 giugno 1993

SCEGLIETE AMICI, AMANTI…

Esistono giornate incoerenti, come queste di fine ottobre.

Dovrebbe essere il tempo delle foglie rosse incollate all’asfalto, dell’odore di marcio e delle mura sudate di pioggia, invece l’estate prosegue verso la fine improvvisa. Un giorno incoerente ne riflette molti altri, anch’essi altrettanto incoerenti; alcuni passati nell’attesa, altri nella fuga, molti nella rabbia. Non molti nella gioia. Ognuno di essi ha avuto un peso e nessuno è mai caduto a terra. Pian piano la schiena si piega, le cosce si abituano, il fiato trova il suo ritmo e si cammina, si cammina sempre fino a che non si ha più ricordo di cosa vuol dire correre e saltare e arrampicarsi sugli alberi. Senza peso. Senza giorni.

Comacchio foto P.Capitini

Sfogliando quà e la mi sono capitate le parole di questa scrittrice italiana. Sono un invito a lasciare i pesi e a non accettare giorni incoerenti. Buona lettura

Scegliete amici, amanti e amori che siano ali forti con cui spiccare il volo, che vi aiutino a nascere, pure quando nascere fa male, per scoprire chi siete davvero, per rendervi persone migliori. Scegliete chi vi rimprovera per troppo affetto, invece di chi vi consola per convenienza. Chi vi affronta a muso duro, vi urla a dosso e, alla fine, resta. Scegliete chi non vi incatena all’immobilità del suolo, ma disegna per voi un altro pezzo di cielo. Chi non fa promesse e poi le mantiene. Chi tradisce le aspettative, perché non c’è altro modo di onorare la vita, nella sua magnifica imperfezione. Chi vi cambia gli occhi, o ve li restituisce per la prima volta, mostrandovi un modo diverso di guardare. Scegliete chi vi spinge a lottare, a combattere, a crescere, a sperimentare. Chi inventa ogni giorno colori nuovi, e ha incoscienza abbastanza da accostare il verde col giallo, il blu cobalto col rosso rubino, perché nulla ci fa più coraggiosi della capacità di rompere gli schemi e sovvertire l’ovvio. Scegliete chi vi fa paura. E poi, scegliete chi vi fa venire voglia di vincere quella paura.
Antonia Storace, dal libro “Donne al quadrato”