Combattere sotto la soglia – Uno sguardo sulla guerra ibrida.

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Passato il tempo in cui di ibrido c’erano solo muli e mandaranci. Poi sono venuti motori e auto; adesso è il momento della guerra. Una guerra che sempre più spesso viene definita ibrida ma che, come al solito, non rinuncia ad alcun mezzo lecito e soprattutto illecito per raggiungere lo scopo: prevalere.

Trucchi di guerra, inganno, corruzione, terrore, manipolazione fanno parte della natura della guerra e vi si ricorre da tempi immemorabili. E’ allora qual è la novità? Cosa c’è in questo nuovo modo di guerreggiare di realmente nuovo? Iniziamo per il momento con definire che cosa è una guerra ibrida.

Secondo una definizione diffusa una guerra è ibrida quando si impiegano contemporaneamente combinazioni di mezzi politici, militari, economici, sociali e informativi uniti a metodi di guerra convenzionali o irregolari, al terrorismo, ad azioni criminali alla disinformazione e alla propaganda. Tutte queste attività possono essere condotte da una combinazione di attori statali e non-statali”.

Più semplicemente possiamo accettare come definizione di guerra ibrida quella che viene condotta sotto la soglia del combattimento aperto. Rientrano in questo dominio la sovversione, la disinformazione, la corruzione, l’attacco politico, il sabotaggio, la manipolazione, le azioni aggressive in campo finanziario, l’ingerenza elettorale, la creazione di movimenti di opinione e così via.

Come caso di scuola si cita spesso la catena di eventi che nel 2014 portò all’occupazione militare e quindi all’annessione della Crimea da parte della Federazione russa; caso conosciuto come l’operazione degli omini verdi. Se invece ci si rivolge alla controparte russa per Mosca sono esempi di guerra ibrida le operazioni che portarono alle primavere arabe e ancor prima la campagna destabilizzatrice che condusse alla seconda guerra del golfo.

manifestazione in tunisia durante la primavera araba – foto WEB

Per tornare comunque al caso Crimea che in questi giorni ha almeno la freschezza della cronaca, esso rappresenta il paradigma del modo in cui si possano conseguire obiettivi politico-militari di assoluta rilevanza senza che ricorrere all’uso della forza e, soprattutto senza che nessuno si fosse reso renda conto di cosa stava succedendo se non a cose fatte. Altri esempi sono le operazioni montate dalla Federazione russa per le elezioni americane del 2016 o per il referendum popolare che ha portato alla BREXIT. In questi ultimi due casi allo scopo di radicalizzare o polarizzare le diverse posizioni politiche, sono state manipolate piattaforme informatiche e social media come Twitter e Facebook, per approfondire le faglie già esistenti nelle società americane e britannica, senza escludere strumenti per così dire più ”classici” come la corruzione o l’illecito finanziamento di gruppi, associazioni o leader. Ma non sono questi i soli mezzi cui si ricorre. Ad esempio si è anche pensato ai rifugiati o meglio a gestire flusso e intensità della massa dei profughi come strumento di destabilizzazione politica. Un esempio? Quello della Bielorussia e della Polonia nel 2021 quando migliaia di profughi afghani e siriani sono stati trasportati nelle foreste del confine e là abbandonati a loro stessi per creare una pesante situazione di imbarazzo al governo polacco apertamente anti-russo.

profughi al confine tra Bielorussia e Polonia – foto WEB

Trascurando questi come i molti altri esempi, il concetto di guerra ibrida è oggi sempre più spesso associato all’agire della Federazione russa. In primo luogo per i buoni risultati che ha ottenuto sia in Crimea, sia in Ucraina, secondariamente perché proprio a un russo, il generale Gerasimov, si deve l’avvio del dibattito su questo nuovo metodo di combattimento. Mi riferisco a quella che impropriamente è appunto definita “dottrina Gerasimov”, felice definizione per una dottrina mai espressa. Sebbene non è corretto attribuire alla Russia il monopolio su questo tipo di guerra, tuttavia è stato proprio osservando l’agire della Federazione negli ultimi dieci o quindici anni che si è iniziato a notare come si possano ottenere grandi risultati militari pur rimanendo sotto la soglia del combattimento.

Con gli strumenti offerti dall’attuale tecnologia tutte la azioni che storicamente hanno sempre fatto parte del bagaglio della guerra possono infatti essere coordinate e distribuite nel tempo o nello spazio con un’efficacia e un tempismo impossibili in passato. E’ questo, in fondo, ciò che definisce questa visione della guerra conferendone una certa novità: essere in grado di coordinare nel tempo, nello spazio e nell’intensità i diversi strumenti del potere nazionale, per la maggior parte non militari, al fine di conseguire un obiettivo politico-militare.

Tra le varie teorie che sottendono questo nuovo modo di confrontarsi e che tentano di spiegarlo una delle più interessanti è quella formulata dal prof. David Kilkullen riguardo la cosiddetta “guerra liminale” (liminal warfare).

il professor David Kulkillen – autore della teoria sulla “liminal warfare” -foto WEB

Il punto di osservazione scelto da Kilkullen non si sofferma sugli strumenti che concorrono a formare l’arsenale di un confronto ibrido, ma su come questi vengono calibrati in funzione delle soglie di percezione manifestate dall’avversario. In altri termini di come gli strumenti possano o meno operare efficacemente tra le differenti soglie percettive del sistema difensivo avversario. Sono quindi le soglie di percezione gli elementi centrali della teoria di Kilkullen.

La prima è la cosiddetta soglia di rilevamento o di scoperta. Essa individua il punto in cui i sistemi di rilevamento iniziano a percepire che nella loro realtà si sta verificando qualcosa di anomalo, inatteso e potenzialmente dannoso. Può essere la rapida comparsa di un nuovo movimento politico o il potenziale risveglio del terrorismo, un atteggiamento economicamente ostile da parte di un paese o di una coalizione e molto altro. La soglia di scoperta è il momento in cui l’apparato aggredito prende consapevolezza che qualcosa sta accadendo al proprio interno.

E’ evidente che l’assenza della percezione non significa che in quel momento non siano in atto azioni ostili, ma solo che l’apparato difensivo/informativo non ne è cosciente. E’ questa l’area in cui si sviluppano le operazioni invisibili, le attività clandestine.

Superata la soglia di rilevamento gli apparati dello stato iniziano a investigare per comprendere cosa stia realmente accadendo. Qui si innesca un discorso laterale circa la capacità tecnica e tattica dei servizi di sicurezza di percepire la minaccia. Migliori saranno gli apparati di intelligence, più bassa sarà la soglia di percezione e più difficoltoso sarà per l’avversario condurre le proprie operazioni. Percepire il pericolo non vuol dire però individuarne la provenienza, il che da all’aggressore ancora un margine di tempo per proseguire le proprie attività di destabilizzazione. Da parte dell’aggredito si assisterà all’innalzamento del livello di attenzione, all’incremento dell’attività investigativa e con ogni probabilità il mutamento di atteggiamento sarà percepito anche dall’opinione pubblica che se da un lato può sentirsi protetta dall’altro potrebbe percepire tali attività come un attentato alla propria libertà o una delle forme oppressive del potere. E’ questa l’area delle operazioni segrete o coperte che possono continuare finché non si raggiunge la seconda soglia, quella cosiddetta di “attribuzione” in cui finalmente gli apparati dello stato sono in grado di attribuire una paternità e una responsabilità ai mandanti delle operazioni coperte come pure di quelle clandestine.

sabotaggio al gasdotto north-stream 2 nel mar Baltico (foto WEB)

A questo punto si potrebbe pensare che una volta individuato l’autore dell’aggressione si possa pensare facilmente a una risposta adeguata. In linea teorica è facile dire di si, tuttavia nel campo del reale avere prove certe ed evidenze incontrovertibili che rimandino a questo o a quello stato è estremamente difficile e quindi pericoloso. Esiste sempre un margine di indeterminatezza, ambiguità o insicurezza che non permette di puntare il dito con sicurezza. E’ proprio sfruttando questo ristretto ambito che l’aggressore continua la sua opera. Come? Incrementando la confusione in ogni modo possibile. Ad esempio attraverso dichiarazioni ai massimi livelli volte a negare ogni coinvolgimento, le offerta di aperta collaborazione con organismi sovrannazionali o stati neutrali per l’individuazione dei responsabili come pure indicando un nemico diverso e fomentando l’incredulità e la sfiducia di una parte della popolazione circa l’onestà e la buona fede del proprio governo. E’ questo il campo aperto alle teorie cospirazioniste, dei circoli segreti che governano il mondo e via di questo passo. Insomma lo strumento utilizzato in questo ristretto ambito è la menzogna come generatrice di confusione. Perché? Per il semplice motivo che l’incertezza rallenta e condiziona i decisori sia nei modi come nei tempi e nella forza della risposta.

Ci si avvicina comunque, se pur con alimentata lentezza, alla terza delle soglie individuate da Kilkullen, quella della risposta. E’ questo il momento in cui l’aggredito decide infine di rispondere all’aggressione e l’operazione ibrida può dirsi conclusa e si entra nel confronto se non nell’aperto conflitto.

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Mentre il posizionamento delle prime due soglie dipende in gran parte da fattori tecnici e dalla capacità e dalle potenzialità dell’apparato di sicurezza dello stato, quello della soglia di risposta dipende in larga misura dalla politica. Le società democratiche tendono ad avere una soglia di risposta molto più alta delle autocrazie o delle dittature, questo perché molto più numerosi sono i centri di potere, di mediazione degli interessi dei gruppi, più sviluppata è l’architettura di controllo e di compensazione tra poteri. Peraltro non certo ultima è la necessità per ogni politico di creare consenso attorno a sé. Tutto ciò rappresenta una vulnerabilità delle democrazie perché un eventuale aggressore può largamente sfruttare a proprio favore il tempo impiegato a definire e quindi attuare una risposta adeguata alla minaccia. Per mitigarne gli effetti negativi è palese come i paesi democratici debbano dotarsi di apparati di sicurezza leali, altamente tecnologici e reattivi in grado di individuare le minacce fin dal loro palesarsi. Anche lo strumento militare, la sua forza, la capacità di reazione e il livello di prontezza concorrono a dissuadere l’avversario dal tentare azioni particolarmente aggressive. Da ultimo anche la politica deve essere comunque animata da un forte senso dell’interesse nazionale che deve comunque prevalere su quello, legittimo, di parte.

L’obiettivo di una guerra ibrida è quindi di passare più tempo possibile al di sotto della soglia di risposta anche se non necessariamente al di sotto di tutte le altre soglie. Alcune operazioni possono non essere segrete, altre coperte, ma l’obiettivo di chi le conduce è di non far alzare la temperatura fino alla soglia di risposta in modo che esse non vengano interrotte fino al conseguimento dell’obiettivo prefissato.  E’ questo ad esempio il caso delle operazioni messe in atto dalla Federazione russa per favorire in Gran Bretagna un voto favorevole all’uscita del paese dalla Unione Europea. In quello specifico caso quando gli apparati di sicurezza britannici si sono avvicinati alla soglia di risposta ormai il referendum si era tenuto e i risultati erano stati dichiarati.

Questo aspetto introduce alla dimensione temporale di ogni operazione liminale. Chi le pianifica, organizza e conduce sa bene che prima o poi tutto verrà a galla. Non è quindi necessario mantenere il segreto per sempre. L’importante è che l’azione rimanga sufficientemente ambigua fino a quando rispondere sarà inutile o intempestivo. Può anche verificarsi che l’aggressore abbia preventivato come inevitabile il superamento prima o poi della soglia di risposta, ma anche in questo caso è comunque determinato ad arrivare a quel punto da una posizione di forza.

Un elemento significativo in questa che si potrebbe definire architettura delle cattive azioni è che è possibile, almeno in teoria, tornare indietro lungo la scala tentando di riposizionarsi sotto una delle soglie descritte. Ad esempio avviando negoziati di pace, dimostrando buona fede, proponendosi come mediatori o sostenitori di una minoranza oppressa, riuscendo ad ottenere un’investitura ufficiale dall’ONU o da un’altra istituzione internazionale. Insomma i mezzi sono molti, ciò che però rimane e dovrebbe restare in mente è che ci si muove sempre e comunque nel campo della malafede, senza essere davvero mossi da un genuino interesse a risolvere la crisi e a limitare i danni.

Sembra essere questo il caso dell’Ucraina in cui le operazioni coperte e segrete sono iniziate ben prima del 2022, forse anche prima del 2014 quando la crisi si è palesata nei sui primi contorni militari e sono proseguite fino ad oggi quando a fronte della possibilità di un cessate il fuoco unilaterale da parte russa e alla proposta di avviare negoziati di pace, la volontà di Kiev di recuperare i territori invasi e annessi potrebbe essere interpretata non come una legittima aspirazione, ma come desiderio di una parte di proseguire comunque una guerra costosa e sanguinosa che altrimenti sarebbe già conclusa. Gli effetti sulla rete di alleanze che tutt’oggi sostengono il governo Zelensky sono facilmente intuibili.

guerra in Donbas (foto WEB)

Fin qui si è parlato di cosa significhi subire una guerra ibrida. A questo punto viene spontaneo chiedersi si esista un modo per reagire. Secondo Kilkullen si. A livello teorico si tratta di procedere con azioni che possono essere raggruppate in cinque fasi. Le prime tre coprono le misure da adottare in seguito alla scoperta della minaccia, alla sua attribuzione e alla decisione di reagire. Le altre due prevedono invece la pianificazione e l’organizzazione di una contro-risposta – non necessariamente militare – e successivamente la condotta sul campo della risposta individuata come più appropriata o semplicemente sostenibile. E’ il caso io delle sanzioni – risposta senza dubbio non militare – decise per reagire alla parte di aperto conflitto con cui la Federazione russa intende regolare la questione ucraina.

In conclusione ciò che rimane al di là delle teorizzazioni è che il fenomeno della guerra è profondamente cambiato negli ultimi decenni passando sempre più dal campo della forza e della sua applicazione ad obiettivi ristretti e definiti al costante confronto e scontro di volontà opposte giocato in gran parte sulle capacità di inganno, dissimulazione, manipolazione e modificazione della realtà. Ciò che invece non sembra essere mutato è la percezione che del fenomeno guerra si ha da parte dell’opinione pubblica, ancora legata mani e piedi allo scontro armato tra carri e artiglierie in qualche landa sperduta. Non è così e non lo è più da tempo e prima ce ne renderemo conto, meglio sarà.

MILANO – UNA CITTA’ BARRICATA

La prima volta che arrivai a Milano era una mattina di settembre, fresca e umida. Troppo per me che una settimana prima me ne stavo a Napoli, Monte di Dio. Sulla spallina ancora due stellette da tenente dei bersaglieri; quella da capitano l’avrei trovata nella nuova sede, a metà di viale Giovanni Suzzani, al civico 125. Caserma Mameli.

Milano – Arena Civica … Celebrazione del 18 giugno – anniversario fondazione del Corpo dei Bersaglieri.

La macchina me l’avevano rubata pochi giorni prima, a Napoli, in via Mezzocannone: una golf diesel bianca con tettuccio apribile. Solo un cretino marchigiano come me l’avrebbe parcheggiata in via Mezzocannone per tutta la notte, ma a 26 anni si ha diritto ad essere cretini e geniali con generica propensione verso il primo. Così me ne stavo in stazione centrale, alla fermata della 42, aspettando il bus per il 18° battaglione bersaglieri. Gli avevano trovato un posto in una vecchia caserma del tempo della guerra, un tempo in estrema periferia; alle spalle del vecchio tabacchificio e poco lontano dall’ospedale Niguarda, nomi e luoghi sconosciuti.

Milano mi aveva fatto una impressione sconcertante e vagamente estera. Non aveva la compassata alterigia affumicata di Torino dove avevo frequentato la scuola e neppure la banalità ordinata e paludosa di Novara. Milano, come cantava Lucio Dalla “fa una domanda in tedesco e ti risponde in siciliano”. L’anno precedente l’avevo trascorso a Napoli. Dalla finestra dell’alloggio, giusto a fianco all’infermeria, si vedeva Capri e il cielo. Mi colpì il fatto che Milano non avesse cielo. Al suo posto il padreterno aveva rovesciato un bicchiere di orzata lattiginosa nel quale nessuno avrebbe mai sospettato galleggiassero le nuvole. Milano non aveva neppure il mare, né un bosco e neppure uno straccio di collina. Era il frattale dello stesso incrocio contornato da identici palazzi, con l’edicola all’inizio, le fermate dei mezzi e all’ingresso gli stessi 4 cartelli : “COMO”, “TORINO”, “SEMPIONE” e “GENOVA”. Perdersi a Milano non era difficile, ma inevitabile.

Potrei proseguire nella lista dei difetti che man mano trovavo a questa città, davvero brutta, tuttavia c’era qualcosa nell’aria e nella sua gente che te la rendeva all’inizio curiosa e poi addirittura simpatica. Forse la consapevolezza che i milanesi avevano maturato di vivere in una brutta città e nello stesso tempo saperci ridere su. Dopo un po’ capii che avevano sostituito l’estetica con la pratica e il tutto funzionava benissimo.

Comprai casa. Non proprio a Milano perché anche allora i prezzi per uno statale imponevano la rapina in banca, ma a Sesto San Giovanni, la “Stalingrado d’Italia”. Cinisello, Bresso, Sesto San Giovanni, Affori…tanti modi di chiamare la stessa città, metodo un po’ classista ma almeno a prezzi più popolari. A Roma anche chi abita in un piano terra a Osteria Nuova può dire “So’ dde Roma”; a Milano a metà di viale Sarca sei già a Berlino Est.

Deve esserci qualcosa nell’aria oppure secoli fa i milanesi avranno subito qualche affronto imperdonabile per mantenere quest’aria schifata e snob nei confronti di chi li circonda. Vai a saperlo.

Giuseppe Sala, Sindaco di Milano e della città metropolitana.

Anche il dottor, grandlupman, dirigente d’azienda e dirigente pubblico, sindaco di Milano e dell’omonima città metropolitana Giuseppe Sala detto Beppe dagli amici deve essere uno così, una sorta di martini dry della politica: un terzo di snob, un terzo di talebano di sinistra e un terzo di coglionaggine. Olivetta a piacere. Per salvare Milano dall’inquinamento, garantirle la svolta verde, allinearla all’Europa, lanciarla nel terzo millennio e mille altre magnifiche sorti e progressive si è barricato all’interno dei limiti del comune, cosa che da quelle parti non si vedeva più dai tempi di Federico Barbarossa.

Cosa è successo? Semplice. Dagli inizi di ottobre non solo se hai un veicolo euro 3 o 4, ma anche euro 5 o 6 non pensare neppure di avvicinarti alla città. Anche se una marmitta euro 6 puoi usarla al posto dell’aerosol a Giuseppe Sala detto Beppe dagli amici non importa una cippa. Comprati un’auto elettrica, impara ad andare in monopatino, tira fuori la bicicletta dal garage o, se ce la fai, prendi un taxi, ma non t’azzardare a salire in macchina. Questo l’ecologico invito di Giuseppe Sala detto Beppe dagli amici.

L’ostracismo vale anche per l’idraulico con il suo Fiorino, per la squadra di muratori bergamaschi pressata dentro l’IVECO Daily rigorosamente bianco, rigorosamente ammaccato e anche per il Mercedes che scarica il pane al supermercato. Sala guarda tutti e non vuole nessuno.

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Più per desiderio di rivedere vecchi amici che per reale necessità a giorni avrei avuto motivo di tornare a Milano, una città che amo e dove ritornavo sempre con grande piacere. Tuttavia mi trovo a considerare che una settimana potrebbe non essermi sufficiente per imparare ad usare il monopattino. A 60 anni compiuti e per giunta in giacca e cravatta mi sentirei un po’ cretino a traballare la sopra. Potrebbe anche dipendere dalla mia inadeguatezza meridionale nel sentirmi affascinato dalle nibelungiche trovate di quest’illuminata giunta. Sto quindi meditando di rimandare l’impegno oppure, a malincuore, disdirlo per “impraticabilità di campo”.

Di certo Giuseppe Sala detto Beppe dagli amici sarà soddisfatto. A me rimane la sorpresa di vedere gente che sapevo ragionevole, pratica e anche combattiva essere stata completamente anestetizzata da questa fantastica e visionaria giunta comunale la quale tiene così tanto alla qualità dell’aria che è disposta a farti licenziare o fallire per difenderla. Penso che me ne resterò quindi nel mio paesino dell’Alto Lazio dove si parla un italiano post-medioevale, in piazza ogni tanto ci trovi i cavalli e il nostro sindaco non ha velleità di passare alla storia.

Bene così Giuseppe Sala detto Beppe dagli amici, tra i quali non ci sono certo io.

UCRAINA – un seme sotto la neve?

Ci incontreremo ancora, non so dove, non so quando, ma c’incontreremo in un giorno di sole” così cantava Vera Lynn nel 1939. La svastica era stata imposta a Cecoslovacchia e Austria, agli ebrei la Stella di Davide e il Reich del millennio stava invadendo la Polonia, ma Vera Lynn, e milioni di europei con lei, cantavano “We will meet again…”. In questi giorni di inizio autunno, dopo oltre sette mesi di una guerra che sarebbe dovuta durare una settimana, nessuno vuole cantare.

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Gli attentati ai gasdotti del Baltico, l’offensiva dell’esercito ucraino ad est, il bombardamento del ponte di Kerch hanno gettato nella confusione tanto i vertici del Cremlino quanto i giovani gopnick chiusi nei blindati in Donbas e mentre si minaccia l’impiego dell’arma atomica noi europei attendiamo l’inverno stretti tra la minaccia di una guerra possibile e una crisi economica già in atto.

Il gasdotto North Stream 2 nel tratto colpito dall’attentato (foto WEB)

Ormai è chiaro a tutti che questa guerra è iniziata con un gigantesco errore di valutazione. Eppure un’occhiata al passato di queste terre poteve bastare per capire che non sarebbe stata una passeggiata.

LAmberti Sorrentino, nel ’43 inviato del Corriere della Sera sul fronte ucraino, così scriveva dello spirito di quella gente: “ spesso ho pensato che costoro sparino soltanto perché un istinto più forte di qualunque paura ve li obbliga. Sbrindellati è convulsi, uccidono perché nel raggio delle loro armi non è giusto che viva nessun estraneo… “Esistiamo! Vogliamo esistere! Esisteremo sempre! Andatevene”. A Mosca nessuno aveva letto Sorrentino e così per tutta la primavera l’armata russa, villaggio dopo villaggio aveva continuato ad avanzare, ma ad un passo dall’ultima offensiva, quella che l’avrebbe portata alla conquista dell’intero Donbas e, forse di Odessa l’avanzata si era esaurita perché esaurito era l’esercito di Putin. Troppo piccolo per il compito assegnato, mal sostenuto da una logistica precaria, privo di una guida decisa e univoca si era fermato a un passo dalla meta, pensando di riprendere a combattere magari verso sud, tra Kherson e Zaporizhzhya. Da quelle parti l’esercito di Zelensky aveva ammassato la maggior parte delle unità, pronto a scatenare una controffensiva.

carri armati russi nei primi giorni dell’invasione (foto WEB)

Per parare l’eventuale colpo anche Mosca aveva quindi fatto lo stesso, accettando l’allungamento di una già precaria catena logistica e di essere sotto il pieno controllo dei satelliti NATO. Attorno a Kherson e Zaporizhzhya la costante pressione ucraina aveva indotto il comando russo a utilizzare le proprie riserve nel peggior modo possibile, vale a dire per alimentare costantemente le unità a contatto. A metà dell’estate in Ucraina meridionale erano stati concentrati quasi settanta gruppi tattici a fronte della ventina a presidio del Donbas e della quindicina lasciati a guardia di Kharkiv e del settore nord.

Nel VI secolo a.C. in uno dei tanti principi elencati nel suo “L’arte della guerra”, Sun Tzu raccomandava “combatti il tuo nemico dove non è”. E proprio al nord, là dove i russi non c’erano più e di riserve neppure a parlarne, gli ucraini hanno iniziato una ricognizione in forze condotta da sole tre brigate ben presto trasformata nella fortunata offensiva che sta portando l’armata russa al limite del collasso. Lyman è caduta, Kharkiv liberata, Izium e Kupiansk in pieno controllo e l’esercito di Kiev ora preme su Lysychansk e domani, forse, su Severodonetsk . Non va meglio a sud dove nel settore di Kherson la testa di ponte russa è ormai divisa in due mentre circolano voci sempre più insistenti di trattative locali per l’abbandono della città a patto che venga garantita la funzionalità della diga di Nova Kakhovka da dove parte il grande canale Nord Crimea, l’arteria che assicura il rifornimento di acqua dolce alla Crimea.

Più a nord la centrale atomica di Enerhodar è ancora occupata dai russi e bombardata dagli ucraini e Zaporizhzhya sembra poter fungere da base di partenza per un’ultima offensiva ucraina che punti a Melitopol e poi al mar d’Azov. A questo quadro già di per se abbastanza fosco negli ultimi giorni si è aggiunto l’attacco o l’attentato al ponte di Kersh, infrastruttura vitale non solo per la Crimea, ma anche per il sostegno logistico.

Ponte di Kerch. Il momento dell’esplosione. (Foto WEB).

A questo punto si è pensato o forse sperato che l’esercito russo fosse al limite del collasso, ma l’inverno è alle porte, i soldati ucraini sono ormai esausti e anche i russi hanno trovato una residua volontà di resistenza e quel limite non è stato superato. Chi oggi parla di disfatta non ha dunque notato che l’esercito russo occupa ancora buona parte del Donbas e del corridoio che da questo conduce a Kherson, per non parlare della Crimea.

Che tuttavia la situazione non sia delle migliori se ne è accorta anche la TV di stato russa che ormai non ha più remore a parlare di gravi difficoltà e della necessità di indire la mobilitazione generale oppure di colpire senza risparmio tutti gli obiettivi che permettono agli ucraini di sopravvivere; vale a dire centrali elettriche, stazioni ferroviarie, ponti stradali, dighe e altre infrastrutture. Di lasciar perdere non ne parla nessuno.

Come sempre accade quando le cose vanno male, a Mosca i falchi oggi prevalgono sulle colombe, ma anche a Kiev, ora che si intravede una concreta possibilità di vittoria, parlare di pace è tradimento. I due leader sembrano dunque imprigionati l’uno dal non poter perdere e l’altro dal non poter rinunciare a vincere.

Manifesto per l’arruolamento volontario nell’esercito russo (foto WEB)

Per il momento Putin ha cercato di governare la fronda ordinando la mobilitazione parziale dei riservisti. I numeri annunciati sono di 300.000 uomini, ma nella realtà le cartoline recapitate sono più di un milione. Quasi tutti i richiamati alle armi arriveranno dalle province della Russia profonda: dal Dhaghestan, dalla Buriazia, dalla Cecenia o dalla Jacuzia, immense regioni che faremo una gran fatica a individuare su una carta geografica. San Pietroburgo e Mosca, come al solito, saranno trattate con un occhio di riguardo perché è qui che più forte si fa sentire la protesta. Tuttavia Putin sa bene che mentre Mosca strepita e a San Pietroburgo ci si mette in coda alla frontiera finlandese per espatriare, nei villaggi del Caucaso, oltre gli Urali o nella immensa Siberia il richiamo della Madre Russia è ancora forte, come forte è la povertà e la lusinga di una buona paga da volontario nell’esercito.

Villaggio nella regione della Siberia (foto WEB)

Alla fine Putin avrà dunque il suo milione di soldati, addestrati ed equipaggiati ad un livello più che accettabile, pronti per essere eventualmente spediti in Ucraina. Quando? Non prima di quattro o sei mesi, cioè per la primavera 2023. Nel frattempo ci si domanda se l’esausto esercito russo, in difensiva su tutti gli oltre 800 chilometri di fronte, reggerà almeno fino all’inizio dell’inverno quando la pioggia e poi la neve imporranno una sosta.

Non che questo dispiaccia agli ucraini alle quali l’offensiva è fin qui costata migliaia di morti. Anche Kiev è infatti conscia che il momento di massimo sforzo offensivo è ormai alle spalle e che conviene trovarsi delle posizioni forti dove passare l’inverno. Come due pugili esausti entrambi attendono il suono della campana e il prossimo round. Ma la partita nel frattempo si è già spostata dal campo alle cancellerie del blocco occidentale che finora, se pur con qualche incertezza, hanno sostenuto Kiev.

Il presidente ucraino Zelensky in visita al fronte nei primi giorni dell’invasione (foto ADNKRONOS)

In piena crisi energetica e con una difficile gestione del rientro dalla pandemia nessuno nell’Unione Europea ha oggi voglia di affrontare l’ulteriore problema di come fronteggiare un milione e mezzo di soldati russi in partenza per l’Ucraina. Putin li manderà tutti a combattere tra Kharkiv e Kherson? Certamente no, ma basta il numero a spaventare e a costringere Kiev ad aumentare i livelli dei propri effettivi. La domanda rivolta agli Stati Uniti e soprattutto all’Europa è quindi: “Siete disposti a pagare, armare e sostenere un milione di soldati?

Truppe aviotrasortate durante una parata sulla Piazza Rossa a Mosca (foto WEB)

Anche se non impiegato un simile esercito è dunque già di per sé un’arma strategica, forse più delle paventate armi nucleari tattiche. Peraltro, ora che il fronte si è quasi stabilizzato e l’inverno è alle porte nulla vieterebbe al Cremlino di riprendere l’offensiva già nel prossimo febbraio ma questa volta non più con 150.000 uomini, ma con mezzo milione.

A volerli interpretare i segnali ci sono già. Ad esempio la decisione di inviare al fronte per tappare i buchi solo i richiamati delle classi più anziane, quelli che si erano congedati sette o otto anni fa, tenendo i più giovani e freschi in patria in addestramento intensivo per costituire, con ogni probabilità, il nerbo delle nuove unità da inviare in Ucraina prima del disgelo di primavera.

Vladymir Putin e Ėl’vira Nabiullina (foto WEB)

Quali dunque le prospettive nel medio periodo?

A Mosca si è convinti che questa è una guerra che la Russia non perderà, dovesse impiegarci dieci anni, ma si prospettano comunque tempi duri per tutti. La situazione interna è grave, inutile negarlo. Già un centinaio di deputati da diciotto regioni della Federazione hanno firmato una petizione per chiedere le dimissioni di Putin, ma anche Ėl’vira Nabiullina, direttrice della banca centrale russa e autrice del miracoloso salvataggio del rublo, si è sfilata, per non dire della posizione sempre più traballante del ministro della difesa, Sergej Šojgu, indicato come responsabile del fallimento di questa prima parte della guerra. Come c’era da attendersi, gli insuccessi dell’estate hanno causato grandi cambiamenti anche nei vertici militari. Dmitri Bulgakov, generale e vice ministro della difesa, è stato rimosso e sostituito dal generale Mikhail Mizintsev, il “macellaio di Mariupol” un nome che la dice lunga.

generale Mikhail Mizintsev (foto WEB)

Ma non basta. Per rimanere in tema di nomignoli truci, anche l’aeronautica militare in Ucraina ha un nuovo comandante. E’ il generale Sergej Surovikin, già comandante delle forze aerospazioli e soprannominato “Armageddon“. Alexandr Lapin, comandante del Distretto militare centrale e responsabile del settore di Izium e Lyman, cadute all’inizio dell’offensiva ucraina, è stato sostituito da tempo e via di questo passo. Nel frattempo, anche per prendere fiato, il Cremlino agita lo spettro nucleare non si sa con quale convinzione, se non di spaventare un’opinione pubblica occidentale già pronta a gridare all’escalation e alla terza guerra mondiale.

ma a tal proposito è bene ricordare che qui non si sta applicando una logica lineare, quella per intenderci secondo la quale per fronteggiare una grave crisi in campo tattico-operativo si aumentano gli sforzi in quella direzione.

Veicolo Trasporto e Combattimento BMP-2 (foto WEB).

Piuttosto siamo di fronte a un approccio che potremo definire “circolare” in cui gli avvenimenti accadono contemporaneamente ma su fronti diversi; dove se da una parte si è in difensiva da un’altra si conduce una forte offensiva e su un terzo fronte si guadagna tempo, ma tutto nel quadro di un disegno strategico preciso e tutt’altro che improvvisato.

D’altra parte è proprio questa la caratteristica principale della guerra ibrida di cui la Russia è una dei maggiori sostenitori: combattere su fronti diversi, da quello militare a quello economico, dall’informazione all’energia, dalla persuasione al terrorismo, ma riconducendo tutto a un unico disegno coordinato nel tempo e nell’intensità.

Le esplosioni multiple ai gasdotti north-stream 1 e 2, la paventata minaccia dell’uso di ordigni nucleari, i sottomarini con mostruosi siluri termonucleari che navigano nel mar di Barents, la mobilitazione parziale, la stretta energetica così come i referendum indetti in territori che neppure si controllano, possono essere tutte interpretate come azioni volte ad aumentare la confusione e l’indecisione nel campo avverso, vale a dire da noi, proprio nel momento in cui Mosca non riesce ad affermarsi con la sola forza della armi. Parafrasando von Clausewitz oggi la guerra non è più solo la prosecuzione della politica con altri mezzi, ma lo è con ogni mezzo.

Joe Biden, presidente degli Stati Uniti d’America (foto WEB).

In questa logica si inserisce la gestione russa dell’attacco al ponte di Kersh e la conseguente campagna di bombardamenti degli ultimi giorni. Il colpo inferto alla creatura di Putin, quel ponte che significava il rientro in patria della Crimea, non poteva non avere conseguenze gravi. Tuttavia, al di là dei toni largamente usati in Occidente per condannare la reazione russa, proprio da questa si riescono ad intravedere alcuni barlumi che fanno sperare per il futuro.

Innanzi tutto il non aver direttamente attribuito l’attacco al ponte all’esercito o ai missili di Kiev – fatto che di per sé avrebbe costituito una delle condizioni per il rilascio di munizionamento nucleare tattico – è già un segnale che per ora Mosca non intende superare nessuna “linea rossa”. Si è preferito parlare di terrorismo, di azione sconsiderata, di camion suicidi e di settori del servizi segreti ucraini piuttosto che di missili e neppure Zelensky si è certo affrettato a rivendicare l’azione. E questo è un primo punto positivo. Il secondo lo si può intravedere nella dolorosa campagna di bombardamento missilistico dove insieme all’esplosivo viaggiano anche messaggi. Il più importante è che Mosca non vuole colpire i simboli del potere della repubblica ucraina, né quelli dei suoi sostenitori. Niente piazza Maidan dunque, né palazzo del Governo, ambasciate o ministeri. Meglio neutralizzare infrastrutture energetiche e linee di comunicazione che almeno hanno una qualche valenza ai fini militari.

soldati ucraini (fonte WEB)

I russi sono infatti a corto di missili e doverne lanciare più di un centinaio in due giorni deve essere costato parecchio. Questo è quindi un secondo segnale che fa capire come in qualche modo Mosca sappia che prima o poi dovrà parlare proprio con Zelensky. Un terzo positivo elemento viene da oltreoceano. Biden si infatti finalmente accorto che è tempo di esercitare un controllo più stringente sull’uso che Kiev fa degli armamenti da lui copiosamente forniti. Non solo. A Washington si è sempre più riluttanti a far partire per l’Ucraina armi e munizioni che possano davvero colpire in profondità il territorio russo, mettendo così de-facto gli USA in stato di belligeranza. D’altra parte tra poco si terranno le elezioni di medio termine e per Biden evitare un conflitto mondiale o addirittura a favorire la pace sarebbe un gran bel regalo. Infine e per la prima volta, se pur con la ruvidezza imposta dalla situazione, sia Mosca per bocca del ministro degli esteri Lavrov, sia Biden hanno accennato alla possibilità di incontrarsi faccia a faccia per discutere di come far finire questa faccenda prima che davvero sfugga di mano. E’ questo un fatto che suggella i colloqui segreti che le due parti mantengono da tempo.

semoventi di artiglieria 2S19 russi in sosta in un villaggio ucraino

L’opposizione che in patria inizia a farsi sentire dimostra che Putin si è indebolito abbastanza per essere pronto a trattare e forse a Washington ci si è resi conto che il dopo-Putin potrebbe essere addirittura peggiore di Putin stesso. Certamente non si può pensare a una pace giusta, quella in cui i russi si ritireranno oltre frontiera, magari chiedendo scusa e pagando i danni. Sarà impossibile infatti per i russi uscire da una guerra in una posizione di debolezza. Chi auspica una caduta a breve di Putin forse dovrebbe anche suggerire il nome di colui che vorrà iniziare il suo regno gestendo una sconfitta maggiore di quella patita in Afghanistan. Anche se non ci piace la soluzione va quindi cercata con Putin e avrà un prezzo salato sia per gli ucraini che al di là dei proclami è assai probabile dovranno accettare non pochi compromessi, sia per noi europei, vaso di coccio tra vasi di ferro. Se c’è uno sconfitto già in questa fase della guerra è infatti l’Unione Europea che di unione ha sempre meno. E’ ormai palese che una società economico-finanziaria con spolverate di politica sociale quale è oggi l’Unione non è stata in grado di giocare alcun ruolo in questo guaio. Si è preferito trattarlo come si trattasse di una crisi economica o energetica alla quale ciascuno degli stati membri ha comunque risposto a suo modo, adeguandosi poi alla lista delle sanzioni presentate da Washington. Peccato perché qualora fosse stata ben gestita, avrebbe potuto costituire uno dei momenti fondativi dell’Unione, ma allo stato dell’arte non resta che constatare l’inadeguatezza dell’intera architettura comunitaria.

La situazione è quindi fluida e di certo preoccupante ma, a ben guardare, qualche spiraglio, nostro malgrado, potremo anche intravederlo e finalmente cantare…”we’ll meet again”.