CILINDRI, PISTONI E…TIPI ADRIATICI.

Nell’aria galleggiava il profumo di fine estate e chi vive da queste parti sa cosa vuol dire.

Il cielo è sempre d’un limpido azzurro e l’aria ancora calda, ma sospeso vicino alla terra è il sentore di uva e more mature; di stoppie secche e polvere. E le cicale non cantano più.

Sibillini (Foto P.Capitini)

La strada per Sasso si dirama dalla vecchia statale 76 verso Cupramontana. Degli antichi Umbri e Piceni era rimasta solo lei, Cupra, la dea; madre di Diana e nonna di tutte le Madonnine degli incroci. In questa parte d’Italia, schiacciata tra il mare e l’Appennino, le madonnine le trovi ovunque: dopo un ponte minuscolo; prima di una salita da dover frustare i cavalli o all’incrocio tra una strada bianca e il sentiero che accarezza i filari della vigna. Sono tutte uguali le Madonnine; una piccola casetta di mattoni gialli, come pane mal cotto, che il tempo e le piogge hanno sfornato con la pazienza di mille inverni. In quelle casette di focaccia, tegole e fede, in fondo, su una paretina intonacata, ci trovi sempre una Madonnina mal dipinta, un rosario scolorito e un cero rosso, spento. Qualche volta, di solito dopo maggio, anche una rosa rinsecchita, segno che da quelle parti sopravvivono gli antichi contadini; timorati di Dio e preoccupati del tempo.

Stavo dunque risalendo senza alcuna fretta una di queste strade a mezzacosta, con una macchina esageratamente larga e potente, una di quelle progettate per le autostrade e per chi vuole arrivare presto. L’appuntamento era per le cinque, l’ora in cui, sul finire dell’estate, gli Appennini perdono i colori e si vestono d’ombra.

La mia Ducati prima della cura (foto P.Capitini)

Dopo più di un anno di telefonate, lavori incomprensibili e contagi da Covid, la moto era finalmente pronta. Franco,il meccanico al quale mesi prima l’avevo affidata, aveva litigato con il vicino per una certa questione di parcheggio, innescando così la catena di eventi che mi portava oggi su quella strada.

Era stato uno di quei litigi frequenti in questi piccoli borghi dove ci si osserva per tutta la vita da dietro la stessa finestra, accumulando domande, invidie e sospetti che non si confesseranno mai. Basta però una foglia caduta, il fumo dell’erba bruciata o l’abbaiare del cane perché un giorno, d’improvviso, chi per anni ogni mattina ti ha salutato con un gesto di mano inizia a litigare.

Vole fa’ a questione…” si dice da queste parti, significando che è arrivato il momento di vomitare tutte le minuscole cose storte che giorno per giorno si sono sedimentate come limo nel pozzo ma che la riservatezza di questi borghi non aveva mai smosso.

Si farà pace, certo, ma dalla litigata dell’8 agosto 2022 si inizierà a contare un tempo nuovo. Un tempo che non contempla perdono e apre a una nuova fase della vita, solo in apparenza identica alla precedente. Probabilmente non si giocherà più a briscola allo stesso tavolo e neppure si faranno i complimenti al vino nuovo. Ci si saluterà con rispetto e distacco fino a che un fatto nuovo non li riavvicinerà davvero.

Franco, il meccanico, era stato appunto coinvolto in una di queste faccende. Dopo tre settimane di vacanza in Gargano il suo vicino era rientrato deciso a “fare a questione”. Con ogni evidenza l’aria di mare aveva dato la stura a quanto aveva sopportato per anni, a cominciare dalla Citroen 2CV che Franco gli aveva chiesto di parcheggiare in cortile.

Le Marche d’Estate – uno scorcio della campagna attorno a Serra San Quirico (foto P.Capitini)

Poco importava che fosse stato proprio lui, il vicino garganico, ad avergli dato il permesso. Quello pronunciato allora era uno di quei “SI” che volevano essere un “NO”. Dopo un po’, come un’eco in montagna, Quel NO nato SI aveva preso a rimbombare frasi cattive, foriere di pioggia come:”…non lo dovevi fare… sei troppo buono… ti sei fatto mettere sotto…”. E siccome a nessuno piace passare da fesso, l’equivoco, come un fiume carsico, molti anni e molti sorrisi dopo il primo: “prego, ci mancherebbe” era tornato a galla.

Fatto sta che Franco aveva ritirato la “Due Cavalli” dal cortile del vicino garganico sistemandola, anzi comprimendola provvisoriamente nell’officina.

Già, l’officina.

Chi legge si appende fiducioso alla catenella di parole offerta da chi scrive. In questo caso la parola è “officina”, ma se avete immaginato un largo ambiente dalle pareti bianche con le strisce bianche e azzurre e un calendario con una ragazza nuda dall’espressione pre-orgasmica… beh, mi dispiace, ma siete fuori strada. L’officina di Franco è un tantino diversa.

In origine credo fosse la rimessa in lamiera ondulata acquistata per parcheggiare la Fiat 127 sport appena comprata. La posizione era stata obbligata dalla recinzione del vicino e dal grande olmo reale che da almeno cent’anni vi cresceva poco lontano. Il resto dell’agglomerato metallico-lamieristico si era sviluppato nel tempo trasformando l’officina in una sorta di nuraghe.

In questa parte d’Italia le case coloniche non assomigliano alle grandi cascine della pianura padana e neppure alle masserie dalle mura alte e bianche del Tavoliere. Sono case piccole: due piani con tetto in tegole rosse; scala esterna e fienile separato.

Sono case di mezzadri. Tutte uguali.

Marianna, l’oca da guardia- (Foto P.Capitini)

Capitava però che talvolta una giovane mezzadra partorisse con troppa frequenza oppure il nonno campasse più del consentito o anche che la guerra risparmiasse i figli che la Patria avevano reclamato.  Oppure – ma accadeva di rado – il mezzadro era infine riuscito ad acquistare la terra sulla quale si spaccava la schiena. Una di certo una liberazione. Niente più patti agrari da rinnovare il giorno di San Giovanni, quando le donne colgono l’ipèrico e lasciano i petali dei fiori a galleggiare nell’acqua di fonte per tutta la notte così che al mattino si possano lavare il viso per conservare la bellezza.

In questi o in altri mille casi non si comprava un’altra cascina, né si abbatteva la vecchia, ma si costruiva una stanza nuova dove si poteva. Se poi ne fosse servita un’altra la si sarebbe tirata su a tempo debito. Insomma era quella dei mezzadri un’edilizia del tempo presente. Con lo stesso criterio Franco, negli spazi resi disponibili dal grande olmo reale, aveva ampliato l’originario capanno salva-127 con altri semi-capanni, sempre in lamiera. L’ultimo limite, per ora ritenuto invalicabile, era l’orto con annesso pollaio. A dire il vero, a parte quattro piante di albicocco, di orto non si poteva parlare e anche il pollaio era più che altro la satrapia di Marianna, una grossa oca bianca aggressiva e presuntuosa che Franco teneva al posto del cane da guardia. Marianna viveva in simbiosi con un’anonima gallina ovaiola che la seguiva remissiva ovunque andasse, pur mantenendosi a debita distanza. Questa era dunque l’officina di Franco: niente strisce bianche e blu, ponte elevatore e neppure ragazze semi-nude. Dimenticavo. L’altezza non arrivava a due metri.

l’officina di Franco – particolare (foto P.Capitini)

Là dentro, per oltre un anno e mezzo, era rimasta chiusa la mia Ducati scrambler 450 arancione. Ora il restauro era finito e per via del litigio con il vicino garganico era anche giunto il momento di andarla a prendere. Per questo stavo risalendo la strada comunale verso Sasso.

Nel tempo trascorso in officina il mondo aveva sperimentato la pandemia, la caduta di un paio di governi e anche la guerra in Ucraina. Io invece avevo vissuto l’annacquarsi di una storia importante, lo sbandamento dell’isolamento e credo anche un inizio di depressione. Faccende senza valore sulle quali ci piace perder tempo finché qualcuno, guardando una lastra ci dice “C’è qualcosa che non mi piace. La vede quella macchia?

Papà e la mia moto. (Foto P.Capitini)

Oltre a qualche malinconica lagna in quei mesi avevo scoperto che la mia storica Ducati non era affatto arancione e che non era neppure mia, ma ufficialmente ancora di Francesco, collega di corso che a Torino me l’aveva venduta per 35.000 lire e al quale nel 1984 avevo promesso di provvedere in settimana al passaggio di proprietà. Ad essere sincero già lo sapevo visto che l’arancione l’avevo spruzzato io; in parte in cortile, in parte sul tavolo della cucina dell’appartamento di Torino che allora dividevo con altri colleghi d’Accademia, in corso Francia 276, 5° piano. Avrei però giurato che fosse davvero viola scuro, ma Giannello Cercamondi, titolare della carrozzeria “Moto OK” di Senigallia, aveva invece scoperto che era nata gialla con striscia nera sul serbatoio. E così sarebbe tornata. Amen.

Carrozzeria di Giannello, particolari sacri (foto P.Capitini)

Come Franco, anche Giannello, era un “tipo adriatico”. Quel tipo di persone che si trovano su questa costa come telline dopo la mareggiata. Sono anarchiche e geniali, ma composte e un po’ introverse; non parlano quasi mai, tuttavia si votano a imprese sorprendenti e quasi mai redditizie. Giannello ad esempio era stato pugile della nazionale olimpica – credo peso leggero – poi carrozziere e ora era diacono della chiesa cattolica. Testimoniavano delle sue passioni una sorta di altare con crocifissi e madonne proprio all’ingresso della carrozzeria e un paio di guantoni, appesi sopra la cassa. Giannello non era solo un carrozziere per moto; era il custode dell’anima estetica del motociclismo dagli anni ’70 ai ’90, data passata la quale l’elettronica e la plastica l’avevano ucciso. Il Diacono aveva dunque sentenziato che lo spirito della mia Ducati era giallo con striscia nera, ma non basta. Aveva anche trovato l’antro dove risiedeva: il serbatoio.

A guardarlo bene il mio era ammaccato e aggredito da qualcosa di peggio di un semplice principio di ruggine. Una scelta ragionevole sarebbe dunque stata quella di cambiarlo. Sia mai!

Il giorno dell’arrivo (foto I. Astolfi).

L’hai stretto tra le gambe e ti ha portato dove volevi andare” – mi aveva detto con la dolcezza senza pietà di un vero cattolico; la stessa delle suore divoratrici di rosari e di carne umana – “Le bozze gliele hai fatte tu e la ruggine è colpa tua che hai perso tempo… Ripariamo! Ripariamo!” La sentenza della Cassazione era stata emessa ponendo la parola “fine” su ogni mia possibile innovazione estetica, compresa quella di farla ancora arancione.

Aveva impiegato quasi due mesi a riportare parafanghi e serbatoio allo stato nativo e a purificarli da tutte le mie colpe. A me erano bastati invece dieci minuti e meno di cinquecento euro per ringraziarlo, infilare tutto in una scatola e portarli a Franco che in quanto appartenente a un diverso ordine monastico motociclistico non s’interessava di carrozzeria.

Nel suo eremo di lamiera ondulata, all’ombra di un olmo sempre più ingombrante e tenuto al sicuro da un’oca bisbetica, Franco aveva vivisezionato motore fino a svelarne i più reconditi misteri. Con raccapriccio aveva scoperto che qualche eretico incompetente, sperduto chissà dove tra Piemonte e Toscana, aveva montato getti sbagliati nel carburatore. Qualcun altro aveva sostituito la coppia conica con una non originale e molti altri misfatti di minor conto erano stati compiuti, giuro a mia insaputa. Era indubbio però che la mia moto avesse bisogno di un esorcismo che la mondasse d’ogni peccato.

L’officina di Franco, altro particolare (foto P.Capitini)

Dopo l’autopsia era stata finalmente identificata come una Ducati 450 scrambler prima serie, gialla e con serbatoio con riga nera, anche se il contagiri – orrore – non era originale come pure il fanalino posteriore che a prima vista non aveva nulla che non andasse.

Nei miei rari pellegrinaggi al monastero-officina, Franco aveva invano tentato di introdurmi alla mirabile geometria del monocilindrico creato dall’ingegner Taglioni; da parte mia avevo dovuto compiere non pochi sforzi per nascondere che di tutte quelle cose poco ne capivo. Ammetterlo sarebbe stato come professarsi luterano di fronte all’inquisizione spagnola: ad accendere il rogo ci vuole un attimo.

Confesso di avere una certa tendenza a non farmi gli affari miei e di essere molto affascinato dai percorsi che conducono le persone ad essere quello che sono. A ben guardare si scopre che sono sempre percorsi lastricati di emozioni, dove non si trova un metro di raziocinio neppure a cercarlo.

La mia Ducati scrambler 450 dopo la cura. A destra, sullo sfondo il tronco dell’olmo e l’ingresso dell’officina (foto P.Capitini)

Franco, ad esempio, era salito sulla sua prima moto più di cinquant’anni prima. Si era trattato di un residuato bellico – forse una Guzzi o una Gilera –  preso per andare al lavoro giù nella valle, a Fabriano. A quel tempo la città era entrata nella modernità grazie al cavalier Merloni che invece di un partito politico e di dar forza all’Italia, s’era inventato le lavatrici e i frigoriferi ARISTON.

Insieme alle secolari cartiere i fabrianesi avevano allora scoperto che si poteva vivere e guadagnare anche facendo l’operaio e non solo emigrando o spaccandosi gambe e schiena su per le colline tanto ripide da scoraggiare una capra. Con i primi stipendi Franco s’era quindi comprato una Ducati e da allora nel suo cuore il monocilindrico bolognese aveva sostituito il monoteismo. Col tempo era anche divenuto una sorta di gran sacerdote delle Ducati d’antan, conosciuto e venerato anche in altre province dell’Impero.

Adesso il risultato del suo lavoro se ne stava lì, sul cavalletto centrale, con un “AermacchiHarley Davidson” e una Ducati 350 Sport TS a farle da damigelle.

 “Sai, di motori ne ho fatti tanti, ma è la prima volta che restauro una moto tutta intera” mi aveva confessato a mezza voce. M’era venuto di rispondere: “E’ stupenda” un po’ perché sembrava davvero appena uscita dalla fabbrica e un po’ per non lasciargli alcun dubbio d’aver davvero compiuto un miracolo.

Ci sarebbe da cambiare la sella” – aveva aggiunto –  “ Questa è originale Ducati, ma questo modello montava…”. Con un gesto garbato lo avevo interrotto. “Va bene così. La sella resta”.

Come potevo spiegargli che su quella sella, proprio su quella, m’ero seduto per andare alla scuola ufficiali e per questo ero stato punito perché oltre ad essere senza casco ero anche senza berretto. Sulla stessa sella s’era seduta anche il mio Grande Amore, l’unica ragazza per la quale m’era venuto in mente di chiedere soldi a prestito per un anello con diamante, premessa di una vita normale così come a ventun’anni potevo immaginarmela. Sempre su quella sella m’ero fatto Torino-Ancona e ritorno senza casco e con la metà delle sfere dei cuscinetti bruciate; e poi le gite sul Cònero con lei che mi stringeva forte … insomma, la sella restava.

Sella dei ricordi (foto P.Capitini)

La metto in moto?” – avevo chiesto con timore. “E’ la tua! Che la voi guarda’ solo?” Il largo sorriso di Franco aveva poi sottolineato l’ovvio. Un motore è fatto per andare, vibrare, scaldare, perdere olio e borbottare al minimo. I quadri si guardano, le moto si guidano. Così dopo anni ho tirato l’alza-valvole, ho dato giusto un quarto d’acceleratore e trovato il punto morto del pistone via! Una botta decisa al pedale della messa in moto, sperando che non tornasse indietro spaccandomi un ginocchio. La mia Ducati s’è messa in moto con un borbottio familiare come il nitrito del proprio cavallo. Ci sono salito e senza casco, senza assicurazione e senza neppure la targa sono partito per un giro sulle colline. Dopo un paio di chilometri ci siamo riconosciuti. Mi veniva da ridere.

Trent’anni dopo il serbatoio e la sella erano gli stessi, come le vibrazioni, le marce al contrario e i freni alla spera-in-Dio. Confesso d’aver pregato nel miracolo di essere anche io lo stesso di allora, prima che trent’anni di vita militare mi trasformassero in quell’uomo che giorno per giorno stento a riconoscere. Per fortuna Max, l’amico di sempre, mi parlava con lo stesso tono di voce e rideva alle mie battute come aveva sempre fatto, concludendo con il suo solito “…ma vaffanculo!”

Anche Max, geologo, marito, impiantista, guida alle grotte di Frasassi e fine restauratore di auto e moto d’epoca è un tipo adriatico. Inizio a sperare di esserlo anche io.

Ucraina: è arrivata la bufera…

Preferisco un generale fortunato a uno bravo”. Come dar torto a Napoleone oggi che sul fronte settentrionale ucraino sembra che per un inspiegabile allineamento di pianeti si siano contemporaneamente trovati di fronte un generale bravo e fortunato e un altro sfortunato e per certi versi incapace. Tuttavia in guerra questo succede più spesso di quanto si creda e causa sempre grandi disastri.

mezzi russi distrutti nei primi mesi dell’offensiva russa – fonte WEB

Basta ricordare i nostri di generali nell’ottobre del ’17, tra Plezzo e Tolmino, oppure Lucas, spiaggiato e immobile ad Anzio e gli esempi potrebbero continuare. Per ora non sappiamo né il nome del generale ucraino né quello del suo avversario russo. Tuttavia al primo va di certo il merito di aver fatto tracollare un terzo dell’armata russa d’Ucraina mentre sul secondo incombe la responsabilità di non essere stato in grado di impedirlo.

Dopo questa premessa sul peso che il fato ha sulla condotta della guerra, tentiamo una ricostruzione dei fatti, a partire dai pochi e confusi elementi in nostro possesso, in primo luogo dalla situazione generale al 5 di settembre, il giorno precedente l’inizio dell’offensiva .

Su un fronte lungo quasi 800 chilometri, esteso da Kharkiv, a pochi chilometri dal confine russo, a Kherson, città quasi sul mar Nero, da un paio di mesi non succede quasi nulla. L’ultima offensiva russa ha portato alla conquista delle due città gemelle di Severodonetzk e Lysichansk e alla presa di quasi tutto il Donbas, poi quasi più nulla se non incesanti e mortali bombardamenti d’artiglieria su quasi tutto il fronte, frammezzati da piccoli attacchi locali e da incursioni di missili e aerei.

Al di là del Dnepr Kherson fin dai primi giorni di guerra è occupata da una robusta guarnigione russa. Dalla città, che in molti chiamano “il balcone su Odessa”, parte una striscia di terreno larga un centinaio di chilometri in pieno controllo russo che congiunge la regione del Donbass alla Crimea. E’ il “corridoio terrestre” che ha messo in sicurezza le basi e i porti della Crimea dal tiro dei missili ucraini e che garantisce l’alimentazione tattico-logistica tra nord e sud del teatro di operazioni. Melitopol, il porto di Berdiansk e soprattutto Mariupol sono i nomi che lo identificano agli occhi di tutti.

Andamento del fronte russo-ucraino agli inizi di settembre 2022 (mappa P.Capitini)

A nord, dalle parti di Kharkiv, le attività militari si sono limitate a un costante tiro di artiglieria e a qualche lancio di missili su obiettivi ritenuti militari. La città, la seconda per importanza di tutta l’Ucraina, è ancora sotto il controllo di Kiev ma sui numerosi sobborghi come su tutte le autostrade e ferrovie che conducono in città, Mosca esercita uno stretto controllo il che fa di Kharkiv una città sotto assedio.

Nel sud-est, in quel grande spazio tagliato da fiumi e foreste, una piccola città gioca un ruolo decisivo per l’intera armata russa: Kupiansk che i russi si sono precipitati a occupare già nei primi giorni dell’operazione militare speciale.

110 chilometri a sud di Kharkiv, 70 da Izium, ma solo 50 dal confine russo, Kupiansk prima della guerra aveva circa 25.000 abitanti, ma quel che conta oggi per Mosca è il centro nodale della ferrovia che da Belgorod in Russia conduce a sud, verso il Donbas. A Kupiansk si incrociano anche l’autostrada P07 che da est a ovest congiunge il confine russo con Kharkiv e l’autostrada P79 che collega Kharkiv con Yalta in Crimea. Per il comando russo Kupiansk è la più importante base logistica avanzata che alimenta l’intero Donbas.

Più a sud-est, nella grande ansa del Dnepr, i combattimenti si sono fissati attorno alla zona di Zaporizhzhia . Qui il grande fiume, in qualche punto largo più di un chilometro, ha arrestato l’avanzata russa alla sua sponda orientale. L’unico obiettivo di prestigio raggiunto dai russi è la centrale nucleare di Enerhodar, un centinaio di chilometri a sud di Zaporizhzhia e per sua sfortuna sulla sponda orientale. Prima della guerra questa che è la centrale nucleare, la più grande d’Europa, forniva di elettricità un quarto dell’Ucraina, ma da quando èfinita in mano russa la produzione è progressivamente scesa fino a cessare del tutto. La comunità internazionale a più voci ha chiesto, minacciato e a volte implorato di escluderla dal territorio di guerra, vista la pericolosità intrinseca dell’impianto, ma Mosca, pur consentendo l’ispezione dell’impianto da parte di una delegazione della AIEA, ha continuato a occuparla utilizzandola come deposito avanzato di materiali per il fronte sud.

la centrale atomica di Zaporizhzhia – Enerdohar (foto RAI PLAY)

A est del grande fiume, a partire da Izium e Severodonetz, si apre la grande regione del Donbas. Fin dall’inizio delle ostilità le due province di Donetz e Lugansk sono in gran parte in mano russa e alle milizie delle autoproclamate repubbliche. Assieme alla Crimea il Donbas è il motivo per il quale Mosca ha scatenato la guerra e in molti pensano che una volta ultimata la conquista Mosca si siederà al tavolo della pace. Ne manca una piccola porzione, qualche chilometro a est di Severodonetz, dove la linea di contatto si appoggia alle città di Sloviansk e Kramatorsk, capisaldi della difesa uscraina.

Eccoci dunque di nuovo a Kherson. L’intera città si trova sulla riva occidentale del Dnepr ed è circondata dall’esercito ucraino. Per entrare e uscire dalla città esistono, anzi esistevano, solo due ponti: il ponte Antonosky e quello sulla diga di Nova Kachowka. Entrambi da mesi sono obiettivo dell’artiglieria ucraina che li ha messi fuori combattimento. Ma non solo. Anche i numerosi ponticelli che superano la rete di fiumi e canali che circondano la città sono per la maggior parte distrutti. I genieri russi fanno del loro meglio per allestire qualche ponte di barche o rimettere in acqua delle chiatte che regolarmente vengono colpite con precisione millimetrica dai razzi HIMARS, dono degli Stati Uniti. Rifornire la città in quelle condizioni è una impresa disperata. Corre voce che i russi abbiano intenzione di abbandonare la città, ma risulta difficile crederci. In primo luogo perché alle loro spalle non c’è più una vera via di fuga e a meno di un accordo di “cessate-il-fuoco” una ritirata equivarrebbe a un massacro. Secondariamente perché Kherson e ancor più Nova Kachowka controllano il grande invaso e il primo tratto di quel grande canale nord-Crimea che assicura il rifornimento d’acqua dolce alla Penisola.

“Il nastro giallo” – simbolo della resistenza ucraina -sul muro di un’abitazione in territorio occupato

A completare il quadro, alle spalle della linea del fronte, nelle città come nelle campagne, l’attività di “zheltaya lenta”, il nastro giallo simbolo della resistenza armata ucraina diventa giorno per giorno più incisiva. Sabotaggi, imboscate a veicoli isolati, uccisioni di collaborazionisti, propaganda e spionaggio rendevano impegnativo per i russi il controllo delle aree conquistate.

Questa dunque la situazione all’inizio di settembre, pochi giorni prima del cataclisma.

Il presidente ucraino Volodymir Zelensky (foto WEB)

Per tutta l’estate il presidente ucraino Zelensky non aveva perso occasione per annunciare l’imminente avvio della grande offensiva che avrebbe portato alla liberazione di Kherson e poi della Crimea, ma come tutti sanno le offensive si fanno, non si annunciano.

Tuttavia un qualche fondo di verità il comando russo doveva avercelo trovato visto che durante quasi tutta l’estate aveva iniziato ad ammassare truppe tra Kherson e Zaporizhzhia, pronte a parare il colpo ed eventualmente contrattaccare.

Per avere un’idea più precisa è bene tenere a mente qualche numero. Nel sotto-settore nord, quello per intendersi che verrà poi travolto dall’offensiva ucraina, il comando russo aveva posizionato dai 17 ai 20 gruppi tattici a presidio di un fronte di circa 140 km i cui punti nevralgici erano Izium e la richiamata Kupiansk. Per intenderci un gruppo tattico è una formazione di combattimento formata da 800 – 1200 uomini e da unità di carri armati, genio, artiglieria, trasmissioni in grado di condurre autonomamente azioni di combattimento in un settore limitato.

Immediatamente a sud, nel Donbas vero e proprio le cose non andavano un gran che meglio, visto che per controllare un tratto di fronte di 240 km c’erano dai 13 ai 15 gruppi tattici. Le cose cambiavano nel profondo sud, lungo il citato “corridoio terrestre”.  Qui tra Mariupol e Melitopol, su 200 km di linea di contatto, erano presenti 17 gruppi tattici; 27 erano quelli assegnati all’area di Kherson e alle loro spalle, altri 27 componevano la riserva operativa. Insomma tra il settore di Kahrkiv e il Donbass erano stati ritenuti sufficienti non più di una trentina di gruppi tattici, mentre a sud ce n’erano quasi settanta, il che sembrava dirla lunga su dove i russi si aspettassero l’offensiva. Rimaneva un dubbio se gli ucraini avrebbero attaccato direttamente Kherson oppure avrebbero preferito partire dalla zona di Zaporizhzhia. Sulla possibilità di un attacco massiccio al nord nessuno sembrava crederci.

Questo almeno fino al 6 settembre.

andamento della linea di contatto nel settore nord il giorno dell’inizio dell’offensiva ucraina (carta p.Capitini)

Qui per completezza devo accennare alle due opinioni che descrivono le ragioni del successo della offensiva in corso. La prima sostiene che l’attacco a nord faccia parte di un complesso piano di depistaggio, studiato, pianificato e organizzato con grande anticipo secondo le tecniche operative proprie della maskirovska. Vale a dire un gigantesco piano di inganno che attraverso un sapiente dosaggio di azioni, dichiarazioni, piccoli atti tattici e spostamenti di truppe alla fine aveva convinto i russi che Kiev avrebbe davvero attaccato al sud mentre invece il piano era sempre stato di partire con un deciso attacco a nord.

L’altra corrente di pensiero, invero minoritaria ma alla quale mi associo, ritiene invece che ci fosse ben poco di pianificato nell’attacco che sta portando quasi al collasso l’esercito di Mosca.

Secondo i sostenitori di questa tesi gli ucraini non stavano conducendo alcuna vera controffensiva e neppure un contrattacco, ma un semplice test per saggiare la possibilità di condurre qualche azione un po’ più fortunata di quelle condotte a sud e regolarmente respinte dai russi. Si voleva cioè testare un cambio di tattica che invece di puntare a manovre coordinate su ampia fronte, concentrasse il fuoco chirurgico dei razzi HIMARS su bersagli di alto valore tattico su un fronte ampio 3 o 4 km e una profondità di 10 km. Aperta una breccia si sarebbe quindi avanzato, visto e valutato il da farsi. Tutto qui.

A indiretto sostegno di questa tesi di minoranza si può portare il fatto che destinare tre sole brigate a questa che è ora definita “la grande offensiva”, sembra davvero un po’ poco. Sta di fatto che sono stati i reparti esploranti della 80a e della 25a brigata aviotrasportata insieme a quelli della 93a brigata meccanizzata a iniziare l’azione nei pressi del villaggio Milova. Il loro movimento era stata preceduto per circa 12 ore dal fuoco di preparazione di artiglieria eseguito con lancio di razzi HIMARS a guida GPS utilizzati in modo intermettente su obiettivi pianificati e su altri di opportunità svelati durante il bombardamento.

Lancio di razzi HIMARS a guida GPS (foto WEB).

Il 6 settembre, 2000 soldati ucraini, con si e no una trentina di carri armati e il doppio di veicoli da combattimento per la fanteria, con tutta la prudenza del caso si erano dunque presentati in quella che poi si rivelerà essere una breccia di 3×10 km. Certamente in una situazione come questa avere a disposizione il quadro completo e aggiornato delle posizioni e delle attività dei russi non è stato fattore da sottovalutare e in questo il ruolo della NATO e degli Stati Uniti nel garantire un continuo e attendibile flusso di informazioni di situazione è stato fondamentale, tuttavia non giustifica la mancata reazione russa, specie nelle prime ore. Nessuno sparava; nessuno richiedeva missioni di supporto aereo ravvicinato; nessuno comandava un concentramento di artiglieria. Nessuno insomma che nelle prime ore avesse provato a richiudere la breccia, sebbene a meno di qualche chilometro fosse posizionata un’intera brigata russa.

Qui è necessario introdurre un elemento che fa sempre fatica a trovar spazio nei resoconti di battaglia: il fattore umano. Cosa è successo ai russi e perché?

Cosa sia accaduto è ormai chiaro a tutti: il panico. Più interessante è riflettere sul perché una parte dell’esercito di Mosca abbia iniziato a fuggire anziché reagire e qui i fattori da considerare iniziano a essere parecchi. Partiamo ad esempio dalla qualità della truppa, dal livello di addestramento ricevuto, dall’esperienza di combattimento maturata, dalla percentuale di veterani nelle minori unità. Si potrebbe poi passare alla qualità dei comandanti anche ai minori livelli. Avevano in mano i loro reparti o no? Poi si potrebbe parlare degli ordini ricevuti, della pianificazione dei comandi, del morale e di mille altre cose che messe tutte insieme fanno dire a un soldato “prendo il fucile e combatto” oppure “ lascio tutto e scappo”.

Per evitare di indulgere in facili ironie immaginate per qualche momento di essere soli in un avamposto sperduto, dopo tre mesi che fate sempre la stessa cosa, senza aver effettuato nessuna esercitazione di allarme e magari con il vostro capitano o il sergente che giocano a carte con voi oppure postano video su Telegram. D’improvviso sentite sparare, rumore di cingoli, altri spari. Chiedete alla radio che sta succedendo e vi rispondono che non ne sanno nulla. Qualcuno inizia a parlare di battaglioni di assassini che vengono a tagliarvi la gola, a spararvi sulle rotule…Se a questo punto non avete qualcuno che vi sveglia dall’incubo e vi ricorda che avete munizioni, armi, addestramento e coraggio per resistere, l’unica cosa che farete sarà fuggire. E questo sembra essere successo in un generale “si-salvi-chi-può” che rischia di essere mortale per l’intero esercito russo d’Ucraina.

Tutti gli eserciti hanno sperimentato quest’agghiacciante psicosi. Noi a Caporetto, quando le seconde e le terze linee si dissolsero al solo grido de “Arrivano i tedeschi” mentre la prima linea combatteva ancora. Successe anche a Verdun nel ‘16 dove i francesi arrivarono a un pelo dal collasso ma per loro fortuna trovarono un capo che disse ai fanti smarriti l’unica cosa che volevano sentirsi dire: “tranquilli, gliele daremo!”, e non dimentichiamoci poi dei fanti di Saddam Hussein dallo sguardo allucinato o dei marines argentini alle Falklands. Insomma, la casistica è lunga e da oggi si aggiungerà il caso del collasso del sottosettore nord del fronte russo-ucraino nel 2022.

Situazione nel settore di Kharkiv a un giorno dall’inizio dell’offensiva. Gran parte delle guarnigioni russe stanno già abbandonando le posizioni.

Gli stessi attaccanti ucraini sono rimasti sorpresi della facilità con cui percorrevano senza combattere le strade contese al costo di decine di vite nei mesi precedenti. Sembra che quando nelle sale operative ucraine la situazione è iniziata a farsi più chiara l’unica indicazione ricevuta sia stata “Andate avanti finché avete carburante”. Nel frattempo anche la 3a brigata corazzata si era unita a quella che da una ricognizione in forze si stava trasformando in un’offensiva vera e propria.

Situazione a tre giorni dall’inizio dell’offensiva. Kharkiv, Kupiansk Izium sono liberate, si combatte a Lyman (carta P.Capitini)

Nel giro di due o tre giorni Kharkiv e tutti i suoi sobborghi, Balklijia, Izium, Lyman e Kupiansk e persino la periferia di Serodonetsk sono state liberate. Dei fuggitivi si hanno ad oggi poche notizie, così come ancora non si ha traccia di una coordinata reazione russa. Si sa che il 3° corpo d’armata ancora in via di allestimento e di addestramento, è stato inviato di gran carriera a contenere l’enorme sacca che si è realizzata. Allo stesso modo alcuni reparti dislocati al sud sono stati inviati in tutta fretta al nord, ma il controllo ucraino delle principali autostrade e di tutte le linee ferroviarie nord-sud del Donbas rende molto lento il rischieramento.

situazione al 14 settembre Lyman è caduta, si combatte nei sobborghi di Severodonetzk, si presume una reazione russa a breve (carta p.Capitini)

Potrebbero essere inviati altri reparti direttamente dalla Russia che dista solo qualche decina di chilometri dal luogo del disastro. Si potrebbero di certo fare e organizzare molte cose, ma al momento non si avverte la presenza di nessuna iniziativa davvero concertata in grado realisticamente di contenere il disastro, congelare la situazione almeno fino all’inizio delle piogge di autunno atteso per la metà di ottobre.

Nel frattempo un aiuto indiretto potrebbe venire a Mosca proprio dall’ampiezza del successo di Kiev. Non va sottovalutato infatti che gli ucraini nella sacca sono troppo pochi per controllare e tenere uno spazio così grande. Certo, si può essere sicuri che Kiev stia facendo di tutto per inviare altre unità per consolidare il successo e che queste, muovendo per linee interne, impiegheranno molto meno tempo di quelle che Mosca sta verosimilmente destinando a contenerle.

Carro russo in combattimento (foto WEB)

C’è da immaginare che in pochi giorni la situazione si riequilibri, ma al prezzo di perdite territoriali molto significative da parte russe. Izium, Lyman ma soprattutto Kupiansk erano infatti nodi vitali per la organizzazione logistica russa, senza i quali far arrivare un litro di gasolio, un proiettile o un uomo in Donbas inizia ad essere difficile.

Cosa succederà a breve? L’esercito russo collasserà? Putin avvierà trattative oppure scatenerà una risposta ancor più violenta? Si tratta di una disfatta o di un diabolico trappolone teso ai danni degli ucraini?

Come si vede a oggi le domande superano di gran lunga le risposte. Potremo infatti essere di fronte al punto di svolta del conflitto, oppure solo a una brutta sconfitta, dipenderà da come sapranno reagire nei prossimi giorni sia l’esercito ucraino sia, soprattutto, quello russo. Di una cosa si può però essere certi, che i russi hanno davvero bisogno di generali fortunati e bravi.