LA PIU’ BELLA DEL REAME

Perché l’Europa sembra contare come il 2 di coppe quando la briscola è a denari.

Quello che sta venendo a galla con la presidenza Trump più che una modifica di una politica è l’esaurirsi di un lungo ciclo storico.

L’America sembra, infatti, aver smesso di vedersi come un impero e fatica sempre più a comportarsi come tale. Al contrario Trump con i suoi variopinti, multiformi e numerosi seguaci, si interpretano come Grande Nazione: la più grande del mondo, certo ma con i limiti che l’essere nazione e non più impero comportano.

Sotto lo sgualcito Boss of the Plain e con al fianco uno dei revolver di Samuel Colt, lo sguardo dell’America sembra rivolto di nuovo alle praterie e alle Montagne Rocciose. I tempi della costante espansione della bandiera a stelle e strisce verso l’esterno sembrano finiti così come il controllo militare, economico e valoriale verso l’esterno e l’assimilazione di quell’esterno a sé. Badate bene, non è che l’America si sia ritirata dalla competizione mondiale, tutt’altro, solo che vuole giocarsela senza avere la responsabilità e il peso delle decine e decine di clientes che in settant’anni ha racimolato in giro per il mondo.

È la fine di un ciclo politico-strategico che inizia ai tempi di Wilson[1], il presidente della prima guerra mondiale, e arriva fino a Biden, passando per Kennedy, Reagan, Bush – padre e figlio – e da ultimo Obama.

Quello di Trump è il ritorno alla “fortezza America” dei tempi del presidente McKinley; uno stato-continente che accoglie ma poi obbliga all’assimilazione nel modello protestante e anglosassone.

Alla luce di questa impronta culturale e quasi etnica le dichiarazioni del presidente Trump riguardo al Canada come possibile 51° stato dell’Unione o della Groenlandia come pertinenza territoriale statunitense sono meglio interpretabili. Il Canada è infatti un’estensione oltre il confine settentrionale della popolazione bianca e protestante degli USA; insomma i canadesi sono quanto di più simile ad un americano si possa trovare da quelle parti. La Groenlandia è invece assimilabile per il semplice fatto di essere disabitata.

Il Messico, così vicino e popoloso così come gli altri paesi dell’America latina, al contrario, non hanno alcuna attrattiva in quanto, appunto “latinos” e come tali non assimilabili al modello WASP. Peggio, i latinos sono potenziali portatori del batterio della sostituzione invece che dell’assimilazione.

Piazza San Pietro (Roma) Monumento ai migranti – Particolare. (foto P.Capitini)

Tra una chiamata alle armi di Macron, una video conferenza tra amici e una riunione di qualche comitato europeo, quello che si deve constatare è che le classi dirigenti europee che saltellano di fronte all’incurante sguardo del Donald sono figlie dell’America di Wilson in tutte le sue declinazioni e non capiscono per nulla questa che gli sta abbaiando addosso. Le élite europee sono spiazzate in quanto frutto della fase storica precedente, quella dell’America globale e imperiale. Quella di Clinton per intenderci.

Lumaca con bossolo al poligono di Candelo Masazza (Biella) – Foto P.Capitini

L’attuale amministrazione americana non ha dunque alcun interesse a mantenere i rapporti con questa classe dirigente europea che considera e percepisce come altro-da-sé. Al contrario, sta lavorando per favorire ogni movimento politico e sociale che riconduca il Vecchio Continente ad una narrativa più simile a quella americana.

Museo dell’Aeronautica Militare di Vigna di Valle – Roma (foto P.Capitini)

Ecco dunque il sostegno aperto di Elonio – che caspita di nome – alla tedesca AfD, il rammarico per la mancata elezione del nuovo presidente rumeno, il sostegno aperto al governo italiano e al Front National di Marie Le Pen così come lo scioccante discorso di pochi giorni or sono del vice presidente Vance alla 61ª Conferenza di Monaco sulla sicurezza. In questo nuovo scenario l’amministrazione Trump intente relazionarsi all’Europa con un modello bilaterale dove, giocoforza, gli USA sarebbero sempre e comunque prevalenti e in aggiunta intende disporre di interlocutori europei, per così dire, trump-compatibili.

La fortezza America ha dunque preso coscienza del fallimento dell’idea globalista del secolo americano che ha sostenuto tutte le amministrazioni dalla caduta del muro di Berlino fino a poco tempo fa. In altri termini l’America si è resa conto di non aver forze a sufficienza per essere l’unica potenza mondiale e che, al contrario, questa iper-estensione, la stava portando al collasso economico prima che militare e politico.

Nel frattempo si è resa conto che la Cina da docile “fabbrica del mondo” era diventata se non ancora il nemico almeno il principale competitore e che la Russia, in qualche modo sopravvissuta al terrificante decennio eltisiniano, non solo non si era dissolta, ma dava anche segni di ripresa, reclamando a gran voce – sempre inascoltata – di voler rioccupare il posto che credeva le spettasse tra le grandi potenze planetarie.

Elicottero Super puma francese in volo sul Ciad (foto P.Capitini)

È bene al riguardo ricordare come dal 1999, quando Vladimiro salì al potere, la Federazione russa persegue con costanza tre linee strategiche. La prima è di restaurare e consolidare la sua influenza nell’ambito dello spazio ex-sovietico, includendo in questo non solo i giganteschi “stan” dell’Asia centrale o il turbolento Caucaso, ma anche quello occupato dagli stati dell’Europa orientale nel frattempo divenuti membri della NATO e della UE. Mi riferisco a quello che la buon anima di Gianfranco Funari indicava in litania ponendo l’accento sull’ultima sillaba: la Polonìa, l’Ungherìa, la Romanìa, la Bulgarìa e … via dicendo. La seconda linea vuole contenere l’espansione della NATO a oriente che da Mosca, a torto o a ragione, è percepita come una minaccia incombente e mortale non solo alla sicurezza dello stato, ma alla sua cultura e alla sua storia. La terza linea strategica vuole infine far tornare la Russia a giocare un ruolo rilevante non solo nel rapporto con gli USA, ma anche con i diversi poli che in questi 20 anni di ipertrofia statunitense si sono comunque sviluppati. Si parla certo di Cina e di India, ma anche di altri paesi dei BRICS e non ultima dell’Africa.

Sant’Oreste – Monte Soratte (Roma) Interno del Bunker Soratte (foto P.Capitini)

Se dunque gli Stati Uniti si scoprono Fortezza America delineando con chiarezza la loro zona di influenza esclusiva, come possono negare ad altri di volerne o mantenerne una loro? Peraltro dopo un’iniziale anarchia in cui Stati grandi o piccoli hanno sgambettato per ricavarsi un loro spazio indipendente sta emergendo chiaramente l’addensarsi di molti di essi attorno a poli ben precisi la cui massa di attrazione è rappresentata da quelli che possono essere definiti come “stati-civiltà”. Ecco quindi gli USA essere lo stato polarizzatore della civiltà occidentale; liberista, democratica, capitalista e individualista accanto ai quali si pone però lo stato-civiltà cinese o quello indiano senza trascurare potenze di seconda o terza fascia, come, ad esempio la Turchia o l’Iran.

Cesano – Scuola di Fanteria (Roma) Poligono in galleria (foto P.Capitini)

Cos’è dunque uno stato-civiltà? Sono gli stati possessori di una propria cultura, di un proprio modo di stare nel mondo e di definire con chiarezza e perseveranza il posto da essi occupato nel contesto mondiale. Sono quelli che possiedono una loro visione strategica, avendo una idea ben chiara del loro futuro o, se si preferisce, del loro destino. Sono soprattutto quelli che alla luce di tutto questo sono capaci di azione per modellare gli spazi del mondo adattandoli alla loro visione.

Obice 155 mm francese “Cesar” (foto P.Capitini)

In questa visione non è compresa l’Europa, né tantomeno l’Unione Europea, per il semplice fatto che essa non ha alcuna delle caratteristiche appena richiamate. Cosa diversa è e soprattutto è stata per gli Stati e le nazioni che la compongono. Si tratta però ormai di storia, anche gloriosa, che non ha più la vitalità indispensabile per poter agire nel contesto attuale. L’Europa in quanto tale non è infatti mai stata un soggetto politico cioè un’entità capace di individuare autonomi interessi, stabilire linee di azione strategiche proprie per perseguirli, individuare e reperire i mezzi necessari e infine attuarle.

Si dice che tutti i nodi, prima o poi, vengono al pettine. Quello europeo ha iniziato ad aggrovigliarsi la notte di natale del 1991 quando la bandiera con Falce e Martello venne ammainata per l’ultima volta dalle cupole del Cremlino.

Quell’atto aveva fatto calare il sipario su gran parte del ventesimo secolo. La rivoluzione del 1917, la vittoria sul nazismo, il primo uomo nello spazio, i Gulag, i carrarmati a Budapest e a Praga, il muro di Berlino, l´Afghanistan: tutto spazzato via. Anche l’importanza dell’Europa occidentale che per cinquant’anni era stato il frutto conteso tra USA e URSS. Per lei e per garantirsi la sua fedeltà l’America aveva avviato il piano Marshall, inviato una flotta permanente nel Mediterraneo, riempito i suoi territori con oltre 100.000 soldati e speso un’enorme quantità di denaro. Aveva anche fondato un’alleanza – la N.A.T.O. – il cui unico scopo era porre il continente europeo sotto l’ombrello atomico di Washington scoraggiando così Mosca dal compiere anche il più piccolo passo in avanti rispetto alle posizioni concordate a Yalta nel febbraio del 1945.

Secondo una definizione di quegli anni la NATO serviva dunque a tenere “Gli americani dentro, i tedeschi sotto e i russi fuori. E c’è riuscita. Non solo per merito suo ma soprattutto grazie a cinquant’anni di guerra cognitiva rivolta al vecchio continente affinché non solo abbandonasse la secolare abitudine di scatenare guerre al suo interno, ma che non avesse mai più la forza di accendere fuochi mondiali come era accaduto nel 1914 e poi nel ’39.

Point-du-Hoc , Normandia (Foto P.Capitini)

Visto dalla prospettiva del 2025 si deve dire che il compito è stato assolto. Non solo non sono più state combattute guerre in Europa occidentale, ma la stessa idea di combattere è stata espunta dalle coscienze dei sui quasi 500 milioni di abitanti che hanno preferito concentrarsi sull’essere una potenza economica piuttosto che politica e tanto meno militare. A questo avrebbero pensato gli Stati Uniti. Peccato che con la fine dell’URSS e dopo la presa di coscienza che la Federazione russa, sebbene le sue 4600 testate atomiche, non sarebbe più tornata ad essere l’Unione Sovietica di Stalin l’Europa è divenuta sempre meno importante negli equilibri mondiali e sempre più pericolosa nella competizione economico-finanziaria con gli Stati Uniti.

Carro Sherman a Saint-Marie-Eglise – Normandia (Foto P.Capitini)

Per concentrare la riflessione ai soli aspetti militari e di difesa, la N.A.T.O. dei tempi del Dottor Stranamore ha perso ogni significato e, dopo aver perso la partita di aggiramento della Federazione russa con la perdurante guerra in Ucraina, stenta a trovarne uno nuovo.

In molti ambienti americani si inizia a parlare di NATO-Silente, una sorta di Alleanza à-la-carte da attivare in caso di bisogno. Per il resto ognuno per sé e dio per tutti. L’inutile e improduttivo ruolo auto-assunto di guardiano del mondo a Washington è costato molto; troppo e Donaldo insieme a Elonio non intendono continuare a pagare il conto.

D’altra parte anche Obama aveva iniziato a spingere in tal senso se pur in modi decisamente più garbati e forse per questo inascoltati. Trump, con la sua delicatezza da buttafuori di locali di terz’ordine, ha annunciato di voler ridurre del 50% le spese militari americane e contemporaneamente presenta il conto a tutti i commensali. All’Ucraina con un accordo capestro sulle risorse del paese e facendo ingollare una immeritata resa dopo tre anni di guerra; all’Europa imponendo o minacciando dazi e ordinando – non più chiedendo garbatamente– l’aumento della spesa militare al 3 o al 5% del PIL, naturalmente rivolgendo questo flusso miliardario in euro all’industria militare americana.

Stretto dei Dardanelli (Turchia) (Foto P.Capitini)

Dietro questa sguaiata retorica si intravede però un disegno politico che neppure la rozzezza di Donaldo e le fantasie marziane di Elonio possono camuffare.

La prima linea strategica intende mantenere in mano americana la stessa capacità militare dei bei tempi della guerra fredda cedendo però al “pilastro europeo” l’intera responsabilità della difesa del suo continente e delle relative spese. È ovvio che Washington conserverà la leva dell’utilizzo, se necessario, del potere bellico dell’intera Alleanza, magari in Medio oriente o nell’Indo-pacifico, chissà.

La seconda linea è connessa alla prima. In un continente in crisi economica per gli effetti suicidi della politica energetica imposta dall’amministrazione Biden con il corollario delle sanzioni oggi arrivate al sedicesimo pacchetto; con l’industria europea che è quasi ferma anche a causa delle politiche all-green degli ultimi anni e con una classe politica ai minimi in termini di fiducia e capacità, l’aumento delle spese militari rappresenterebbe un potentissimo detonatore sociale a tutto favore di quei movimenti nazionalisti, sovranisti e conservatori così cari alla  nuova amministrazione a stelle e strisce. Insomma indebolire e impoverire l’Europa anche attraverso lo strumento della spesa militare per marginalizzarla definitivamente, concedendo a Washington mano libera nel tentativo di sedurre Mosca perché tradisca il suo matrimonio – in verità mai d’amore – con Pechino.  Vedremo come andrà a finire. Per ora ci sentiamo come la ragazza più bella della festa che invecchiando nessuno invita più a ballare.


[1] Thomas Woodrow Wilson (Staunton, 28 dicembre 1856 – Washington, 3 febbraio 1924) è stato un politico statunitense, 28º presidente degli Stati Uniti dal 1913 al 1921.

REDENTI SULLA VIA DI DAMASCO

CONVERTITI E RIPULITI.

A Khaled-Al-Assad avrebbe fatto sicuramente piacere sapere della svolta umanitaria e moderata di coloro che nell’agosto del 2015 a Palmira l’avevano ammazzato e poi decapitato di fronte al suo museo. La stessa compiaciuta soddisfazione siamo certi avrebbe riscaldato gli animi delle centinaia di persone decapitate, lapidate e persino bruciate vive dai barbuti jahidisti dello stato islamico.

Oggi in molti si affrettano a mettere in evidenza i distinguo e le eccezioni che in questi dieci anni crediamo abbiano contribuito a smacchiare dal sangue le bandiere nere dell’ISIS. Spariti dunque i tagliagole di un tempo e dimenticati gli assassini di gente inerme, è bastata una doccia, un salto dal barbiere e un cambio d’abito per trasformarli in ribelli e in miliziani anti-Assad e presto in eroici partigiani. Avere la memoria corta serve di certo a non portare rancore e a vivere l’oggi con tranquillità, ma in questo caso prepara un domani fosco per noi come per molta di quella gente che oggi manifesta per le strade delle città siriane giustamente felice per la fuga di un altro farabutto di prima classe. Qualcuno oggi, tra un brindisi e l’altro, farebbe bene a ricordare come fu lo stesso Osama Bin Laden buonanima a esortarli ad avere pazienza, ad attendere il momento propizio per portare il jahad all’interno dell’Occidente, il “nemico lontano” ora come allora, ancora troppo difficile da raggiungere.

Meglio quindi concentrarsi sul “nemico vicino” (entrambe le definizioni sono di Bin Laden) che per i barbuti ex-jahidisti coincide con qualsiasi forma di stato sia oggi presente nell’area. L’idea, per ora neppure bisbigliata, è di riportare in vita il califfato che questa volta dai monti dell’Afghanistan potrebbe arrivare fino al Mediterraneo, passando attraverso il Caucaso ex-sovietico e l’Iraq ormai balcanizzato. In questa fase è dunque meglio stare attenti a non irritare Turchia o Stati Uniti con dichiarazioni messianiche di prossimi califfati. I convertiti sulla via di Damasco non fanno che ripetere come Il mondo, cioè noi, non abbiamo nulla da temere dalla Siria. Verrebbe da aggiungere “per ora” ma se sei curdo o armeno non dovrai neppure aspettare tanto visto che i liberatori non hanno perso tempo nel dargli addosso.  Il primo a credere fino ad un certo punto all’improvvisa conversione è stato Israele il quale si è affrettato a disintegrare l’intero arsenale non più di Assad, ormai infreddolito ospite del Cremlino, ma dei nuovi liberatori. Come dire: ”prevenire è meglio che reprimere”. E di certo non sarà sfuggito a quanti ammiccano ai boia di ieri come il loro leader si sia affrettato a celebrare la fuga di Assad come un gran giorno non per la Siria, che davvero non vedeva l’ora di liberarsene, ma per la nazione islamica, vale a dire la “Hummah” dei Credenti senza distinguo di stato o di forma di governo, con buona pace di chi sogna una Siria integra e indipendente.  Lo stesso aveva fatto dalla moschea di Mossul   l’autoproclamato emiro Al Baghdadi, voce e capo dell’ISIS e che ora ci appare un Abu Mohammad al-Julani al quale è andata male. Prima di incoronare i nuovi padroni di Damasco faremo dunque bene ad usare una maggiore prudenza e a ricordare che un tempo avevamo chiamato eroici mujaheddin anti-sovietici quegli stessi talebani contro i quali avremmo combattuto dieci anni dopo.

Ma l’America è lontana, dall’altra parte della luna…

Davvero gli americani ci vogliono mollare?

Conway, South Carolina è una delle tante cittadine dell’America profonda, quelle di cui non si sente mai parlare se non quando qualcuno entra sparando in una scuola oppure un tornado di categoria F4 le spiana. È in posti come Conway che vive la maggior parte dei sostenitori della “America first” di Donald Trump. Dalle casette color pastello, con il prato falciato e la Old Glory che ciondola sotto il portico l’Europa sembra lontanissima come il resto del mondo d’altronde. Proprio a Conway, nel febbraio scorso, alla domanda se l’America fosse disposti a difendere un paese NATO qualora questo non avesse rispettato l’obiettivo di destinare il 2% del proprio PIL alla difesa, The Donald, con il suo leggendario garbo, aveva risposto: “No, I would not protect you. In fact, I would encourage them (the Russian) to do whatever the hell they want. You got to pay. You got to pay your bills.” (No, Io non vi proteggerò. Anzi, incoraggerei (i russi) a fare quel che cazzo vogliono. Tu devi pagare. Devi pagare i conti”).

Dunque, è così che stanno le cose? Davvero l’America vuole dirci “sbrigatevela da soli” proprio mentre i russi aggrediscono l’Ucraina, a Gaza Israele sfiora la guerra grande in Medioriente; con l’Iran che potrebbe non essere lontano dall’Atomica, gli Houti a minacciare gli accessi al Mar Rosso e la Cina che digrigna i denti contro Taiwan? Visto da questa sponda dell’Atlantico quello che viene minacciato dall’altra appare davvero incredibile, ma per quanto increduli noi europei dovremo iniziare a fare i conti con qualche elemento di realtà; che ci piaccia o no.

La delicata affermazione di Trump ci racconta infatti di quanto in America sia oggi diffuso e robusto il movimento di opinione che vorrebbe “America First” e forse addirittura “America only”. Dopo l’infinita guerra in Afghanistan che si è andata ad aggiungere a quella altrettanto infinita in Iraq, l’America è stanca di guerre inconcludenti e spesso insensate e non reclama più con orgoglio il ruolo di gendarme del mondo. E non basta. Anche il fascino della Vecchia Europa come culla della civiltà americana sta perdendo colpi. L’incalzare dell’ideologia Woke e della cancel culture sta facendo percepire a molti americani di non essere più, come avevano creduto per decenni, una positiva evoluzione degli europei, ma di essere altro: americani, appunto.

Non si tratta peraltro di un sentimento condiviso solo tra le classi medio-basse della popolazione; tutt’altro. Anche alcune porzioni per nulla marginali dell’establishment sostengono ormai da tempo e con dovizia di argomentazioni come il legame tra le due sponde dell’Atlantico, fino a trent’anni fa assolutamente indiscutibile, si sia nel frattempo sfilacciato e allentato e non solo per responsabilità dei Paesi europei.

Dopo il risveglio dal sogno del “secolo americano”, con la sua globalizzazione a stelle e strisce e la sua fine della storia, Washington non può più sottrarsi al suo dilemma strategico, vale a dire dall’aver preso coscienza in primo luogo che la fine della guerra fredda non ha affatto creato un mondo globalizzato a guida americana, ma, al contrario, ha dato il via a un multipolarismo conflittuale e, in secondo luogo, di non essere più politicamente e militarmente in grado di sostenere un confronto armato di alta intensità su due fronti lontani e distinti. Volendo qui portare un esempio la Washington del 2024 non è più in grado come quella del 1941 di sostenere contemporaneamente un conflitto in Europa e uno nell’area indo-pacifica e fungere allo stesso tempo da fabbrica del mondo.

L’invasione russa dell’Ucraina, ma ancor di più la crisi aperta tra Hamas e Tel Aviv ha palesemente posto il governo americano di fronte alla evidenza di non essere più in grado di imporre a nessuno dei contendenti una parola definitiva. Le esitazioni dei Paesi europei nell’aiutare militarmente il governo di Kiev così come i continui e inconcludenti viaggi in medioriente del Segretario di Stato USA Antony Blinken, testimoniano della scarsa presa che gli Stati Uniti hanno ormai in numerosi scacchieri strategici. Appare chiaro che la questione evidenziata da Trump è molto più ampia e complessa del reclamare il pagamento del canone NATO al 2% del PIL. Le risorse americane, sia politiche, sia militari, sono ancora molto consistenti ma non infinite e questo sta spingendo non solo The Donald a una richiesta di aiuto che l’Europa non sembra però voler recepire.

L’America può far dunque a meno dell’Europa? Certamente no e in questo lo strumento dell’Alleanza Atlantica rimane indispensabile alle strategie di Washington. Tuttavia, la NATO non è più lo strumento che, con un antico aforisma, serviva a tenere dentro l’America, fuori la Russia e sotto la Germania. In aggiunta l’America si sta sempre più rendendo conto che l’Europa non sarà certo l’unico e neppure il principale teatro di confronto per la supremazia mondiale come era stato dagli anni Quaranta del secolo scorso fino alla scomparsa dell’URSS. Per oltre quarant’anni USA e URSS concordavano sul fatto che un ipotetico scontro militare tra i loro due blocchi, forse anche nucleare, sarebbe avvenuto in Europa e in particolare in Germania e in Italia. In questa previsione gli Stati Uniti avevano garantito una massiccia presenza militare sul Vecchio continente, presenza che in alcuni periodi aveva sfiorato quasi il mezzo milione di soldati.

Oggi gli Stati Uniti mantengono in Europa 160 basi principali e un’ottantina di istallazioni minori, alcune davvero minuscole. Germania e Italia sono ancora gli stati che ne ospitano in maggior numero: 110 in Germania e 44 da noi. Nei registri del Defense Manpower Data Center del Pentagono si leggeva che a marzo 2020 in Germania c’erano 36 mila uomini in servizio attivo più 11 mila civili. In Italia i militari erano invece circa 12 mila mentre il personale civile si attestava sulle 2.500 unità. Questo però ben prima dell’invasione russa dell’Ucraina che ha convinto l’amministrazione Biden ad aumentare la presenza di truppe americane in Europa, specialmente ad est, ma con numeri assolutamente imparagonabili a quelli raggiunti durante la Guerra fredda.

Il messaggio lanciato dagli Stati Uniti all’Europa è dunque chiaro: preparatevi a gestire in autonomia la deterrenza del Vecchio continente contro le possibili minacce vuoi quelle della Federazione russa, vuoi quelle provenienti dal fianco sud dell’Alleanza e in particolare dal Mediterraneo compreso i suoi imbocchi come Suez e i Bab-El-Mandeb.

Viene da chiedersi a questo punto cosa accadrebbe all’Europa se in caso di guerra. L’applicazione del famoso articolo V del trattato Nord atlantico sarebbe davvero così automatico? Di certo non si può pensare che l’America non prenderebbe parte in un simile scenario, ma la vera domanda è fino a che punto si impegnerebbe. Di certo non più come ai tempi della Seconda guerra mondiale e neppure come durante Guerra fredda. E allora?

 Agli occhi di Washington la difesa, ma soprattutto la gestione, della sicurezza in Europa deve essere sempre più un affare europeo e sempre meno un problema americano, anche se Biden e di certo lo stesso Trump sanno perfettamente che il Vecchio continente rimarrà un Teatro molto importante nello scacchiere mondiale.

Importante ma non vitale come invece appare essere quello dell’indo-pacifico. È qui che secondo la maggior parte degli analisti si giocherà la vera partita, quella decisiva per il nuovo assetto del mondo. Inutile ricordare che si parla del confronto tra Stati Uniti e Cina popolare, un confronto al quale l’Europa non può che guardare da lontano visto che non dispone di assetti militari adeguati ad affrontare un eventuale conflitto aero-navale su ampia scala.

Come sta reagendo l’Europa a questo che si annuncia non come un mero mutamento di strategia, ma un ben più ampio riequilibrio delle priorità planetarie del suo maggior alleato? Verrebbe da dire poco e male. Poco perché i governi europei e le loro emanazioni nel settore della difesa sembrano ancora sonnecchiare nel dormiveglia post caduta del muro di Berlino. La fine della Unione sovietica e con essa del pericolo di una guerra ampia in Europa ha consentito loro di godere di un trentennio di assoluta tranquillità in cui si è potuto provvedere indisturbati a liquidare gli eserciti di leva, ridurne le componenti corazzate e meccanizzate, minimizzare l’artiglieria terrestre per votarsi anima e corpo a piccoli eserciti capaci di gestire operazioni di pace e poco più. Mentre l’America viveva la tragedia delle Torri Gemelle, veniva percossa dalla crisi finanziaria del 2008 e combatteva inutilmente le guerre della dottrina Bush, l’Europa rimaneva ancora tenacemente convinta che il compito di intervenire in un ipotetico e lontanissimo conflitto generale sarebbe toccato ancora e in toto all’America l’unica a non aver rinunciato a possedere un esercito degno di questo nome. D’altra parte, essere l’Impero trionfante su quello del Male qualche prezzo doveva pur comportarlo. Dopo tre decenni di sonni tranquilli il risveglio è stato però traumatico a Parigi come a Berlino, a Roma come a Madrid.

L’aggressione russa all’Ucraina ha infatti messo in piena luce che l’Europa non ha oggi strumenti per sostituirsi agli Stati Uniti nella gestione del suo stesso spazio geopolitico. Lo ribadisce ad ogni piè sospinto Ursula Von der Leyen predicando la necessità di una ipotetica difesa europea; lo stesso fa il presidente francese Macron seguito con più o meno convinzione da tutti gli altri leader europei. La realtà è che oggi e nel prossimo futuro l’Europa, intesa come l’insieme degli Stati componenti, non è e non sarà in grado di schierare nessuna forza che abbia una qualche credibilità militare, almeno non senza il decisivo apporto degli Stati Uniti che, come abbiamo detto, appaiono sempre più recalcitranti.

MIL 26 – Ciad

Anche sul termine “Europa” e “Unione Europea” ci sarebbe da puntualizzare un paio di aspetti. Il primo riguarda la esistenza stessa dell’Unione come soggetto politico in grado di assumere decisioni valide per tutti gli stati membri. Come la precedente e senz’altro assai meno drammatica esperienza della pandemia da Covid ha dimostrato, l’Unione Europea non ha gli strumenti, la forza politica e neppure l’organizzazione per reagire unitariamente ad una qualsiasi emergenza. Questo è tutt’ora compito esclusivo degli Stati che ne fanno parte che reagiscono ciascuno a suo modo e perseguendo obiettivi nazionali. Il secondo aspetto riguarda l’effetto cosmetico e anestetizzante che la parola “Europa” ha nei confronti dei popoli del Vecchio continente e delle loro classi dirigenti. Illudendosi di vivere in una sorta di versione liberal degli Stati Uniti, gli Europei continuano a far finta di non vedere che sono ancora i loro vecchi stati, quelli usciti dalla pace di Westfalia del 1648 e dalla Seconda guerra mondiale, a decidere dei destini dei rispettivi popoli e che l’Europa è solo un termine utilizzato come alibi per l’insipienza di classi dirigenti sempre meno competenti e sempre più legate all’effimera popolarità del qui e ora. Autocrazie o “Democrature” come quella russa o cinese hanno ben compreso natura e debolezza di quella che più che un’unione appare essere un mercato comune a moneta unica dove si incontrano e scontrano politiche diverse e spesso contrastanti.

Henry Kissinger, di recente scomparso, quando chiedeva che numero di telefono dovesse comporre nel caso volesse chiamare l’Europa ben sintetizzava l’ineffabile costruzione europea i cui gli Stati membri affrontano in ordine sparso e con sensibilità diverse ogni problema, compreso quello fondamentale di chi li difenderà e a quale prezzo. Certo, Polonia, Stati Baltici e adesso Finlandia e Svezia sentono molto più di Belgio, Olando o Italia il fiato sul collo dell’orso russo e si dichiarano quindi pronti a sostenere anche pesanti sacrifici per tenerlo in gabbia. Ma non è così per tutti, anzi, per alcuni, come la Germania, si tratterebbe di riposizionarsi completamente rispetto a decenni di politiche di sostegno e cooperazione con la Russia. Il patto tecnologia in cambio di energia ha infatti cementato il legame tra Mosca e Berlino che ha consentito a quest’ultimo di gestire da una posizione particolarmente vantaggiosa le turbolente dinamiche industriali degli ultimi due decenni. Un legame utile assolutamente inviso a Washington che non riusciva a capire come il suo più potente alleato europeo facesse affari d’oro con il suo maggior nemico, vale a dire la Russia e la distruzione del gasdotto north stream 2 ha ben rappresentato la misura di questo disappunto. D’altra parte, la progressiva vicinanza tra la maggiore potenza economico-industriale dell’Europa occidentale e il più grande produttore di materie prime dell’emisfero settentrionale, per giunta contiguo ad un altro partner strategico per Berlino come la Cina popolare, rischiava di costruire nel tempo un blocco potenzialmente antagonista a quello statunitense così come a quello cinese e, si sa, in un pollaio nuovi galli non sono mai bene accetti. Che dire poi dell’Italia che sotto i governi pentastellati aveva aderito entusiasticamente alla via della seta cinese attendendosi meravigliosi orizzonti di sviluppo e ricchezza finché qualcuno a Washington aveva fatto notare a Roma che allearsi con il maggior nemico della propria potenza di riferimento non era davvero una grande idea. La retromarcia, costosa per le casse dello stato italiano è stata obbligata ma almeno non così traumatica come quella tedesca. Si potrebbe aggiungere a questo punto anche l’iniziativa detta del “trimarium” che lega i Paesi dell’Europa orientale in una sorta di patto economico-infrastrutturale dal Baltico all’Adriatico e che fin’ora è stato benedetto da tutte le amministrazioni americane, compresa quella Trump. In questo clima in cui ogni Stato cerca di farsi strada per suo conto ecco, quindi, che la NATO torna a svolgere con forza la missione strategica richiamata all’inizio, cioè di tenere fuori i russi e sotto i tedeschi, magari potenziando rivali storici di entrambi come i polacchi.

In tutto questo fluttuare di faglie geopolitiche in cui grandi blocchi si avvicinano e allontanano seguendo leggi spesso imperscrutabili che ruolo può avere il nostro Paese?

Quando nel luglio del 1943 gli Alleati sbarcarono in Sicilia, insieme alle Camel, alle Lucky Strike e alle AMLIRE, portarono l’impegno a difendere la Penisola dall’Unione Sovietica e dal suo blocco che allora iniziava giusto fuori Trieste. L’avrebbero fatto con o senza le ricostituite forze armate italiane anche se un aiuto, ancorché simbolico, sarebbe stato apprezzato. Non si trattava certo di un gesto di solidarietà e di sostegno verso un ex-nemico, ma l’indispensabile necessità di porre sotto tutela diretta uno spazio geo-strategico vitale per gli interessi americani del tempo. L’unico in cui l’Unione sovietica poteva tentare un colpo di mano per incamerare il resto dell’Europa nel paradiso del socialismo reale. Sul resto del pianeta la bandiera a stelle e strisce non correva alcun serio pericolo. Su questo assioma così rozzamente riassunto ogni governo della Repubblica italiana ha costruito la propria politica di difesa. “Ci pensano gli Americani” sarebbe potuto essere assunto a motto delle Forza armate repubblicane, ma come si è accennato in precedenza, dagli inizi degli anni Duemila le cose sono radicalmente cambiate e la storia si è rimessa in movimento (ammesso che si sia mai fermata). Di questa ripartenza i governi che dal 1990 fino ad oggi si sono succeduti alla guida del Paese sembrano tuttavia non essersi accorti.

OLYMPUS DIGITAL CAMERA

Anche di fronte al palese disimpegno statunitense, alla guerra nella ex-Jugoslavia prima e a quella attuale in Ucraina tutti i governi italiani hanno continuato a sognare che tutto, prima o poi, sarebbe tornato come prima con gli americani che ci avrebbero detto cosa fare, quando farlo e anche come. In assenza di direttive da Washington l’establishment nazionale si è quindi comportato e continua a comportarsi come un coniglio abbaiato dai fari di un’automobile. Sbigottito e immobile.

Eppure proprio in questo momento ci sarebbero gli spazi per una politica estera e di difesa che tuteli gli interessi nazionali. Si potrebbe tentare la via per ricostruire una sfera di interesse italiano nel nostro estero vicino che significa Mediterraneo centrale, Africa settentrionale e Balcani. Gli americani che chiedono all’Europa più partecipazione sono infatti disposti a concedere anche maggiore autonomia all’interno dello storico quadro dell’Alleanza. La Turchia a tal riguardo è un esempio più che illuminante, come lo sono la Francia o altri stati come la Polonia o, per altri versi, l’Ungheria. L’Italia invece sembra attendere il ritorno della bella stagione senza far caso che ormai l’intero pianeta è attraversato dai cambiamenti climatici.