Esercitazioni cinesi a Taiwan – qualche nota per capirne di più.

visione generale del teatro dell’esercitazione. Da notare le distanze di Taiwan dai vari stati. (foto p.Capitini)

Un popolo di Santi, di Eroi…e di Navigatori”. Sorvolando sulle prime due presunte qualità dobbiamo ammettere che anche rispetto alla terza abbiamo ben poco a spartire con Cristoforo Colombo. Incapaci di distinguere babordo con tribordo, ci chiediamo a cosa equivalga un miglio marino e la nostra passione marinara si limita per la maggior parte alle sorti di “Luna Rossa”. Ciò che in queste ore sta capitando attorno alla lontanissima isola di Taiwan ci appare dunque di non facile comprensione. A prima vista sembrerebbe di trovarsi davanti a uno dei tanti “botta e risposta” tra Washington e Pechino. La Signora Nancy Pelosi, presidente della Camera dei Rappresentanti americana, con il suo abitino rosa cipria è sbarcata da Taipei, salutata calorosamente dalla locale presidenza e dalla popolazione tutta, ha indossato una graziosa sciarpa azzurra tipo ufficiale di picchetto promettendo urbi et orbi l’imperituro impegno suo e dell’America tutta a difendere la pace, la libertà e la democrazia persino laggiù, a Taiwan. Tanto è bastato a Pechino che di libertà e democrazia ha un proprio concetto in salsa di soia per decidere su due piedi di condurre la più grossa esercitazione aeronavale della sua storia attorno a quella che definisce un’isola ribelle.

Nancy Pelosi, Presidente della Camera dei Rappresentanti degli Stati Uniti e la Presidente della Repubblica di Cina, sig.ra Tsai Ing-wen, durante la recente visita a Taiwan. (foto WEB)

Distesi sui lettini sembrerebbe una reazione un tantino esagerata, e forse lo è. D’altra parte il recente corso intensivo di tattica e strategia militare conseguente all’inizio della campagna in Ucraina non prevedeva lezioni sul potere navale per cui concetti come “catena delle isole vicinesea power, sea denial, rule of engagement ed altre amenità anglofone ci sono risultate dure da masticare come un nocciolo di pesca. Sotto l’ombrellone si è insinuato il sospetto che dopo il gas e le bombe di Putin forse ci saremo dovuti preoccupare anche di quelle di Xi Jinping.

La Cina sta forse per invadere Taiwan? Se per caso parte un missile scoppierà la guerra atomica? Ma soprattutto, che fanno tutto il giorno quelle navi grigie in mezzo al mare?”

Tentiamo dunque di dare qualche risposta, ma devo premettere che la situazione è di gran lunga più confusa e complessa di quanto ci piacerebbe che fosse. Iniziamo dunque con il farci un’idea sul dove sta accadendo tutto questo, chiarimento tutt’altro che inutile visto che dal dove spesso si può comprendere anche il perché.

soldati delle forze di difesa di Taiwan (foto WEB)

Taiwan è un’isola di 36.000 chilometri quadrati – per farsi un’idea quanti Lazio, Marche e Umbria messi insieme – ed è abitata da 2,5 milioni di cinesi di etnia han; come di etnia han sono pure l’altro miliardo di cinesi che vive nella Repubblica Popolare dalla quale Taiwan è separata da pochissimi chilometri. Sebbene lo stretto di Formosa, o se preferite di Taiwan, sia ampio più o meno 180 chilometri, una serie di isolette, poco più di scogli, che appartengono a Taipei si trovano infatti a distanza di pedalò dalla costa cinese popolare, il che è un po’ agitare il drappo rosso davanti agli occhi del toro.

La separazione di Taiwan dalla Cina popolare risale al 1949 quando l’esercito nazionalista di Chiang Kai Shek, sconfitto dalle armate comuniste di Mao Tze Dong, si rifugiò sull’isola. L’idea era quella di riprendere fiato, riorganizzarsi e ripartire alla riconquista di Pechino con l’aiuto dell’America e della Gran Bretagna.

Il leader cinese nazionalista Chiang-Kai-Shek

Le cose, sappiamo, andarono un po’ diversamente, ma l’isola è rimasta comunque in mano ai nazionalisti anticomunisti e ai loro eredi. Almeno fino ad oggi.

Taiwan e la Cina sono dunque un vecchio lascito della 2° guerra mondiale come lo fu il muro di Berlino? Potrebbe anche essere così se non fosse che Taiwan e il suo stretto si trovano in un posto particolare: a metà tra il mar Giallo e il mar Cinese meridionale. Lasciando perdere per un attimo il mar giallo o cinese settentrionale, quello meridionale è una delle zone più strategicamente vitali del pianeta e per questo contese non solo dalla Cina ma anche da tutti o quasi gli Stati che si affacciano sulle sue sponde. A questo aspetto poco conosciuto dedicheremo a breve un approfondimento, ma intanto sembra interessante ricordare che qui transita circa un terzo del commercio navale mondiale per un ammontare di circa 5.000 miliardi di controvalore in merci. Sempre qui ogni giorno 15 milioni di barili di petrolio transitano dallo stretto di Malacca e successivamente per quello di Taiwan per raggiungere infine la Cina. Ma non basta. Recenti prospezioni geologiche sembrerebbero confermare che sul fondo del mar cinese meridionale si trovino giacimenti di petrolio e gas stimati in oltre 28 miliardi di barili. Sempre attraverso il mar Cinese meridionale passa l’80% delle risorse energetiche destinate al gigante asiatico ed oltre il 45% di tutti gli scambi commerciali da e per la Cina popolare. Probabilmente anche il vostro smarthphone è passato di lì.

Da questi numeri si inizia a capire perché la Cina vorrebbe trasformare il mar cinese meridionale in una propria zona economica esclusiva? Cos’è una ZEE? Il diritto internazionale la definisce come:”...quel tratto di mare che si estende al massimo per 188 miglia dalle acque territoriali di uno Stato, vale a dire poco più di 300 chilometri, all’interno dei quali lo Stato al quale è riconosciuta la zona ha il diritto di proprietà, di salvaguardia e di sfruttamento di tutte le sue risorse, nonché la possibilità di costruire isole artificiali e altre infrastrutture ed impianti…”. In un prossimo articolo mi riprometto di andare a fondo su questo discorso, in barba all’ecosostenibilità e a Greta Tunberg.

la portaerei cinese “Shandong”, una delle tre portaerei della marina cinese.

Taiwan è dunque l’accesso settentrionale a questo ben-di-dio, ma è un accesso ostile. Da parte sua Pechino continua a non far mistero che entro e non oltre il 2049, volente o nolente, Taiwan rientrerà a far parte della Repubblica popolare e questo malgrado in questi settant’anni Washington abbia fatto di tutto per occidentalizzare e americanizzare l’isola. L’esempio di Hong Kong sta li a dimostrare che a Pechino poco interessa il grado di occidentalizzazione raggiunto.

Non si tratta tuttavia solo di una questione di accesso al mar cinese meridionale. Potrebbe essere utile a questo punto un vecchio atlante geografico, di quelli presenti in tutte le case prima che qualcuno decretasse la fine della geografia. Se infatti osservate la carta noterete che tutta la costa cinese è contenuta da quella che viene definita “la prima catene di isole che ne limitano lo sbocco sull’oceano Pacifico.

A iniziare da nord e procedendo verso sud troveremo il Giappone, poi Taiwan, le Filippine, e l’Indonesia tra loro raccordate da qualche migliaio di atolli, scogli e isolette, quasi tutte sotto il controllo o l’influenza americana. Viste tutte insieme questa catena di isole, atolli e isolotti impedisce il libero accesso di Pechino al suo obiettivo strategico di medio e lungo periodo: l’oceano Pacifico. Peccato che anche per gli USA e i suoi alleati dell’area ( Giappone, Taiwan, Filippine, Indonesia a cui vanno ad aggiungersi Australia e Nuova Zelanda), il controllo del medesimo spazio è questione di vita o di morte.

Eccoci dunque giunti a una seconda, vitale questione. Quanto contano in un’ottica di controllo e di potenza mondiale il controllo del mare, delle sue rotte e delle sue risorse? Non potendo piantare reti o erigere muri come avviene sulla terra ferma il mare si controlla attraverso il possesso e la gestione degli stretti, dei porti e delle rotte più favorevoli, ma per ottenere questo un qualsiasi stato ha bisogno di una forza navale in grado di garantirlo.

il presidente cinese Xi Jinping passa in rassegna un picchetto della Marina da guerra. (foto WEB)

I concetti di sea control, sea denial e power projection, per utilizzare una terminologia NATO rappresentano oggi i principali compiti assegnati alle forze marittime il cui scopo è essenzialmente garantire il potere marittimo (sea power) allo Stato che le ha espresse. Il sea power è qualcosa di ben più ampio e complesso dal semplice possesso di una marina potente e di una chiara strategia d’impiego. Il sea power è un concetto geopolitico che, come specifica il generale Carlo Jean, riguarda le attività marittime civili e quelle militari, la strategia globale e non solo quella militare.

Il concetto di potere marittimo andrebbe mantenuto distinto da quello di potere navale. Il primo viene infatti esercitato sul mare sia attraverso operazioni offensive condotte contro forze nemiche, sia attraverso operazioni di protezione delle forze amiche e dei traffici marittimi secondo il concetto di force protection. Non solo guerra e capacità offensiva dunque ma anche la possibilità di garantire l’incolumità vera e propria delle navi civili e militari e del personale a essi assegnato. Secondo la dottrina strategica in vigore in campo occidentale le applicazioni militari pratiche del concetto di potere marittimo sono pianificate alla luce dai concetti operativi di power projection, sea control e sea denial. Ragionevolmente c’è da credere che, se pur con definizioni diverse, anche Pechino sia giunto più o meno alle stesse conclusioni.

A quanti siano sotto l’ombrellone è meglio chiarire di che si sta parlando. Le operazioni di sea denial sono quelle che tendono a negare l’utilizzo di un’area di mare per un certo periodo di tempo. Ad esempio chiudere per una settimana lo stretto di Taiwan. Si tratta di una misura che di solito è associata alla guerra tra Stati o coalizioni di stati perché, di fatto, nega la libertà di navigazione che è un diritto universalmente riconosciuto. Come recitano i manuali operativi il sea denial viene generalmente attuato in casi di guerra asimmetrica e prevede una postura difensiva. I mezzi utilizzati sono di solito piccole unità veloci armate di missili; batterie costiere antinave, mine e soprattutto sommergibili.

Il sea control è una versione molto più blanda del sea denial. Si parla di controllo del mare ogni qual volta una potenza ha libertà di utilizzo per i propri obiettivi di una certa area marittima ed è in grado di impedirne l’utilizzo a un avversario o a un concorrente. Il sogno a lungo termine che anima la strategia di Pechino è quello di raggiungere il sea control sull’intero Pacifico. Un sogno ad oggi ben lontano dal realizzarsi.

incrociatore cinese Type 055 classe Renhai (foto WEB)

Torniamo dunque alla Cina e alla flotta che in questo momento è in mare attorno all’isola contesa di Taiwan. Di che cosa si tratta? Da anni la Cina è un osservato speciale, non solo per il prodigioso sviluppo economico-finanziario e per i palesi interessi globali, ma anche per la sua strategia marittima che ad oggi non è ancora del tutto chiara. Per capirci meglio, ai suoi antagonisti maggiori, gli Stati Uniti, il concetto è ben chiaro. Gli USA hanno infatti una visione di sé stessi sui mari assolutamente limpida che si riflette nelle parole dell’ammiraglio Gary Roughead, a suo tempo comandante della flotta americana nel Pacifico e successivamente capo delle operazioni navali della marina americana: ”Nella nostra strategia navale noi affermiamo che è tanto importante prevenire le guerre che vincerle. Questo si realizza attraverso la presenza della nostra marina in tutto il mondo, disponendo di marinai sempre meglio preparati e con navi da battaglia, aerei e sottomarini di altissimo livello”.

E la Cina? Per decenni l’approccio cinese alla guerra navale è stato limitato alla difesa delle coste. Hanno quindi prevalso unità sottili e da attacco veloce, sommergibili convenzionali, artiglieria costiera e così via. Niente portaerei, niente gruppi da battaglia in grado di imporre la presenza cinese in luoghi lontani dalla madrepatria. Ancora minori le capacità anfibie. Tuttavia, come ricordato prima, la Cina non ha ora una dimensione planetaria e per ribadirla o imporla ha da tempo compreso di aver bisogno di una marina militare in grado di esprimere un’adeguata proiezione di potenza. E’ noto a tutti su quale mare intenderà spiegare questa potenza, l’oceano Pacifico, ed è altrettanto noto chi è l’antagonista che potrebbe trasformarsi in nemico: la US Navy.

Negli ultimi 25 anni la Repubblica popolar cinese ha perciò dedicato parti consistenti del proprio bilancio alla costruzione del proprio sea power.  L’aviazione ha notevolmente migliorato le proprie capacità e le unità maggiori di superficie stanno progressivamente raggiungendo standard tecnologici vicini a quelli occidentali. Questo almeno in teoria.

Nel 2021, La rivista “The Diplomat” che si interessa specificatamente dell’area indo-pacifica, riportava come la marina cinese avrebbe superato quella statunitense in numero di unità navali: 360 contro 297 ed entro il 2025 Pechino prevederebbe di arrivare ad averne circa 400. Da ricordare in particolare come a seguito del riavvicinamento tra Russia Pechino ha avuto accesso a vari sistemi e tecnologie fondamentali per lo sviluppo della propria Marina, in particolare, nel settore delle turbine a gas per la propulsione navale.

Fregata lanciamissili cinese Type 054

E’ bene tuttavia ricordare che la marina cinese si basa in gran parte su classi di navi più piccole rispetto a quelle americane, come ad esempio fregate o corvette. Gli Stati Uniti dominano ancora come le loro undici portaerei in servizio in grado di dar vita ad altrettanti gruppi da battaglia mentre al Cina ne possiede solo tre, la “Liaoning”, costruita a partire da uno scafo sovietico, la “Shandong” interamente costruita in Cina e la “Fujian”, entrata in linea nel giugno dello scorso anno.

Se è pur vero che Pechino continua a finanziarie la costruzione di unità con capacità oceaniche, come ad esempio gli incrociatori Type 055 classe Renhai,  è altrettanto vero che lo sviluppo di sistemi missilistici antinave lanciati da terra non si ferma, così come lo sforzo per mettere in cantiere una classe di sommergibili a elevate prestazioni. Gli investimenti in queste due armi fanno supporre che missili e sommergibili serviranno più da deterrente che da assetto per il sea-control vero e proprio.

E’ tempo di tornare all’oggi e osservare ciò che in queste ore sta accadendo attorno a Taiwan: una grande esercitazione aero-navale, denominata “operazione militare mirata”. Alla luce di quanto detto finora quale ne è lo scopo? Verosimilmente non quello di prendere le misure a Taiwan per una prossima invasione. Non sembra cioè plausibile uno scenario pre-ucraino quello in cui, se ricordate, tutto era iniziato con una serie di grandi manovre in territorio russo ad anticipare e favorire l’inizio dell’attacco contro Kiev. C’è inoltre da tenere a mente che in autunno si svolgerà il 18° congresso del partito comunista cinese che stabilirà chi sarà a guidare la Cina nel prossimo decennio. Potrebbe essere per la terza volta ancora Xi Jimping, ma niente può essere dato per scontato. Il presidente ha infatti dovuto incassare severe critiche per la gestione para-militare dell’epidemia di Covid; si è trovato suo malgrado coinvolto dagli effetti della campagna russo-ucraina e per giunta la crescita del paese non è più a due cifre come era avvenuto nel decennio precedente. Che a questo quadro non esaltante si voglia aggiungere anche un possibile confronto militare con gli Stati Uniti è poco probabile.

il congresso nazionale del Partito Comunista cinese. Al terzo il presidente Xi Jinping. Il 18° congresso che si terrà in autunno potrà votare per la sua terza rielezione.

Peraltro la Cina sa benissimo di non essere ancora pronta per sostenere un conflitto di vaste dimensioni su uno scenario prevalentemente marittimo, ma allo stesso tempo interpreta quello che sta succedendo in Europa orientale come un segno di debolezza da parte americana. Debolezza confermata peraltro dalla situazione interna degli Stati Uniti, oggi percepiti in molti circoli di Pechino molto più deboli e meno determinati che nel recente passato. Qualcuno a Pechino sta forse pensando che si è aperta una finestra di opportunità per porre fine al problema di Taiwan con un’azione militare? Di certo qualcuno c’è, ma resta da vedere se sarà così forte da poter davvero determinare una scelta in tal senso. Scelta contro la quale giocano comunque a sfavore due fattori oggettivi. Il primo concerne l’assoluta mancanza da parte della marina cinese di assetti, esperienza e dottrina per una operazione anfibia su vasta scala. Il secondo è imposto dalla stessa natura dell’isola di Taiwan la cui conformazione geologico-orografica relega a poche, piccole spiagge la possibilità di uno sbarco. Come è ovvio in oltre settant’anni di minacciosa coabitazione Taiwan ha avuto tutto il tempo per trasformare non solo questi punti sensibili, ma l’intera isola in una fortezza. Esclusa quindi la possibilità di invasione a breve termine cosa rimane? Resta solo l’aver mostrato al mondo il proprio disappunto e che si sta lavorando per conseguire una forza sufficiente a raggiungere i propri obiettivi. Torniamo per un secondo al prossimo congresso del partito. Se uscirà la solita, generica dichiarazione di riunificazione si potrà stare sufficientemente tranquilli, ma se invece si inizieranno a porre date precise, come ad esempio il 2049 e modi organizzativi per conseguire la riunione allora lo scenario sarà di gran lunga più preoccupante. D’altra parte è stato lo stesso Xi Jinping a trasformare Taiwan in una sorta di feticcio legando ad esso questioni di prestigio internazionale e di potenza globale, trascurando il fatto che per oltre settant’anni la Cina popolare ha vissuto e prosperato anche senza Taiwan e che verosimilmente potrebbe continuare così per alti settanta, ma si sa, la politica non è solo razionalità.

Coppia di caccia bombardieri cinesi J-20

Tutto bene dunque? Fino a un certo punto. In queste ore il rischio di un incidente in mare permane e non è certo basso. Non si pensi però al lancio accidentale di un missile, al rilascio di un siluro contro un’ignara petroliera o allo speronamento volontario di una nave, ipotesi queste buone per il grande schermo. Tuttavia come ammoniva l’ammiraglio Painter in “Caccia a Ottobre Rosso”: “...avere migliaia di tonnellate di naviglio da guerra così vicine una all’altra fa venire i brividi.

Cosa succede dunque in un’esercitazione navale? In sostanza si provano schemi e procedure per le quali ci si è addestrati a terra o nelle quotidiane esercitazioni degli equipaggi e dei comandi. Cosa si deve fare, ad esempio, se si deve procedere al blocco di uno stretto? All’ispezione di una nave in navigazione? E se si deve scortare un convoglio? E come reagisce la flotta a un attacco aereo? Questi e molti altri scenari sono tutti oggetto di addestramento, di sviluppo di specifiche procedure che vengono quindi provate e affinate nel corso di esercitazioni. Per ciascuno di questi scenari ci sono uomini che si muovono, navi che si spostano, cannoni e missili che si puntano e quindi per ognuna il margine di rischio non è pari a zero. Oltre alla flotta che si sta esercitando vanno poi tenute in conto altre unità navali di altri paesi interessati a sapere e a vedere da vicino cosa si sta facendo. Accade molto spesso che unità di paesi terzi si avvicinino anche di molto alle unità in esercitazione per spiarle o anche solo per disturbo. Questo avvicinarsi può significare seguire a qualche miglio di distanza fino ad accostare a poche decine di metri. Come regolarsi in questi casi. Si ricorre alla Regole di Ingaggio che in tempo di pace regolano il comportamento delle unità navali in situazioni di rischio o di minaccia. Alcune di tali regole sono adottate in permanenza, altre alla bisogna per rispondere a specifiche situazioni. Cosa fare, ad esempio, se l’unità è illuminata dal radar di tiro di un altro battello? E se ci puntano addosso i cannoni? Per ciascuna di queste eventualità c’è una serie di comportamenti da mettere in atto che ben poco lasciano all’estro del comandante la cui unica e grave responsabilità è quella di applicarli correttamente e con buon senso. Per quello che ci è dato sapere non sembra che unità navali di Taiwan stiano seguendo da vicino le manovre e neppure quelle americane il che limita e di molto il livello di rischio.

Che bilancio possiamo infine tratte da questa “operazione militare mirata” che la Cina sta ancora conducendo al largo e attorno Taiwan? Al di là dello sfoggio di capacità aeronavali e oltre la consueta retorica, in questa crisi non sembra essere accaduto nulla di decisivo. Tanto addirittura che a Pechino qualcuno abbia fatto notare che da prova di forza questa operazione si sia tramutata in prova di debolezza.

Intanto Pechino ha battezzato la sua nuova portaerei “Fujian”, il nome della provincia che guarda l’isola di Taiwan. Vorrà dire qualcosa?

Paola BONFANTE. “UNA PIANTA NON E’ UN’ISOLA”

Questo libro di Paola Bonfante non l’ho letto, né mi è stato consigliato da uno di voi, ma ho avuto il piacere di sentirlo illustrare dall’autrice stessa a “Radio24″. Ne è uscito un racconto completo e appassionato di un mondo con cui conviviamo ma del quale sappiamo davvero poco, per non dire nulla. Pensate infatti come ciascuno di noi conosce almeno dieci razze di cani, altrettanti di gatti e magari anche di pesci ma se siamo in un giardino o in un bosco ci limitiamo a dire:”... guarda quell’albero com’è grande!

con questo libro di Paola Bonfante scopriremo che ogni albero è un sistema vitale e intelligente di enorme complessità e di grandissima “resilienza”, come va di moda dire oggi. Nella sua apparente immobilità un albero avverte i minimi cambiamenti dell’ambiente, percepisce il vento, sente l’umidità, avverte la presenza degli animali ed è capace di combattere i suoi parassiti con strategie sorprendenti. Insomma, io me lo leggo. Voi fate come volete.

Paola Bonfante – UNA PIANTA NON E’ UN’ISOLA ed il Mulino

Un po’ di bianco e nero

Credo che fotografare in bianco e nero sia rinunciare a raccontare il mondo così com’è, tentando invece di fissare ciò che il mondo imprime in noi. Insomma, una sorta di radiografia dell’anima.

I grandi fotografi, quelli bravi davvero, radiografando sé stessi attraverso la luce del mondo, hanno mostrato le loro fratture mal saldate, le lacrime mai rotolate da alcun ciglio, le loro grida senza suono, ma anche la meraviglia di essere per sempre bambini, lo stupore dell’attesa, la tenerezza d’un sedimento d’amore.

Se vi capiterà, andate a visitare le mostre dei Maestri e di tutti quei giovani e inesperti fotografi che, forse inconsapevoli, vi mostrano ferite e profumati sorrisi.