“ la vita è una danza nel cratere di un vulcano: erutterà, ma non sappiamo quando” E’ un aforisma di Yukio Mischima, poeta, intellettuale e figura controversa del ‘900 giapponese. Quando ero ragazzo la sua vita eroica, non allineata e mai ossequiosa verso quello che il suo mondo era diventato, rappresentò per molti un esempio e un riferimento. Morì suicida come la sua cultura imponeva a chi volesse evitare il disonore di una vita non vissuta e prona. Serenella, visto l’aria che tira in questi giorni, ha deciso di rileggerlo e io allargo il consiglio a tutti voi. Nello squallore c’è bisogno di eroi che illuminino il cammino e riducano le scuse a quello che sono: cenere.
Yukio Mischima “Lezioni spirituali per giovani samurai” Collana oriente di Universale Economica Feltrinelli.
Castel Sant’Elia (Viterbo) presso il Giardino Sant’Heliae. Notte d’estate. foto p.Capitini
Me ne stavo seduto su una panca di tufo giallo, di quelle che hanno dentro i pezzi del vulcano che le partorì e ne conservano ancora il calore, specie nelle notti di estate. Accanto a me il tronco di un alloro, liscio, grigio e durissimo, mi dava appoggio. Non si toccano sovente i tronchi degli alberi, come si avesse paura a sentirli vivi mentre sollevano al cielo la loro ballerina di foglie leggere. Me ne stavo dunque lì, seduto sulla mia panca di tufo, sgranando uno spigo di lavanda, annusandomi di tanto in tanto le dita e aspettando.
“Lei dunque … Ha perduto il treno?“…
“Per un minuto, sa? Arrivo alla stazione, e me lo vedo scappare davanti.“…
Improvviso lo spettacolo era iniziato: senza sipario e senza applausi. Appoggiato al tronco del mio lauro, annusandomi le dita che sapevano di lavanda, attesi che le parole arrivassero a bagnarmi i piedi, come fanno le onde basse i primi giorni della villeggiatura, quando ancora non ci fidiamo del mare.
foto p.Capitini
I due attori se ne stavano seduti su un palcoscenico di due metri per tre, appoggiato ad una grande parete tagliata nel tufo da chissà quale fulmine. Sopra quel fazzoletto di legno, sbucciavano le parole di Pirandello offrendole a noi con delicatezza, come si usa con i bimbi. Era dal tempo del mio liceo, molti anni e sogni fa, che non ne assaggiavo più una.
L’uomo dal fiore in bocca sbucciò le ultime sue raccomandandomi di trovare il primo cespuglietto d’erba su la proda. E di contarne i fili per lui. Quanti fili saranno, tanti giorni ancora avrebbe vissuto. Prima che potessi promettergli che l’avrei senz’altro fatto un grosso pipistrello entrò in scena, ci sorvolò e se ne rientrò nel buio del bosco, dando appena il tempo al dottor Leandro Scoto di salire sul palco grande come una porta a reclamare la sua immortalità.
foto p.Capitini
L’ultimo chicco di lavanda cadde a terra. Mi chianai allora verso la siepe di rosmarino che separa la panca di tufo giallo dalla minuscola platea. Ne afferrai un rametto schiacciandone gli aghi con i polpastrelli. Adesso le mie dita sapevano di lavanda e di rosmarino e le parole dei personaggi anche. Già perché anche le parole hanno un profumo e un peso, una consistenza e un sapore. Quelle di Pirandello stasera sapevano di lavanda e rosmarino ed erano tiepide; tiepide come il tufo scaldato dal sole.
Salirono quindi il dottor d’Andrea , stanco giudice di una remota Pretura e con lui il signor Rosario Chiarchiaro che esigeva gli fosse rilasciata la patente di iettatore. Anche loro avevano parole che mi bagnavano i piedi.
Guardai alla mia sinistra, oltre la siepe e la linea lontana degli alberi, un venticello fresco e umido stava risalendo la forra. Tra le pale del fico d’india s’era appoggiata una luna rossa e tonda, come il tuorlo di un uovo. Il tempo di volgere di nuovo il capo e le parole erano finite. Erano forse rientrate nella valigia o s’erano nascoste tra i segni ordinati e domestici delle lettere che da bambino avevo imparato a conoscere. Povere parole, addormentate nelle righe dei libri.
Sul palco di questo minuscolo teatro, i due attori s’inchinarono e presero i loro applausi senza però spiegarci con quale trucco le avevano risvegliate.
Questo titolo ve lo suggerisco per un…ascolto. Ero infatti in macchina, sintonizzato su RADIO24 e la conduttrice intervistava Ilaria Tuti, l’autitrice di questo romanzo. E m’è piaciuta. La storia prende lo spunto da un fatto vero: un ospedale sul fronte di guerra delle Fiandre durante la Prima Guerra Mondiale. Ci lavorano solo donne. Donne sono i chirurghi, i medici, le infermiere, il personale. Lo crearono nel 1914 due inglesi: Flora Murrey, anestesista, e Louisa Garret Anderson, chirurga e lavorò per tutta la guerra. Il racconto prosegue tra le vicende di altri personaggi, alcuni veri, altri di fantasia che completano il tema del romanzo: le donne e la loro capacità di preservare caparbiamente la vita, l’ostinazione materna nel migliorare. Insomma credo sia un bel libro. Se qualcuno l’ha già letto, fatemi sapere come l’avete trovato.
Ilaria Tuti – “Come vento cucito alla terra” Ed. Longanesi
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