PARIGI – “La Defense” – 14 Luglio 2016

Sul grande viale di cemento che l’attraversa c’è una statua in bronzo mezza nascosta. Raffigura una ragazza un po’ in carne con in testa una corona repubblicana che si appoggia ad un cannone. E’ la Defense, il monumento che i parigini si sono dedicati per la loro resistenza durante la guerra franco prussiana del 1870 e che da il nome a questo quartiere modernissimo e affascinante e l’Europa produce questo: la capacità di reinventarsi e di pensare ad un futuro diverso, che non replichi necessariamente un passato confortevole. C’è però qualcosa che gli europei si portano dietro da sempre; il senso della loro appartenenza ad una famiglia, poi ad una tribù infine ad un popolo e ad una nazione. Un europeo capisce istintivamente qual è il suo gruppo e quale è il gruppo a lui estraneo e a questi contrasti abbiamo sempre dedicato monumenti e costruito politiche. La storia degli ultimi settanta anni ha voluto convincerci che queste differenze non esistono e quand’anche esistano sono qualcosa di brutto. E ci abbiamo anche provato, da bravi scolaretti, ad imparare la lezione dandogli il nome di apertura, di integrazione di globalizzazione e di ogni altra …zione possibile, ma in fondo siamo sempre rimasti quelli che erigono monumenti per la vittoria sul nemico. E il nemico è sempre uno straniero. Milioni di persone che abbiamo accolto in nome di quei sentimenti si stanno rendendo conto che semplicemente non saranno mai come noi, o almeno non lo saranno nell’arco della loro vita. Non avranno mai un cancelliere della repubblica, un principe ereditario, il comandante dell’esercito, insomma non gestiranno mai il territorio che li ha accolti ed a qualcuno questa mancanza di prospettiva genera disperazione e rabbia. Non è un fenomeno esterno, non è un virus o un batterio sociale che ci aggredisce dalla Siria o dall’Afghanistan, certo esistono anche quelli, ma quello di Nizza ieri, di Parigi e Bruxelles quest’inverno sono neoplasie della nostra società. Siamo noi stessi che le generiamo e siamo destinati a conviverci con l’unico conforto che, malgrado tutto, siamo ancora in grado di immaginare, di sognare e, cosa non comune, di realizzare i nostri sogni senza distruggere necessariamente quelli degli altri.

I SEGRETI DI SANT’ORESTE

La vedi da lontano, la montagna di Sant’Oreste. Sembra che il Padreterno l’abbia appoggiata là, in mezzo alla piana del Tevere, in attesa di trovargli un posto più adatto. Roma è 40 chilometri più a sud, ma da quassù è un’idea lontana. E’ un luogo solitario, Sant’Oreste; una tana d’eremiti; un posto insomma per gente di montagna. Tuttavia, come spesso accade dalle nostre parti, non tutto è come sembra. La montagna nasconde infatti un cuore misterioso che oggi è possibile visitare grazie all’intelligenza organizzativa e alla passione dell’Associazione Bunker Soratte che da alcuni anni si dedica al ripristino e alla valorizzazione di questo luogo. Già, perché sotto gli ulivi e gli eremi millenari, il Soratte nasconde chilometri e chilometri di gallerie e di bunker. Migliaia di tonnellate di cemento e ferro per realizzare, già a partire dal 1937, la sede protetta del governo fascista. Non si sa mai! Neppure sei anni dopo, il 13 settembre 1943, il rifugio segreto di Mussolini sarebbe diventato il comando del feldmaresciallo Kesselring, un bavarese dal viso buono e dalla risata serena che, dopo l’8 settembre, comandava l’intero esercito tedesco in Italia. Dalle sue gallerie partivano gli ordini destinati al fronte di Cassino e alle divisioni tedesche che accerchiavano gli americani ad Anzio. Questo per dieci mesi. Poi la guerra era passata diretta al nord e Kesselring si era spostato, non prima però di aver incendiato il “suo” bunker. Nel 1947, appena due anni dopo quella calda, era iniziata una nuova guerra, stavolta fredda. Qualcuno si ricordò allora del Soratte e dei suoi bunker. Era il posto ideale per proteggere il presidente della nuova repubblica e il governo dagli effetti di una bomba atomica su Roma. Passarono gli anni, tanti e con essi anche la bomba all’idrogeno, il patto di Varsavia, la cortina di ferro passarono. Nel 1989 migliaia di piccole Trabant color pastello avevano deciso che con i blocchi e il socialismo reale si poteva anche finirla lì e di bunker e guerra furono in pochi a voler sentire ancora parlare. Oggi per chi ha curiosità storiche o anche vuol vivere un emozione, consiglio un giro al Bunker. Troverete tutte le informazioni sul sito dell’Associazione Bunker Soratte.

“Assolutamente!”

(foto p.Capitini)

Buona giornata, superio’…”

 le sue parole rimbalzarono oltre la soglia del carcere dove un bel sole di primavera lo attendeva caldo. Solo lui.  “Ci si dimentica presto dei morti, dei carcerati e dei marinai” pensò tra sé e sé, gettando un’occhiata indifferente alla fila dei parenti in attesa della visita detenuti.

Appiccicato al vetro dell’ingresso un cartello scolorito avvertiva che “…fino a nuove disposizioni SONO SOSPESI I COLLOQUI VISIVI CON I DETENUTI, ai sensi del d.p.c.m. del 9/3/2020 recante…. l’emergenza epidemiologica da COVID-19….” A suo tempo l’avevano affisso con un doppio giro di scotch marrone, quello che si usa per i pacchi e che non ti fa mai trovare l’inizio. come se per la Direzione avrebbe dovuto durare per l’eternità o forse era la solita mania dei secondini di bloccare tutto e tutti. C’avevano pensato i mesi a scolorirlo.

Con passo rilassato si diresse verso la stazione “Rebibbia” poco distante. La città era da qualche parte alla sua destra, oltre lo stradone che la pugnalava. Ogni periferia è un luogo triste, anzi un insieme di non-luoghi ma quella romana lo è in modo particolare, ma l’insieme di cassonetti strarimanti, palazzi bulgari, macchine insabbiate e topi schiacciati non riuscivano a intaccare la leggerezza di poter camminare in una direzione stabilita da lui stesso. Poteva andare a destra, oppure a sinistra, tornare indietro, correre, strisciare, saltare o camminare all’indietro. Era di nuovo libero. Da quel momento in poi non ci sarebbero più stati superiori, biciclettari, infami, schiavettoni e appelli. O almeno così sperava.

Di fronte al metrò lesse di nuovo “Rebibbia”e decise che di quel nome ne aveva avuto abbastanza. S’incamminò allegro verso “Ponte Mammolo”, la successiva.

Come tutti quelli con cui aveva condiviso il tempo sospeso della galera anche lui era stato ingabbiato ingiustamente. Il popolo italiano, in nome e per conto del quale il giudice aveva parlato aveva visto gli articoli 582, 588, 337 e qualche frattaglia del codice penale di cui ignorava l’esistenza e l’aveva riconosciuto colpevole. Fine dei giochi.

Per fortuna non gli era stato riconosciuto l’articolo 56 – tentato omicidio – e questo gli aveva fatto guadagnare una condanna a soli otto mesi e 12 giorni più il pagamento delle spese processuali. Tuttavia lui non si era mai considerato un colpevole.  E lo pensava ancora.

La sua non era di quelle condanne che in carcere ti fanno far carriera. Per intenderci niente associazione di stampo mafioso, omicidio plurimo, rapina a mano armata e neppure truffa o furto con scasso. Tuttavia lesioni gravi, rissa e resistenza a pubblico ufficiale lo catalogavano come uno a cui era meglio non rompere troppo le palle e questo gli aveva consentito di farsi la sua galera in una tranquilla aurea mediocritas.

Dopo quasi otto mesi era comunque cosa passata. Ormai era un liberante.

Era stato rieducato? Si era pentito di aver procurato tanto dolore? Né l’uno, né l’altro. Però aveva imparato a giocare a poker anche barando, faceva un caffè da premio oscar e sapeva ascoltare senza giudicare. Là dentro di cose e di persone già giudicate e mute ce n’erano molte. Tutta gente a cui la vita s’era presentata subito con un calcio in culo, vuoi perché si era nati sulla riva sbagliata del Mediterraneo, vuoi perché si era convinti che esistessero scorciatoie al benessere o solo perché si era stati innamorati della persona sbagliata. Insomma erano i “devianti”, gente che dopo aver accarezzato la vita contropelo ora parlava più con gli occhi che con la voce. E questa per lui era una grandissima qualità.

Era un mondo quello della galera che nulla aveva a vedere con il fuori, ad iniziare dall’odore; un mix di candeggina, piscio, tabacco, sudore e minestrone al quale talvolta si univano le note di qualche profumo costoso o il rancido di ascelle mai lavate. E poi c’erano i suoni e l’assenza di un vero silenzio. Sembrava di vivere nella stiva di una nave dove di tanto in tanto arrivava il tintinnare metallico di qualche chiavistello o lo sbattere cavernoso di una porta. Da quando poi i superiori vestivano come le guardie giurate non se ne sentivano più i passi lungo il corridoio centrale. Gli scarponi neri dalla suola di gomma li avevano trasformati in tanti gatti e questo non era sempre una buona cosa. Peggiore della puzza di galera, dei secondini, del caldo e del tempo bruciato era però la musica. Da tempo la comunità maghrebina di spacciatori e pugnalatori aveva perso la guerra contro i napoletani e per tutto il giorno era un trionfo di neo-melodici con tanto di coro partecipato. Questo secondo lui ben inquadrava il concetto di pena afflittiva.

Ma ormai anche questo non aveva alcuna importanza. Lui era fuori.

(foto p.Capitini)

 “Certo che sei stato davvero un pirla a farti ingabbiare per una cazzata simile”. Finiva sempre così quando capitava che raccontasse la sua storia. Lì dentro c’era gente che aveva fatto del crimine un mestiere e della galera un infortunio sul lavoro e altri che avevano liberato la bestia che vive in ognuno e che ora passavano il tempo a cercare di capire cosa non avesse funzionato. Lui era diverso. Era un uomo di principi. Principi del cazzo certo, ma pur sempre principi.

Il fatto era che lui amava le parole o meglio le rispettava, più e meglio delle persone. Non le aveva mai considerate un’emissione di fiato, un esercizio canoro, uno strumento per scassinare l’altrui buonafede. Per lui le parole portavano il vero.

Immaginava che la verità, per una sua magia divina, si appoggiasse alle sillabe, si avvinghiasse alle vocali, si stringesse alle consonanti e via…volasse verso l’orecchio di chi stava ascoltando e da lì al cervello o al cuore. Gravate di una simile responsabilità non potevano essere sparate a vanvera o, peggio ancora, buttate là senza alcun significato.

Non ricordava da quando aveva iniziato a pensarla così, ma era passato tanto tempo da quando aveva deciso che non avrebbe più fatto fatica a capire che cosa l’altro volesse dire, a leggere tra le righe, a interpretare, a chiedere spiegazioni. Vuoi dirmi qualcosa? Trova la parola giusta, appiccicaci un verbo in un modo e in un tempo appropriato, magari sparaci anche un paio di aggettivi e un avverbio e poi parla. Non ci voleva poi tanto, no?!

Viveva invece immerso in una cloaca dove galleggiavano “momentini”, “benaltri” e “caro” che una mignotta non avrebbe saputo pronunciare con maggiore disprezzo. Su tutti però se ne imponevano due che trovava irresistibili: il primo era “assolutamente”, buttato lì come se SI e NO fossero stati aboliti da apposito referendum. Il secondo era “amo’ “, sostantivo tronco bivocalico la cui improvvida pronuncia da parte di chiunque comportava l’immediata dipartita di ogni autentico sentimento amoroso. Erano appunto le parole che l’avevano portato là dentro. Le parole e anche la necessità di trovarsi e mantenere un lavoro qualsiasi.

Era stata la necessità di trovare uno straccio di lavoro con cui barattare denaro con sopravvivenza che tre anni prima lo aveva portato a sedersi a un tavolino di un bar nel centro di Roma.

Aveva appuntamento con un tale di nome Sergio o Giorgio – il cognome lo troverete negli atti del processo – che aveva messo un annuncio su “porta portese” per un lavoretto facile di cui non ricordava più i dettagli. Ricordava però che Sergio, o Giorgio, gli aveva chiesto di vedersi in quel posto.  “È vicino al mio ufficio” – aveva detto – “ ma si trova sempre parcheggio, stia pure tranquillo”. Quella frase buttata lì l’avrebbe dovuto insospettire visto che a Roma non si trova parcheggio neppure nel tuo di garage, figurarsi a Prati, crocevia mondiale di avvocati, clienti del tribunale, turisti vaticani, clienti in cerca di saldi e altra umanità automunita. Aveva comunque deciso di andare e ora se ne stava seduto già da un quarto d’ora a un tavolino in metallo simil-Provenza con piano in marmo decorato da aloni di caffè zuccherato.

Era sempre in anticipo. L’idea di essere in ritardo lo faceva infatti piombare in un ansia nera che lo avrebbe messo di pessimo umore per il resto della giornata. Aveva quindi volteggiato come un condor per oltre tre quarti d’ora alla ricerca di un parcheggio e infine aveva trovato un buco tra un cassonetto strapieno e un divieto di sosta sbilenco che però poteva essere interpretato. Aveva pagato il ticket per quel parcheggio immaginario sperando che l’eventuale ausiliario del traffico l’avrebbe considerato un gesto di buona volontà evitandogli i 41 euro della multa.

Stava osservando il piccione che impudente razzolava da un po’ tra le gambe sbilenche del tavolino quando lo vide arrivare. Sergio, o Giorgio, era in ritardo di oltre venti minuti.

qualche problema?” Domandò con un velo di ironia che Sergio-Giorgio non colse.

Assolutamente” rispose candido.

Un brivido gli percorse la schiena. “Cazz…eccone un altro degli assolutamenti”.

Decise comunque di passarci sopra. Aveva bisogno di un lavoro e Sergio-Giorgio poteva offrirgliene uno. Dopo tutto “Parigi val bene una messa”.

Ordiniamo qualcosa ?” propose tanto per nascondere il fatto che aveva iniziato a indispettirsi.

assolutamente” replicò di nuovo Sergio-Giorgio senza staccare gli occhi dal culo di una ragazza americana ferma al bancone. Un’altra stilettata attraversò il cuore che prese a battere più forte e un leggero velo di sudore gli imperlò la fronte.

Che prennete?” Domandò la solita, sgarbata cameriera romana che non sarebbe sopravvissuta dieci minuti in un bar di Padova.

una coca” lo prevenne Sergio-Giorgio. “Ce vole ‘l ghiaccio?” chiese annoiata.

Assolutamente”. Terzo colpo. questa volta mortale.

(foto p.Capitini)

Fu in quel momento che una rabbia nibelungica s’impossessò di lui. Per un attimo si sforzò di dominarla ma tutto dal cervello, al cuore, a tutto il corpo gli ripeteva in un coro polifonico “Assolutamente che? Assolutamente si o assolutamente no?”

Sorrise rassegnato, Sergio-Giorgio rispose sorridendo a sua volta, senza capire. Si piegò leggermente in avanti, protese entrambe le mani verso Sergio-Giorgio, gli avverrò saldamente le ciocche dei capelli e iniziò a sbattergli la testa sul marmo del tavolino stile-Provenza.

A-S-S-O-L-U-T-A-M-E-N-T-E   che? Brutto stronzo ritardatario!” continuava a chiedere pacatamente mentre SErgio-Giorgio tentava di liberarsi da quel demone vendicatore.

Il rumore della testa di Sergio-Giorgio che ritmicamente impattava contro il marmo fece girare tutti gli altri clienti senza che però nessuno muovesse un dito. Alla quinta o sesta capocciata Sergio-Giorgio riuscì infine a liberarsi. Aveva il viso coperto di sangue, forse aveva perso un paio di denti e anche l’arcata sopraccigliare destra era messa male. Sergio-Giorgio lo guardava sbigottito mentre il sangue colava sulla camicia celeste e la bocca aveva iniziato a dolergli in modo insopportabile. Era più che sufficiente, “assolutamente” era stato vendicato ed era ovvio che ormai di lavoro non avrebbero più parlato. Stava dunque per alzarsi e andarsene quando la coatto-cameriera guardò Sergio-Giorgio negli occhi e urlò al padrone del bar “ Chiama i carabbinieri, questo è mmatto”.

Qualche volta viene da chiedersi se qualcuno in un mondo parallelo faccia scommesse su di noi. Non c’era altra spiegazione se non questa al fatto che Sergio-Giorgio, tra le centinaia di opzioni possibili, compresa quella di tacere, rispondesse ancora “assolutamente”. Sospirò deluso e via con altre botte, calci, pugni poi carabinieri, insulti, ancora botte e quindi manette. Tutto questo, dal popolo italiano e dal giudice che parlava in sua vece, era stato considerata non un’azione in difesa del decoro verbale ma una violazione dell’articolo 582, 588 e 337 codice penale. L’unica soddisfazione era stata che per tutto il processo Sergio-Giorgio non aveva mai; mai una sola volta pronunciato la parola “assolutamente”. Mai.

Ma tutto questo era ormai il passato. La primavera e il sole caldo lo accompagnavano mentre camminava sereno verso il metrò stazione Ponte Mammolo.

In quel preciso istante lo assalì una voglia irrefrenabile di cappuccino e cornetto. Il Bar da Ezio era lì, provvidenziale. “Un cappuccino e un cornetto, grazie” ordinò. “Ce li hai ai frutti di bosco” aggiunse. “assolutamente” rispose il barista e immediatamente un odore di candeggina, piscio, tabacco, sudore e minestrone lo avvolse.