Moni Ovadia

L’avevo incrociato tanto tempo fa in una delle trasmissioni che la RAI manda in onda per le guardie giurate e i malati di insonnia. Forse a quel tempo aveva meno dei settantacinque anni di oggi, ma allo stesso modo mi era rimasto impresso il suo modo appassionato di raccontare le cose. Parlava con una voce un filo rauca, in apparenza rabbiosa. L’accento lievemente milanese- così efficiente e moderno – strideva con la barba curata e i lunghi capelli bianchi da mistico russo. Lo zuccotto di tricot dava poi al tutto un’aria da irriducibile figlio dei fiori. Quella volta aveva recitato un breve passo di Ugo di San Vittore, a me sconosciutissimo religioso dell’anno 1000. Parlava della capacità di stare al mondo e, soprattutto della leggerezza e dell’attenzione con cui un uomo saggio dovrebbe vivere il suo passaggio.Ieri sera, finita la trasmissione, mi sento chiamare. Mi giro e in mezzo al corridoio c’era lui; la stessa barba, gli stessi capelli e spero un diverso zuccotto di tricot. “Buonasera” – mi dice – “parliamo un po’ io e lei”. E per qualche minuto parliamo e parliamo, discutiamo e concordiamo. Poi gli racconto della sera che l’avevo visto alla TV per nottambuli e di quelle parole di oltre 1000 anni fa. “Si ricorda ancora?” Mi chiede sorpreso. “Si, mi ricordo bene come si ricorda un consiglio prezioso”. Mi sorride, prende un respiro, chiude un attimo gli occhi come cercasse quelle parole in un qualche cassetto nella memoria e poi Moni Ovadia le recita per me, pubblico di una sola persona. “L’uomo che trova dolce la sua patria non è che un tenero principiante; colui per il quale ogni terra è come la propria è già un uomo forte; ma solo è perfetto colui che si sente straniero in ogni luogo”.

Parigi, aprile 2015

Parigi ti cattura sempre l’occhio. La sua strana magia ti schiaffeggia improvvisa con una mano monumentale, ma subito ti consola con particolari minuti, quasi infantili: un colore, un fiore, il fregio su un ponte o lo sbadiglio di un gatto.

Elegante e sudata ad ogni passo ti ricorda come una città possa essere seducente e allora negli angoli dove ristagna il puzzo dell’urina, Parigi mette un mercatino di fiori o ti fa arrivare le note di un pianoforte nel vociare indistinto di una stazione.

Qui ragazze bionde dai volti bellissimi e dagli occhi di lupo si mischiano a neri monumentali e sfaccendati o a magrebini dall’aria truce. Inutile carne senza nome. Li ritrovi nei musei, fissi sui Samsung a gettare un’occhiata fugace al capolavoro di turno; uno sfondo per l’immancabile selfie.

Le pietre pazienti di questa come di tutte le altre città nel loro tempo dilatato si permettono il lusso aristocratico di ignorare la nostra cadùca biologia che brulica ai suoi piedi.

Mentre cammino lungo il Canal Saint Martin o il Boulevard de Sebastopol guardo tutti quei visi. Inutili come il mio. Occhi vuoti e bocche che parlano di amori, rabbie e speranze. Tutto si confonde nella rapida parabola di qualche respiro, ma Parigi ostinata ti mette davanti la bellezza, l’insolito, il genio di pochi e la sapienza artigiana di molti.

Parigi ha fiducia che prima o poi qualcuno se ne accorgerà.