… più facile che… ragionare. Breve viaggio nel delirio europeo.
È passato qualche giorno dalla figuraccia in mondo visione del colloquio Trump-Zelensky a Washington, il tempo minimo per tentare una riflessione.
Primo fatto: l’uscita di scena di Zelensky è già nell’aria da diversi mesi e come tutti i Capi il Presidente ucraino non ha alcuna intenzione di essere un Ex. Potrebbe essere stato il sentore dell’imminente fine politica o la consapevolezza della irrilevanza nel dibattito sul futuro dell’Ucraina a spingerlo a forzare i toni proprio nel sancta sanctorum del potere americano: lo studio ovale della Casa Bianca. Di certo Trump, Vance e tutto l’establishment repubblicano non l’hanno presa bene, soprattutto quando Zelensky ha prospettato per gli Stati Uniti – per ora protetti dall’oceano- un futuro di insicurezza e debolezza qualora la Federazione Russa non fosse stata seriamente arginata o sconfitta.

A qualche giorno dai fatti appare sempre più evidente come Zelensky sia rimasto fermo alla puntata precedente della serie “Noi e l’Ucraina”. Nella prima serie i protagonisti al di là dell’oceano erano Biden e i neo-conservatori, sostenitori- senza se e senza ma – della strategia dell’overstretching Russia e certi del suo collasso finale. Si trattava in vero di una strategia che aveva preso le mosse già al tempo della presidenza Clinton e che si basava sull’idea che obbligando Mosca ad una serie di impegni eccedenti le sue capacità economiche e militari, questa avrebbe finito per implodere, magari dando vita a una sorta di big-bang post sovietico dal quale sarebbero nati altri piccoli e deboli stati, poveri e in perenne conflitto tra loro, di certo non più in grado di impensierire nessuno.
Per Biden e i neo-conservatori americani più che un sogno questo rappresentava l’obiettivo di lungo periodo su cui orientare le operazioni nel breve e medio termine. Da questo scenario è dunque derivata la narrativa che voleva la Russia inevitabilmente sconfitta dall’Ucraina alla quale l’Occidente non avrebbe mai fatto mancare il proprio aiuto finanziario e militare. A questo si aggiungeva l’atto di fede collettivo sull’efficacia mortale delle sanzioni occidentali le quali ne avrebbero accelerato il collasso economico-industriale russo, fomentato ampie rivolte interne, culminando con la cacciata di Putin.

Negli anni ’40 il disegnatore Gino Boccasile rappresentava un soldato italiano in prima linea che, allungando la mano nuda verso l’osservatore, chiedeva imperiosamente armi e munizioni per continuare a combattere e a vincere. Lo stesso ha fatto Zelensky fin dall’inizio della guerra. Badate bene, Zelensky e il governo ucraino erano nel loro pieno diritto se non addirittura nel dovere morale di chiedere aiuto a chiunque, diavolo compreso, pur di difendere il proprio paese invaso. Tuttavia questo non avrebbe dovuto offuscare Kiec dal vedere come la resistenza e la difesa del Paese fossero completamente nelle mani americane e in misura minore, europee.

Fin quando la narrativa generale americana ed europea ha continuato a cantare la sicura sconfitta russa, gli a-solo di Zelensky, s’inquadravano armoniosamente nella sinfonia generale. Ma quando a novembre scorso Trump ha travolto i Democratici insediandosi come 47° presidente degli Stati Uniti la musica è cambiata e di molto.
Preso atto che l’idea di far collassare la Russia era per lo meno prematura e guardando al fatto che, malgrado ingentissime perdite, Mosca era ancora in offensiva, Trump ha pensato bene di limitare i danni chiudendo velocemente quel fronte, intavolando trattative dirette con Putin, mollare l’Europa e tenersi pronto per il nuovo scenario indo-pacifico che Washington considera – a torto o a ragione – il cuore del problema di sicurezza nei prossimi 40 anni.

Come un musicista che ha perduto un foglio di partitura, Zelensky non si è però accorto del cambio di musica e ha continuato a suonare lo stesso motivetto che andava così bene ai tempi di Biden. Peccato che il direttore e lo spartito fossero cambiati. Tornato in patria qualcuno ha comunque fatto presente al Presidente che l’aria era cambiata e che se voleva rimanere a galla ancora un po’ doveva rapidamente scendere a più miti consigli. E così è stato. Zelensky s’è detto infatti pronto firmare qualunque accordo sulle terre rare gli fosse stato proposto dall’amministrazione Trump, che ci fossero o meno garanzie di sicurezza che per lui volevano dire missili, munizioni e aerei.

È possibile se non addirittura probabile che qualcuno a Kiev o a Londra gli abbia fatto presente che le garanzie che andava cercando erano proprio lì, all’interno del patto delle terre rare. Cosa proponeva infatti Trump? Basta cannoni, missili, HIMARS, F16 e copertura satellitare. Al loro posto gli USA avrebbero aperto una serie di imprese estrattive nel Donbas ucraino o in quel che ne restava e forse anche in quello occupato dei russi, immaginando che una volta avviati investimenti per milioni e milioni di dollari e con la presenza in loco di molto personale americano ben difficilmente la Russia avrebbe ripreso a sparare. A maggior ragione se le nuove imprese a stelle e strisce avessero generato profitti anche per Mosca oltre che per Kiev. Qui occorre una piccola precisazione, anzi due, ma procediamo per gradi.
Un contratto 50-50 tra Kiev e Washington è estremamente vantaggioso, ma per Kiev. Se guardiamo infatti ad altre concessioni simili in giro per il mondo chi ci mette i capitali, le apparecchiature, le infrastrutture , i mercati, il trasporto e il personale – in questo caso gli USA – entra con una quota che varia dal 70 al 90%. Nell’accordo proposto da Trump ogni 100 dollari di utili, 50 dovrebbero invece andare nelle casse di Kiev, e non è poco.

La seconda precisazione riguarda non solo le terre rare, ma anche l’intera rete infrastrutturale e produttiva ucraina. Con un accordo segreto (ma non così tanto) con la Gran Bretagna pre-Starmer, il presidente Zelensky si è impegnato a cedere gran parte della ricostruzione delle infrastrutture post-belliche del paese a Londra la quale sarebbe poi entrata come socio di maggioranza negli utili generati. E questo per molti decenni da oggi. Stati Uniti e Gran Bretagna si sarebbero quindi già divisi – favorevoli gli stessi ucraini – gran parte della nuova Ucraina post-bellica, almeno sotto il profilo economico e produttivo
Qualcuno si chiederà a questo punto cosa toccherebbe al resto dell’Europa in termini di rientro dalle ingenti spese sostenute. Poco o nulla. Poco se si è la Germania, la Francia o la Polonia. Quasi nulla se si è l’Italia.

Se la situazione è quindi di un leader nazionale che è ad un passo dall’essere buttato fuori da ogni trattativa; di due nazioni leader – USA e Gran Bretagna – che per un verso o per l’altro gestiranno a loro esclusivo vantaggio il dopo guerra; delle Russia che, almeno per qualche decennio, resterà là dov’è e magar riuscirà anche a cavar fuori da quella mezza vittoria ottenuta in Donbas molto più di quanto si aspettasse, in primo luogo la riammissione tra il ristretto consesso delle super-potenze, la fine delle sanzioni e, forse, un riequilibrio del suo rapporto con l’amico indefettibile, cioè la Cina. Se dunque la situazione è questa è lecito guardare a questa Europa come un fattore pertinente ed attivo della partita. La risposta è no e per una serie di motivi.
Il primo è la pochezza della classe dirigente europea e dell’entourage di consiglieri, advisor, consulenti ed esperti che la contorna. L’Unione Europea già di per se è un’istituzione gracile, cresciuta all’ombra degli USA e nell’umido della finanza, senza mai essere illuminata dal sole della politica. Se poi questa pianta viene data in mano non a sapienti giardinieri in grado di prendersene cura ma a una pletora di burocrati che vede il mondo solo in termini di dare e avere, di conti, interessi compositi e di miliardi, il risultato è quasi scontato.

Un’Europa di ragionieri che guarda sgomenta a quello che percepisce essere il primo, grande cambiamento mondiale, dalla caduta dell’Unione sovietica, ma che non riesce a interpretarlo in alcuna chiave politica, solo economica. Ecco allora il piano Van der Leyen da 800 e rotti miliardi. Qualcuno ha visto uno straccio di disegno strategico a medio lungo termine? A parte Macron che vede i russi già a Chamonix, qualcuno ha presentato ai popoli europei una realistica descrizione della possibile e probabile minaccia? No di certo. E in assenza di uno straccio di strategia quali tipi di armamenti si dovrebbero acquistare e da chi? E quali linee relative all’organizzazione delle forze dovrebbero essere seguite. Qualcuno ha poi fatto cenno a quali dovrebbero essere le priorità? Che ne so, puntiamo prima di tutto sull’Aeronautica oppure sui missili e aspettiamo per i carri armati o viceversa. Nulla. Il dilettantismo e la trascuratezza con cui si trattano le delicate questioni di sicurezza sono sconcertanti. L’unica cosa che si comprende è come in assenza di ogni forma di politica questa Europa è in grado solo di mettere mano al portafoglio; tanto per fare qualcosa.

Dietro ai vetri a specchio dei palazzi di Bruxelles si deve nutrire davvero una gran paura di questo termine – politica – visto che le strampalate decisioni vengono prese alla rinfusa volando sopra al parlamento europeo, ai governi nazionali per non parlare di un minimo coinvolgimento dei popoli d’Europa. Van der Layen & Co. sembrano, infatti, non sentirsi investiti di alcun mandato, ma piuttosto temporanei proprietari del vapore e perciò autorizzati a fare quel che meglio credono. In questo delirio di oche spaventate, ad esempio, ci tocca sentire l’Alto Rappresentante per la Politica Estera, Kaja Kallas che a Washington, tre giorni fa, ospite di un convegno organizzato dall’Hudson institute se ne esce con:”…se l’Europa non può sconfiggere la Russia, come può pensare di sconfiggere la Cina?”
Sconfiggere? La Russia? La Cina? Ma qualcuno ha chiesto a questa intemerata signora in nome e per conto di chi sta parlando? Si rende forse conto la Giovanna D’Arco che Russia e Cina non sono nemici e che, soprattutto, hanno una scala di potenza superiore a quella europea di almeno due ordini di grandezza? E si rende conto che quelle parole in bocca ad un ministro degli esteri o suo simulacro sono una bestemmia? In apparenza no.

La possibile spiegazione di tutto questo – oltre alla pochezza della classe dirigente europea – è che oltre a non sapere cosa fare essa sia ancora rimasta al vecchio spartito, quello che vedeva la Russia implodere, l’Europa trionfare e l’Ucraina riprendersi tutto il maltolto. Insomma, Zelensky e Von der Leyen stanno cantando una canzone che neppure il maestro d’oltreoceano ha più nel repertorio. È tempo di ripensare con attenzione a che tipo di comunità vogliamo e possiamo permetterci e di che tipo di persone possono essere in grado di guidarla. Oggi siamo tutti seduti allegramente su questo pullman che, tornante dopo tornante, caracolla per una strada di montagna. Ah, dimenticavo, alla guida c’è uno scimpanzé.