GUERRA RUSSO-UCRAINA – primo anniversario (prima parte)

Il 26 maggio 1896 nella chiesa della dormizione al Cremlino, veniva incoronato Nicola II Romanov, l’ultimo zar di tutte le Russie.

A quel tempo, come al nostro, di Russia non ce n’era infatti una sola. Certo, c’era la Grande Russia, quella per intenderci di Mosca e San Pietroburgo, ma poi c’era la Russia Bianca di Minsk e laggiù, più a sud, la Piccola Russia di Kiev.

Quasi 130 anni sono passati da allora. Nicola II fece una brutta fine e anche ai suoi successori sovietici non toccò maggior fortuna, ma su una cosa Nicola II, Stalin, Breznev e ora Putin si sarebbero trovati d’accordo: la grande Madre Russia, per essere tale, deve comprendere la Grande, la Bianca e la Piccola Russia, vale a dire l’Ucraina. Questo è il punto di partenza scelto per ripercorrere gli antefatti di questa guerra che oggi compie un anno e che, se non si cerca di ricordare cosa è accaduto prima, rischia di restare incomprensibile.

Malgrado le radicate convinzioni dei vari Zar e Segretari del PCUS, negli ultimi cento anni metà degli Ucraini si siano ostinati a immaginare la grande pianura a nord del Mar Nero come una Patria a sé, non una piccola Russia, ma una terra a parte: le loro.

Evoluzione storica dei territori che compongono l’Ucraina (fonte WEB=

A ben guardare le realtà geopolitiche dell’Ucraina sono state, e sono tutt’ora, quattro: l’Ucraina occidentale, mitteleuropea, asburgica e germanofila di Leopoli, quella orientale russofila e panslavista di Kharkiv a cui si affiancano l’Ucraina centrale con capitale Kiev e le grandi distese dell’Ucraina meridionale a cavallo del grande fiume Dnepr che oltre al Donbas racchiudono anche tutta la fascia litoranea al Mar Nero.

Per tutto il XX secolo entrambe le Ucraine principali, quella orientale e quella occidentale, hanno tentato di fagocitare le rispettive “sorelle separate” per dar vita a una “Grande Ucraina”. Ogni volta che uno di questi progetti tentava di mettere le ali trovava però qualcuno dei suoi bellicosi vicini, vuoi l’Austria-Ungheria, vuoi la Russia sovietica, vuoi la Polonia, disposto a scatenare una guerra per impedirlo. La storia politica dell’Ucraina è quindi una storia di impossibili fughe e di incredibili massacri. Quello iniziato il 24 febbraio dello scorso anno non è che l’ultimo.

Come nella filastrocca di Branduardi a questa crudele fiera dell’Est venne prima la Russia che si mangiò l’Ucraina fino a Kiev e al Dnepr, poi venne l’Austria che si mangiò l’Ucraina a ovest del fiume; venne poi la prima guerra mondiale che si mangiò l’Austria e lasciò metà ucraina in bocca alla Polonia e infine venne l’Unione sovietica che si mangiò la Polonia e, naturalmente, tutta l’Ucraina. Infine la crisi di fine anni ’80 si mangiò l’Unione sovietica e per un breve periodo nessuno ebbe più la forza di mangiarsi ancora l’Ucraina. Almeno fino ad un anno fa.

A partire dal pomeriggio dell’8 dicembre 1991, quando Michail Sergeevič Gorbačëv, ultimo segretario generale del Partito Comunista Sovietico, annunciò al mondo lo scioglimento dell’URSS, ci sono voluti quasi trent’anni perché la Russia, quella Grande, si rimettesse in forze e si ricordasse di non poter vivere senza le sue cugine minori. Nel frattempo la Federazione russa aveva perduto tutto il suo “estero vicino”, cioè quella cintura di territori sui quali esercitare un’influenza diretta se non addirittura il controllo e sui quali poter eventualmente combattere prima di coinvolgere il proprio territorio negli orrori di una guerra futura che nella mente di un russo verrà comunque da ovest.

La NATO e il Patto di Varsavia ai tempi della guerra fredda

Di quella cintura di stati che era stato il “patto di Varsavia” da lì a poco sarebbero rimasti solo la Russia Bianca, vale a dire la Bielorussia e la Piccola Russia, vale a dire l’Ucraina. Tuttavia mentre la Bielorussia s’era tenuta ancora agganciata a Mosca attraverso un simpatico dittatore di fabbricazione ex-sovietica, l’Ucraina s’era messa in testa di vivere il suo sogno d’indipendenza vera; magari nell’Unione Europea. Magari addirittura nella NATO.

Con ogni evidenza o forse in barba ad essa, a Kiev in pochi avevano considerato che quando la tua popolazione è meno di un terzo di quella del tuo vicino; quando attraverso il tuo territorio l’ipertrofico vicino ha accesso alla sua unica base navale nel Mar Nero; quando produci gran parte dell’approvvigionamento cerealicolo del mondo; quando nelle tue fabbriche e nei tuoi cantieri costruisci un terzo degli armamenti destinati al mercato bellico del potente vicino, allora certe idee non te le puoi permettere o almeno devi farlo con una certa cautela. Insomma, nuotare accanto alla balena ha i suoi inconvenienti.

Di sicuro Thomas Wilson, presidente americano ai tempi della conferenza di Versailles e propugnatore del principio di autodeterminazione dei popoli, non sarebbe d’accordo, ma per voler invece citare un politico di casa nostra, Giulio Andreotti, viene da dire che nel mondo reale il diritto internazionale, i trattati, le convenzioni “per qualcuno si applicano e per altri si interpretano”.

Da quelle parti i quarant’anni di guerra fredda e di blocchi contrapposti sembravano aver congelato ogni pensiero, compreso quello di un’Ucraina indipendente. Certo, qualche volta come in Ungheria nel ’56 o Praga nel 1968, qualcuno ci aveva provato, ottenendo sempre la stessa risposta: i carri armati russi in piazza e una vibrata protesta da parte di Washington e delle altre capitali del mondo libero.

1989 – autovetture Trabant che dalla DDR attraversavano il confine ungherese nei giorni della caduta del muro di Berlino

Tuttavia quando nell’89 i 27 cavalli delle Trabant travolsero il muro di Berlino, insieme al sol dell’avvenire tramontò anche l’ordinato mondo dei blocchi, dei carri armati in piazza e delle vibrate proteste. In quegli anni ormai lontani tutti i satelliti dell’ex-URSS fecero a gara nel fuggire da Mosca e a rifugiarsi nel caldo abbraccio dell’Occidente. Nel 1999 la Polonia, nella cui capitale era stato firmato il Patto di Varsavia, entrava nella NATO; due anni prima l’Ungheria aveva tenuto un referendum sull’ingresso nell’Alleanza: era stato un plebiscito di si. Seguirono poi la Romania, la Cecoslovacchia e infine le tre repubbliche baltiche che addirittura avevano fatto parte dell’Unione Sovietica. Per ogni abbraccio di ritrovata fratellanza con il temuto occidente la Grande Russia digrignava i denti, consapevole che stava via, via perdendo pezzi fondamentali del suo “estero vicino.

Tra i due stati superstiti l’Ucraina aveva ben presto iniziato ad oscillare tra Russia e Europa e per quasi vent’anni si era assistito ad un balletto continuo di nuovi primi ministri una volta filo russi e l’altra filo occidentali fino ad arrivare al 2014 quando in piazza Maidan, in pieno centro a Kiev, migliaia di persone avevano fatto ben capire che il sogno di aderire all’Unione Europea era qualcosa di più di un semplice sogno.

Kiev – piazza Maidan ai tempi delle manidestazioni per l’ingresso nella UE

L’aveva capito bene anche Viktor Janukovyč, ultimo presidente filo-russo della repubblica ucraina che il 24 febbraio 2014 lasciava Kiev per la Russia inseguito da un mandato di cattura.

Le tappe che hanno portato all’oggi possono essere riassunte, partendo, se si vuole, da un’altra invasione russa, quella della Crimea, oppure dalla strage al palazzo dei sindacati di Odessa nel maggio del 2014 o anche dall’abbattimento il 17 luglio 2014 del Boing 777 della Malaysia Airlines in servizio fra Amsterdam e Kuala Lumpur; Scegliete voi.

Resti del Boing 777 della Malaisyan Airlines abbattuto nel 2014 sull’Ucraina da un missile russo.

Si può anche partire, perché no, dal Donbass dove nell’aprile dello stesso 2014 l’esercito di Kiev e i separatisti delle regioni di Donetsk e Lugansk iniaizvano a scambiarsi le prime cannonate, bruciare qualche villaggio qua e là, deportare questo e quello. Secondo l’UNHCR, l’Alto commissariato dell’ONU per i Rifugiati, negli otto anni che precedono l’anniversario di oggi oltre un milione e mezzo di profughi ha lasciato il Donbas, dei quali 400.000 si sono rifugiati in Russia e 14.000 sono i morti. Tutto questo senza che in occidente qualcuno si accorgesse di nulla. E non ci si era accorti neppure dei così detti “accordi di Minsk”, patrocinati da Francia, Germania e Russia con i quali si era tentato di risolvere la faccenda, ma che per spontanea ammissione di Angela Merkel, al tempo cancelliere tedesco, erano serviti solo a guadagnare tempo.

Tempo per far cosa? Di certo non per trovare una soluzione.

Da un lato della barricata infatti Vladymir Putin, il nuovo autocrate di quasi-tutte-le-Russie, sapeva di non poter perdere quell’ultimo pezzo di “estero vicino”, ma aveva ben chiaro anche di non essere ancora pronto a combattere una guerra per tenerselo stretto. Si accontentava così di sovvenzionare i gruppi neo-nazisti della Piccola Russia per avere un casus belli da usare in futuro e nel frattempo riempiva di armi, munizioni e istruttori le milizie del Donbas, senza peraltro trascurare di ungere con una montagna di dollari chiunque tra oligarchi, politici e locali capi-popolo potesse aiutarlo a riportare a casa la cuginetta ribelle.

Foto di gruppo dei firmatari del Trattato di Minsk

Dall’altro lato della barricata, quello che guarda a Occidente, la svolta di Kiev appariva sempre più decisa e chiara. Il dialogo e la cooperazione tra NATO e governo ucraino erano infatti iniziati già nel lontano 1991, l’anno del quasi colpo di stato a Mosca ma anche della indipendenza ucraina. Allora Kiev aveva deciso di aderire al Consiglio di Cooperazione del Nord Atlantico per poi entrare nel 1994 nel programma Partnership-for-Peace (Partenariato per la Pace – P f P), avviato dall’Alleanza a favore di tutti i paesi dell’ex “Patto di Varsavia” e le repubbliche ex –sovietiche che l’avessero richiesto. Erano quelli gli anni convulsi di Boris Eltsin e del partito comunista di Zjuganov; Chernobyl ancora fumava e le iniziative della NATO non avevano suscitato significative proteste da parte di Mosca. Almeno allora.

Nel 1997, mentre in Gran Bretagna si pubblicava il primo libro di Harry Potter e a Parigi sotto il tunnel dell’Alma moriva Lady Diana, la NATO e l’Ucraina davano vita al NATO-Ukraine Council (NUC) e sempre dal 1997 l’alleanza apriva a Kiev, in via  Melnykova 36/1, il  NATO Information Documentation Center (NIDC). Nel 1999 era stata poi l’ora di una rappresentanza “semi diplomatica”; il NATO Liaison Office (NLO: Ufficio di Collegamento della NATO). Anche sul piano operativo e delle missioni Ucraina e NATO si erano dati da fare. Dal 1996 Kiev aveva contribuito attivamente a tutte le operazioni e alle missioni a guida NATO, a partire da quelle in Bosnia, in Kosovo e in Afghanistan; alle operazioni anti-pirateria nell’Oceano Atlantico, fino a mandare suoi soldati alla NATO Reaction Force.

Insomma un’amicizia di lunga data che era andata in crescendo fino al 2008 quando al summit dei capi di stato e di governo dei paesi NATO a Bucarest, il Presidente USA George W. Bush, dopo aver spianato l’Iraq di Saddam, propone e sostiene con forza la necessità di far entrare Ucraina e Georgia nell’Alleanza.  Solo la decisa opposizione di Francia e Germania aveva allora fermato l’iniziativa americana. Intanto da circa otto anni al Cremlino s’è insediato Vladimyr Putin, personalità ben diversa da Eltsin; deciso a far uscire la Russia dalla palude degli anni ’90 e molto attento a come la NATO si stava muovendo nello spazio ex-sovietico.

BMP 2 Ucraino in Donbas

Si ritorna quindi al 2014 quando l’esercito di Kiev, mal equipaggiato, male addestrato e peggio comandato rischia di essere travolto nella repressione delle rivolte in Donbas, ovviamente sostenute e foraggiate dai Russi. Visti gli amichevoli trascorsi era allora sembrato naturale a Kiev di rivolgersi alla NATO per rimodernare le proprie forze armate, ripristinarne l’immagine tra la popolazione e aumentarne l’efficienza. Si trattava però di un processo lungo e gli ucraini volevano muoversi in fretta, anche perché Putin era sempre più infastidito dall’intraprendenza dell’Occicdente verso Kiev e non lo mandava certo a dire.

Mentre americani e britannici si davano da fare per rimettere in piedi l’esercito, il governo pensò di ricorrere alle milizie paramilitari, composte in gran parte da mercenari stranieri; ex combattenti delle guerre balcaniche; ultras di calcio e militanti di estrema destra. Nel 2020 le milizie costituivano circa il 40% delle forze ucraine arrivando a contare quasi 100.000 uomini ripartiti in diverse formazioni, quasi tutte armate, finanziate e addestrate da Stati Uniti, Gran Bretagna, Canada e Francia. Queste milizie nel 2014 avevano peraltro avuto una parte importante nella rivolta di Euro-Maidan, trasformandola da iniziale protesta giovanile in una rivoluzione vera e propria con tanto di morti e feriti.

Negli stessi mesi Mosca non era rimasta certo con le mani in mano, organizzando un’operazione ibrida che entrerà nei libri di strategia militare: l’occupazione della Crimea. Non si era trattato di una vera e propria invasione, almeno non in senso classico. Nei mesi precedenti Mosca aveva sapientemente suscitato e quindi cavalcato il sentimento di crescente preoccupazione della popolazione russa della penisola nei confronti del governo di Kiev, sempre più anti-russo. Dopo qualche mese di manifestazioni, proteste e richieste di aiuto la Madre Russia che non può certo rimanere insensibile al “grido di dolore” che si levava dalle sponde del Mar Nero dove, incidentalmente è tuttora alla fonda l’unica flotta russa con sbocco sul Mediterraneo.

militari russi

E’ questa l’operazione dei così detti “omini verdi”, componenti delle forze speciali di Mosca che senza insegne e gradi ma con armamento alla mano occupano i gangli della Crimea dichiarandola infine liberata.

L’occidente aveva reagito non con una vibrata protesta come ai bei tempi ma con una serie di sanzioni economiche non particolarmente gravi. Nessuno allora pensava di spedire a Kiev neppure un proiettile o un obice per aiutarla nella riconquista.

Passano altri otto anni prima che la Federazione russa pensi che i tempi per riprendersi l’Ucraina siano ormai maturi. A qualcuna verrà da domandarsi come diavolo possa venore in mente di scatenare una guerra, invadere una nazione indipendente allo scopo di soggiogarla. Queste erano cose molto di moda nel XIX secolo, non più nel nostro. non più in Europa. La domanda benché legittima è tuttavia illuminante di quanto il nostro modo di pensare e di immaginare l’azione politica sia ormai lontano da quello di molti altri, in primis da quello di Putin.

Questa ricostruzione dell’antefatto, per quanto rozza, sarebbe gravemente incompleta se si trascurasse peraltrodi accennare a quale sia ancor oggi il sentimento che fin dal suo costituirsi anima la “Grande Russia”. Una nazione che accoglie oltre duecento nazionalità le quali in gran parte costruiscono la propria identità sulla narrazione dell’appartenenza a una terra perennemente in pericolo, sempre sotto assedio da parte dell’Occidente come dell’Oriente.

I popoli che abitano questo immenso spazio sanno che non ci sarà mai una grande catena montuosa a proteggerli, né un oceano, né un deserto. Solo un immenso spazio aperto dove ogni rischio, ogni minaccia può trasformarsi in tragedia. Nel corso dei secoli i russi pertanto hanno imparato che se vogliono continuare ad abitare il loro spazio devono essere pronti ad accettare immensi sacrifici pur di prevalere. E’ stato così contro i mongoli, i tartari, gli svedesi, i turchi, i polacchi così come contro i tedeschi del Kaiser o quelli di Hitler. Figurarsi se americani o addirittura i cugini della Piccola Russia potevano davvero metter loro paura.

Anzi, nel caso dell’Ucraina per Mosca c’è anche l’aggravante del tradimento perpetrato da un parente stretto. Insomma la “Grande Russia” ha sempre guadato all’Ucraina come un piez’e core! Poco importa se negli ultimi cento anni gli ucraini abbiano fatto di tutto per ricavarsi un proprio spazio e ancora meno che i Russi, zaristi prima e sovietici poi, abbiano risposto con stragi, fame e persecuzioni: la “Piccola Russia” è comunque affare di famiglia. Vale dunque la pena scatenare una guerra per tenersela? Certo che ne vale la pena, costi quel che costi.

La Federazione Russa oggi

Ecco allora la prima lezione impartita da questa guerra ancora in corso: per gli imperi l’economia non è tutto, anzi è molto poco. Sono il potere, il prestigio, la gloria ad essere vitali. Immaginate infatti l’effetto prodotto a Mosca dalle parole del presidente Obama quando nel 2004 definì la Federazione Russa una ”potenza regionale”.

La Russia sa bene che è condannata ad essere un impero ovvero a non essere affatto e di fronte a questa prospettiva esiziale è disposta a giocarsi tutto.

C’è infine un altro aspetto, minore ma non secondario, che può aiutare a capire meglio il perché Putin abbia deciso di passare alle vie di fatto. Tale aspetto si chiama PAURA. Paura di cosa? Di un modello.

La possibilità cioé che l’Ucraina – anche non appartenendo alla NATO e forse neppure all’Unione Europea – potesse comunque sviluppare una democrazia sostanziale e consentisse ai suoi cittadini di vivere meglio dei suoi dirimpettai era ed è per Mosca una prospettiva intollerabile. Significherebbe infatti introdurre un virus letale in un sistema di governo che dal tempo di Ivan il Terribile si è sempre basato su l’uomo solo al comando, circondato da una ristretta cerchia di fedelissimi e dove i ricambi avvengono per eliminazione fisica dell’avversario.

C’era bisogno comunque di una guerra? Forse no. Forse neppure i pianificatori russi l’avevano prevista o forse solo immaginata di sfuggita. Rimane il fatto che la Federazione russa il 24 febbraio dell’anno scorso ha passato la frontiera ucraina invadendo il paese da cinque direzioni differenti. Di questo però parleremo nella seconda parte di questa ricostruzione. Alla prossima puntata.

FINCHE’ C’E’ GUERRA C’E’ SPERANZA: alcune conseguenze economiche della guerra russo-ucraina.

Ad un anno dall’inizio dell’operazione militare speciale molte cose sono cambiate e non solo in Ucraina o nella Federazione russa. Ci si è resi conto che una guerra vecchia maniera in Europa è tutt’altro che un ricordo; che gli eserciti non servono solo per missioni di pace in paesi lontani e che la globalizzazione non è poi così compiuta da impedire a uno stato di attaccarne un altro per ragioni solo a lui note. Tra le espressioni riesumate da un passato prematuramente sepolto c’è l’economia di guerra. Il termine evoca giustamente immagini di gente in fila per un pane striminzito, le tessere annonarie, l’oro alla patria e la borsa nera. Siamo dunque a questo punto? Certamente no, ma non c’è dubbio come l’economia di tutti i giorni sia costretta a fare i conti con questa guerra. E’ bene dunque intenderci su cosa sia un’ economia di guerra.

1935, campagna popoolare “oro alla patria” in occasione delle sanzioni internazionali all’Italia per la guerra di Abissinia.

Secondo una definizione sufficientemente condivisa si tratta di quelle misure, riorganizzazioni e adeguamenti che un moderno stato adotta per orientare la sua intera economia alla produzione di guerra; ovvero, per citare il prof. Stefano Manzocchi, prorettore alla LUISS Guido Carli: “ é la sospensione o il restringimento molto forte dell’economia di mercato, di fatto sostituita da un’economia pianificata in cui a livello centrale si decide cosa si deve produrre e cosa no”. A dar retta infine all’economista francese Philippe Le Billon, autore nel 2000 di Political Economy of War: What Relief Agencies Need to Know, per economia di guerra s’intendono tutte le misure prese per orientare l’economia di uno stato alla violenza. In altri termini quando un paese decide di volgersi all’economia di guerra sposterà il suo intero sistema economico per prepararsi a sostenerla. A conversione terminata si produrranno carri armati, cannoni, missili e aerei a profusione a scapito di tutti i beni materiali e immateriali, dei servizi e delle attività economiche che avevano reso così piacevole la vita in tempo di pace.

Ammodernamento di carri T-72 nella fabbrica Uralvagonzavod di Niznij Tagil.

In Russia e nel resto d’Europa siamo dunque a questo punto? Basta uscire per strada per rendersi conto che ci troviamo in tutt’altra situazione. Certo il conflitto russo-ucraino qualche cambiamento lo ha imposto non solo in Russia, ma anche qui da noi e non parliamo solo del prezzo dei carburanti e delle modifiche alle filiere del commercio internazionale. Chi più, chi meno tutti abbiamo potuto verificare che qualcosa è cambiato nella cosiddetta domanda aggregata, val a dire nella spesa totale per beni e servizi delle famiglie,delle imprese e soprattutto del governo. La guerra russo-ucraina, la possibilità che essa possa estendersi ad altri paesi e la consapevolezza che in occidente molti dei paesi si sono scoperti impreparati ad affrontare una simile evenienza ha costretto a orientare parte della spesa verso il comparto difesa&sicurezza, solo fino all’anno scorso ritenuto marginale e talvolta superfluo. Non solo la Russia e l’Ucraina si sono infatti viste costrette ad aumentare le loro spese militari, ma anche nazioni come la Germania, la Francia e la Gran Bretagna, per non parlare di Polonia, Finlandia e paesi baltici hanno rivisto al rialzo i loro bilanci della difesa. Persino l’Italia che alla difesa ha sempre creduto molto poco, si è vista suo malgrado obbligata ad adeguarsi. 16 marzo 2022, la Camera dei Deputati ha approvato un ordine del giorno che impegna il nostro Paese ad allinearsi alle indicazioni della NATO, aumentando le spese militari. Nel giro dei prossimi sei anni, arriveremo a stanziare il 2% del nostro Prodotto Interno Lordo, contro l’attuale 1,5 %.  Insomma, la possibilità di una guerra in Europa ha riportato d’attualità quello che Joseph Goebbels, ministro della propaganda di Hitler, aveva dichiarato nel 1936 in un celebre discorso a Berlino:”…possiamo fare a meno del burro ma, nonostante tutto il nostro amore per la pace, non possiamo fare a meno di armi!

Torrette di carri T72 in revisione in una fabbrica russa (fonte WEB)

Che effetti avrà nel medio periodo questa corsa agli armamenti? Certo priverà molti altri settori vitali di parte delle già scarse risorse, anche se qualcuno anche in questo caso ha resuscitato il vecchio John Maynard Keynes inventandosi la “economia keynesiana di guerra”. Secondo i sostenitori di questa teoria allo stato potrebbe venire in mente di stabilizzare la recessione o dare un impulso alla stagnazione non dando via al solito programma di lavori pubblici, ma accelerando gli investimenti sul settore della guerra. La ricetta non è certo nuova, basti ricordare cosa era diventata la Germania post Weimar tra il 1930 e il ’39. Sta avvenendo tutto ciò? Non in termini giganteschi come allora ma qualche cambiamento si percepisce. Ad esempio la Repubblica Federale tedesca ha deciso di dotare il settore difesa di cento miliardi di euro tondi, tondi da investire nei prossimi dieci anni, per non parlare della Polonia che ha deciso di destinare il 4% del suo PIL alla difesa e si sta dotando di uno dei più potenti eserciti dell’Europa occidentale. Varsavia, che senza dubbio sente il fiato gelido di Mosca sul collo, ha infatti deciso di acquistare 250 carri armati Abrams dagli USA, 180 carri K2 dalla Corea del Sud, 200 obici semoventi K9 sempre sudcoreani e via così. Viene da chiedersi se questa corsa al riarmo o all’economia keynesiana di guerra sia un riflesso diretto della corrente guerra russo-ucraina. Qualcuno resterà sorpreso nel vedere che da una ricerca del Stockholm International Peace Reserch Institute, uno degli istituti di studi su pace e disarmo più prestigiosi al mondo, già nel 2020 la spesa mondiale destinata agli armamenti era cresciuta del 2,6% arrivando a superare i 2000 miliardi di dollari. In questo studio tra le cinque nazioni che dedicavano alle armi almeno il 4% del proprio PIL, oltre naturalmente agli USA, avremmo trovato la Federazione Russa seguita, indovinate da chi? Proprio dall’Ucraina. Per restare a casa nostra la società LEONARDO del gruppo FINMECCANICA che raggruppa la maggior parte delle nostre industrie della difesa, nel suo bilancio 2022 ha dichiarato ricavi per oltre 9,9 miliardi di euro, vale a dire oltre il 46 % di incremento rispetto al 2021, che pure era stato un anno di crescita eccezionale. Dunque se nella spesa aggregata qualcuno ci ha perso, qualcun altro come al solito ci ha guadagnato.

la catena di montaggio del caccia USA F 35

Viene da chiedersi quali sono gli effetti della guerra sull’offerta aggregata, vale a dire sulla la quantità di beni e di servizi prodotti e offerti sul mercato dalle imprese. A questo riguardo è illuminante accennare agli Stati Uniti. Nel suo ultimo viaggio a Washington Zelensky non ha fatto che chiedere nuove armi e altre munizioni. Perché allora il suo principale alleato, per l’appunto gli Stati Uniti, sono così restii a rifornirlo ai livelli richiesti? Al di là dalle ragioni di sicurezza interna e di equilibri internazionali ve n’è una assai più pratica. Nel 2021 ben il 54% delle budget assegnato al Pentagono è infatti servito per pagare ditte e aziende del comparto difesa in senso stretto. Molti di queste aziende sono oggi restìe ad avviarsi verso la produzione di guerra vera e propria, vale a dire ad aprire nuovi stabilimenti, assumendo e formando nuovo personale per produrre un bene, ad esempio un missile controcarri FGM-148 Javelin, per il quel nessuno può sapere fino a quando ci sarà mercato. Ci vorrebbe una garanzia da parte delle autorità federali americane che il mercato, leggasi la guerra in Ucraina, durerà ancora a lungo, ma al momento non è possibile fornire agli industriali una simile rassicurazione. Non si tratta infatti di aprire un paio di fabbriche e di mettere su doppi turni.

Interno della fabbrica Rheinmetall a Kassell (fonte WEB)

Dando in un’occhiata più da vicino alla struttura produttiva del comparto difesa americano si scopre che in testa alla piramide alimentare ci sono solo cinque super-predatori e segnatamente: Lockeed, Boing, General Dynamics, Raytheon e Northrop Grumman. Un gradino più in basso le cose già si complicano visto che Boing ha 897 aziende che sono sue fornitrici dirette, la General Dynamics ne ha 598, e la Lockeed Martin 408, la Raytheon 223 e la Northrop Grumman, si fa per dire, solo 199. Se si scende infine nella palude dei subappalti si passa a decine di migliaia di piccole e piccolissime aziende ciascuna delle quali produce magari una guarnizione del missile o una semplice vite a testa quadra senza le quali però un Javelin non esce dalla fabbrica. Riconfigurare alle esigenze dell’Ucraina un simile mostro produttivo non significa quindi riaprire un paio di stabilimenti o pagare gli straordinari a qualche migliaio di operai; al contrario è una decisione di politica economica che riguarda un’intera struttura produttiva. Ecco perché il mondo industriale, in assenza di un dato certo sulla durata della guerra oppone forti resistenze a cambiare passo per soddisfare i voraci appetiti dell’armata di Zelensky. La soluzione finora è stata di rivolgersi alle scorte strategiche delle forze armate USA, quelle tanto per intenderci da toccare solo in caso di III guerra mondiale. Qui sono invece i Generali e gli Ammiragli a opporre fiera resistenza. Per ora quindi si chiede a Kiev di consumare meno e con maggiore attenzione, poi si vedrà. Per rimanere in tema di offerta aggregata un’altro effetto è dato dall’accelerazione imposta al progresso tecnologico. Al momento sui campi d’Ucraina non si è ancora visto niente di assolutamente nuovo, a parte l’innovativo impiego di droni a basso costo, ma si deve stare certi che da qualche parte qualcuno sta utilizzando le steppe ucraine come un gigantesco laboratorio per testare nuovi materiali o tecnologie. Da non sottovalutare infine gli effetti della guerra sull’individuazione delle fonti di approvvigionamento energetico. Per ora, almeno in Occidente, tutti stanno pensando a trovare nuovi fornitori di gas e petrolio, ma nel frattempo le ricerche e la tecnologia legata all’economia green hanno subito un significativo balzo in avanti e potrebbero essere un futuro molto più vicino di quanto immaginavamo solo un anno fa.

Rimane da dare un’occhiata agli effetti prodotti dalla guerra sulle supply-chain e, in genere su una struttura produttiva ormai globalizzata. Ve lo ricordate il mantra del periodo del Covid-19 per il quale “niente sarà più come prima”? Sembrerebbe ritornato di moda, stavolta declinato come l’annuncio della prossima fine della globalizzazione. A dire il vero quando all’inizio della pandemia c’eravamo accorti che nazioni ai vertici della produzione industriale mondiale come la nostra non erano in grado di produrre una mascherina di carta da 10 cent avevamo capito che qualcosa andava rivisto nell’architettura produttiva mondiale. Molti stati hanno iniziato a riflettere che, almeno per i settori strategici, un livello minimo di produzione nazionale sarebbe dovuto essere mantenuto e, in alcun casi, ripristinato. La guerra ha solo confermato questa che era ormai un’evidenza, ma da qui a pronosticare la fine della globalizzazione e il ritorno al mondo dei dazi e delle dogane ce ne corre. Visto che siamo in tema di dazi e controlli è inevitabile dare un’occhiata al tema delle sanzioni. E’esperienza condivisa che le sanzioni in primis danneggino chi le emana e solo secondariamente chi le subisce. Gli esempi in questo caso non mancano, basti pensare a Cuba sotto embargo dai tempi di Fidel Castro, all’Iran komeinista, alla Corea del Nord e via così. Ora è il tempo della Russia di Putin per la quale si era pronosticata una caduta verticale del PIL inizialmente del 12% annuo, poi del 7% e ora di meno del 2% (fonti Fondo Monetario Internazionale). Questo perché? Per una serie di motivi, primo dei quali è che nessuno, tantomeno Putin, inizia una guerra senza aver preventivamente messo al riparo adeguate scorte finanziarie e di materie prime per condurla. Secondariamente c’è da considerare la resilienza delle economia in periodi anche lunghi di crisi. Si pensi infatti che l’anno migliore in termini di produzione per la Germania hitleriana non su il ’41, anno in cui la Wehrmacht conquistava l’Europa, ma il 1944 quando gli Alleati bombardavano l’intero paese giorno e di notte. Fatto sta che ad un anno dall’inizio del conflitto la Russia di Putin sembra essere ben lungi dalla catastrofe e dal collasso economico produttivo. Le fabbriche di armamenti come la UralVagonZavod producono oltre 50 nuovi T90M al mese, lo stesso la KB-Mashinostroyeniya continua a produrre i missili Iskander che periodicamente si abbattono sulle città ucraine.

Come è possibile? Innanzi tutto grazie ad un significativo livello di scorte accumulate negli anni precedenti il conflitto e ora attraverso il contrabbando, le triangolazioni, la vendita conto terzi e via così. Basti dare un’occhiata al traffico di TIR tra la Turchia e la Russia, come all’andirivieni di navi battenti bandiere di comodo messe a disposizione di compiacenti armatori occidentali per non parlare della nuova flotta di petroliere di cui si sta dotando la Russia per trasportare il proprio greggio. Si tratta di vere e proprie carrette del mare che però qualche società assicuratrice indiana è ancora disposta a coprire e per le quali qualche staterello non trova difficoltà ad iscrivere nel proprio registro navale. Vuol dire che le sanzioni non servono? Certamente no: servono a rendere più caro e lento l’approvvigionamento di prodotti essenziali e più difficoltoso commerciare i propri. Insomma servono ad aumentare i costi, non a fermare l’economia e tanto meno la guerra. Come si vede molte delle vite di giovani soldati oggi nelle trincee del Donbas passano anche, se non soprattutto, dalle piazze della finanza e dalle stanze dell’economia. Per dirla con Alberto Sordi in un indimenticabile film del 1974, “Finché c’è guerra c’è speranza”.

LEOPARD 2, ABRAMS e T90; TUTTI CONTRO TUTTI.

Non esistono situazioni disperate; solo uomini disperati”, così settanta anni fa ammoniva Heinz Guderian, uno dei padri delle moderne forze corazzate. Siamo dunque a questo punto? Forse no, anche se, trascorso ormai il primo anno di guerra, sulle pianure ucraine si proiettano nuove e preoccupanti ombre.

Heinz Guderian, uno dei padri delle forze corazzate tedesche.

A dissiparle non è bastata la decisione di inviare qualche moderno carro armato all’esausto esercito di Zelensky; come nel teatro anche in guerra è infatti tutta una questione di tempi. Per comprendere meglio cosa questo significhi  è dunque opportuno risalire proprio la linea del tempo a cominciare da quando, a metà settembre, le unità ucraine ripresero il controllo dell’intera regione di Kharkiv. In quei giorni l’esercito russo stava vivendo il momento di maggiore confusione e sbandamento da quando l’attacco iniziale a Kiev era fallito. Disordine, sgomento, abbattimento erano palesi tra le file dei coscritti di Putin così come tra i mercenari della Wagner o i ceceni di Kadirov.

il carro tedesco Leopard 2 (foto WEB)

Tra i primi a comprendere che quello poteva essere il momento giusto per la trattativa era stato il capo di stato maggiore della difesa USA, il generale Mark Milley. Allora, molto probabilmente con il benestare della Casa Bianca, il sessantacinquenne generale si era permesso di suggerire a Zelensky di iniziare a negoziare da una posizione di forza come quella raggiunta in estate piuttosto che attendere un’improbabile vittoria assoluta. A Kiev nessuno lo aveva ascoltato, così la guerra era andata avanti peraltro registrando  un nuovo importante successo per gli ucraini, vale a dire l’abbandono di Kherson da parte del presidio russo.

Il generale Mark Milley, capo degli stati maggiore congiunti USA (foto WEB)

In quei giorni di fine estate in molti avevano iniziato a pronosticare il rapido collasso dell’armata di Mosca e la conseguente fine della guerra. Tuttavia non altrettanti avevano preso nella dovuta considerazione alcuni fattori che nel tempo non avrebbero mancato di manifestare la propria rilevanza. Il primo era stata la dichiarazione, il 21 settembre 2022, dell’avvio in Russia della mobilitazione parziale di oltre 300.000 riservisti. Le televisioni e i blog occidentali di quei giorni si erano concentrati a mostrare giovani russi in fuga o altri catturati fuori dai bar come ad annunciare il fiasco di una simile, disperata iniziativa. Eppure qualcuno deve pur aver risposto alla chiamata visto che a novembre dello scorso anno erano stati incorporati oltre 250.000 nuovi soldati.

coscritti russi (foto WEB)

Non solo. I peggiori o i meno adatti erano stati subito spediti sulla linea del Donbas a tener duro; gli altri, i più svegli, gli specializzati o semplicemente quelli più fortunati erano stati sottoposti a un intenso programma di addestramento e ricondizionamento ancora in via di completamento nelle basi e nei poligoni russi e bielorussi.  Nel frattempo l’abbandono di Kherson, ordinato da “Armagheddon” come è simpaticamente soprannominato il nuovo comandante delle forze russe in Ucraina, generale Sergej Surovikin, aveva consentito di recuperare circa 30.000 uomini fino ad allora bloccati nell’inconcludente presidio di una città indifendibile. Del ritiro da Kherson si era avvantaggiata anche la sbilenca catena logistica russa nonché la linea del fronte, ridotta di un centinaio di chilometri. Nel frattempo mentre Medvedev e Putin minacciavano apocalittici attacchi con nuove e sconosciute potentissime armi, più prosaicamente parte dell’industria pesante russa si stava riconvertendo ai ritmi e alle necessità di una guerra su vasta scala.

militari russi nei pressi dell diga di Nova Kakovha – provincia di Kherson

Anche se rallentata da una serie di problemi organizzativi, dall’endemica corruzione degli apparatchik e solo in parte dalle sanzioni occidentali la macchia produttiva di guerra russa si era messa in moto iniziando a ripianare le immense perdite di mezzi e materiali patite nei primi mesi dell’operazione militare speciale. Sul campo, visto che sul terreno era d’obbligo una tenace difensiva, il Cremlino aveva avviato una potente e costante offensiva aerea condotta a colpi di missili e droni, che se pur ridotta in durezza e intensità non accenna ancora a placarsi. Obiettivo la rete energetica e dei trasporti allo scopo di impedire o rallentare ogni produzione bellica da parte di Kiev e fiaccare il morale della popolazione. Se il primo degli obiettivi sembra essere stato raggiunto per l’altro siamo ancora in alto mare. E’ sotto gli occhi di tutti di quanto gli ucraini, almeno quelli rimasti in patria, siano sempre più determinati a combattere questa che sempre più è vista come una guerra per la sopravvivenza stessa del paese. Ecco allora che torniamo al tempo. Nel periodo in cui l’esercito russo era palesemente più debole che cosa si è fatto? Sono state inviate altre batterie di HIMARS, qualche centinaio di obici, veicoli ruotati protetti e munizioni, tante munizioni oltre a mantenere una costante e capillare copertura di sorveglianza e intelligence sulle azioni dei russi. In apparenza dunque a Kiev non avrebbero avuto ragione di lamentarsi, ma allora perché Zelensky non ha perso occasione per chiedere altre armi e munizioni? E’ forse in preda a una furia distruttiva?

Se è vero che a caval donato non si guarda in bocca è altrettanto vero che il cavallo non è certo un purosangue. Ad un’occhiata più attenta si scoprirà infatti che nei mesi passati Kiev è stato rifornito di tutto quello che di ex-sovietico era possibile recuperare nei depositi della Polonia, in Ungheria e di tutti i paesi NATO un tempo ex-patto di Varsavia. Si era andati a scavare fino in Marocco e a Cipro alla ricerca di qualche T72, T64 o BMP ancora funzionante da poter gettare nella fornace ucraina. Con quei mezzi e con quelli abbandonati dai russi sul campo di battaglia l’esercito di Zelensky aveva fatto davvero miracoli, ma ora di mezzi del genere non se ne trovano quasi più e il tempo dei prodigi è tramontato.

T64 russo distrutto negli scontri dell’autunno scorso (foto WEB)

Non ci vuole certo un genio per comprendere come se una produzione bellica, quella russa, è in costante aumento e la situazione del parco armi e mezzi dell’Ucraina peggiora di giorno in giorno presto o tardi il divario sarà tale da consentire a Mosca di condurre un’offensiva decisiva. Anche la situazione del personale inizia a scricchiolare. Se nei primi mesi della guerra Kiev poteva infatti contare, oltre alla determinazione e al coraggio, anche su una preponderanza numerica di 2 a 1, ormai il rapporto si è parificato e presto verrà ribaltato a favore dei russi. Come mai? Ricordate la mobilitazione parziale che ci aveva strappato un sorriso? Si, proprio quella sta fornendo a Putin un esercito nuovo di zecca da affiancare o sovrapporre a quello che si sta consumando in Donbas. La situazione è peraltro così seria che lo stesso generale Valery Zalužnyj, da giugno a capo delle forze armate ucraine, ha auspicato un’ulteriore mobilitazione dei giovani ucraini per compensare le perdite sofferte in questi mesi mantenere un rapporto di forze ancora favorevole.

carro tedesco Leopard 2 in esercitazione

Siamo quindi giunti al tempo presente, quando gli Stati Uniti e tutti gli altri paesi che concorrono all’alleanza dei volenterosi a sostegno dell’Ucraina si sono decisi all’invio di moderni carri armati. Finalmente! Verrebbe da aggiungere e invece anche in questo caso c’è da dare un’occhiata più attenta a questa decisione e alle sue conseguenze. In primo luogo se è vero che si è deciso di inviare carri da combattimento moderni sul numero c’è da riflettere.  Zelensky e il suo stato maggiore sanno bene che per raggiungere qualche significativo ribaltamento di situazione dovrebbero disporre di almeno 500 o 600 carri e invece finora si è parlato si e no di un centinaio e neppure dello stesso tipo. Al riguardo la Gran Bretagna ha annunciato che invierà una quindicina di Challenger, la Germania un’altra quindicina di Leopard 2 ai quali si uniranno quelli di Polonia, Lituania e di molti altri stati. C’è infatti da precisare che a parte la Francia che è equipaggiata con il carro Leclerc, la Gran Bretagna con il già citato Challenger e noi con l’Ariete (sul quale è meglio sorvolare) tutto il resto d’Europa e molti altri paesi del mondo sono equipaggiati con il tedesco Leopard 2, un mastodonte di oltre 60 tonnellate, spinto da un motore da 1500 cavalli e armato con un cannone da 120 mm in grado di sparare in movimento. Del Leopard 2 la Rheinmetall di Dusseldorf ne ha prodotte svariate versioni a partire dall’originaria A1 fino alla più moderna A7. Per ciascuna di esse qualcosa sul carro è cambiato o è stato aggiunto. Significa che per ogni versione sarà necessaria una logistica dedicata, infatti non tutto quello che, ad esempio va bene per una versione A3 lo si monta anche su un A5. Oltretutto la Germania mantiene non solo il diritto ad autorizzare la cessione a un paese terzo di ogni Leopard 2 venduto a chicchessia, ma è anche l’unica in grado di effettuare grandi riparazioni e manutenzioni ultra-specialistiche su questo carro.

An M1A2 Abrams main battle tank from the Minnesota National Guard races through a breach in a barbed wire obstacle during the 116th eXportable Combat Training Exercise at the Orchard Combat Training Center, Idaho, Aug. 21. The XCTC is a program of record used by the Army National Guard since 2005 to train more than 11 combat and functional brigades. XCTC is a cost-efficient, time-efficient option for delivering combat readiness training to Soldiers at or near their home stations. This scalable live-training program has proven effective for pre-mobilization forces, in accordance with the Army Force Generation model. (U.S. Army photo by Sgt. Leon Cook, 20th Public Affairs Detachment)

La riluttanza di Berlino ad autorizzare l’invio dei “suoi” Lepard 2 in Ucraina è motivata però anche da altre ragioni. Ad esempio la Rheinmetall non sarebbe particolarmente felice di constatare che uno dei suoi carri è finito in mano russa per essere sottoposto a un minuzioso retro-engeneering. Cosa dire poi se alla prova del fuoco questo prodigioso (e costoso) mezzo si dimostrasse non all’altezza della sua fama? C’è da immaginare che le ripercussioni sul ristretto mercato mondiale delle armi sarebbero gravi. Non ultimo tra i dirigenti tedeschi si potrebbe essere insinuato il malevolo sospetto che una volta che i molti paesi europei ed extra-europei si decidessero a donare i loro Leopard 2 all’Ucraina gli stessi potrebbero essere tentati di rimpiazzarli non con altri Leopard 2 ma con i loro concorrenti americani, i carri Abrams o con qualche mezzo magari sud coreano. La Polonia d’altra parte l’ha già fatto. Per concludere  c’è da aggiungere la scarsa voglia da parte della Germania di inimicarsi ancor di più la Federazione russa con la quale da tempo mantiene rapporti commerciali e finanziari strettissimi.

carro T90 M russo (foto WEB)

Dunque qual è stata la soluzione? Proporre agli USA di subordinare la concessione delle necessarie autorizzazioni alla cessione dei Leopard 2 ad un analoga fornitura di carri Abrams e che comunque il numero dei carri cedibili non sarebbe potuto essere tale da pregiudicare le capacità di difesa dei vari offerenti. In altre parole darne pochi e darne tutti. A questo punto è stato Washington a storcere il naso per motivi in gran parte analoghi a quelli di Berlino. La soluzione americana è stata perciò di inviare un centinaio di Abrams da trarre però non dalle scorte strategiche dell’esercito ma direttamente dalla linea di produzione e c’è da scommettere che sulle pianure ucraine non vedremo certo l’ultimo modello di questo caro a stelle&strisce.

carro T90 M russo (foto WEB)

 In conclusione all’esercito ucraino, stando alle correnti decisioni, arriveranno un centinaio di carri o forse duecento, misti tra Challenger britannici, Leopard 2 di svariate versioni e qualche Abrams; tutto questo per la gioia di ogni responsabile logistico o capo officina che dovrà prepararsi a confrontarsi non uno svariato numero di catene logistiche diverse. Guardiamo per un’ultima volta al tempo per constatare che mentre tutto questo è ancora bel al di là dal realizzarsi, nelle retrovie del fronte del Donbass quasi quotidianamente si ha notizia dell’arrivo di convogli ferroviari che trasportano  T72B e T90 M revisionati o nuovi di fabbrica. Viene allora da chiedersi per quale ragione Mosca dovrebbe attendere l’arrivo dei nostri rinforzi per scatenare la sua ennesima offensiva. Forse per questo da parte USA e britannica si inizia a parlare di uan nuova offensiva russa e fine febbraio. Come al solito vedremo.