“Tutto quello che ho per difendermi è l’alfabeto; è quanto mi hanno dato al posto di un fucile.” Philip Roth
foto p.Capitini
19 bambini uccisi e due adulti. E’ il bilancio dell’ennesimo “mass shooting” negli Stati Uniti e tutti sappiamo che è un bilancio provvisorio. Molto presto qualche ventenne introverso prenderà un paio di pistole e un fucile nuovo fiammante, entrerà in una scuola della immensa provincia americana e sparerà a un paio di insegnanti e a qualche decina di scolari. Poi arriverà la polizia di stato, lo sceriffo, la SWAT che lo ammazzeranno.
Sono storie come questa che mi fanno sentire orgoglioso d’essere un europeo. Già, perché a differenza da quanto da più parti sento sbraitare non sono affatto convinto che negli USA gli oltre 16.000 morti per omicidio (dati OSCE 2019) siano frutto a di leggi più o meno permissive. Il diritto costituzionalmente garantito di acquistare, detenere e portare a spasso armi non è né la causa e neppure l’effetto di diciannove cadaveri più due. E non è neppure la possibilità di comprare armi automatiche, semiautomatiche, a ripetizione, da guerra, da caccia, mitragliatrici e in alcuni stati americani anche più potenti che porta sulla coscienza quei morti provvisori e certo non ultimi. A ben guardare non è neppure la mancanza di controlli e di verifiche sullo stato mentale degli acquirenti a essere rilevante.
Certo una nazione dove per comprare una birra devi avere un documento e per acquistare un Heckler & Koch basta dire “voglio quello lì”, be’ quel posto qualche problemino ce l’ha ma non è di natura legale e neppure di diffusione della armi.
Giusto un paio d’esempi.
Per quarant’anni mio padre è stato un poliziotto, compartimento di polizia stradale di Ancona. A casa mia la “pistola di papà” c’è sempre stata, segretamente conservata sopra l’armadio in camera da letto appena sopra l’anta centrale. La potevo scorgere dal corridoio. Allargando la visuale in Italia ci sono oltre 200.000 tra poliziotti, carabinieri o finanzieri il che vuol dire altrettante pistole Beretta cal. 9 mm parabellum. A questi, secondo il ministero degli interni, vanno aggiunti altri 1.222.537 intestatari di un qualsiasi porto d’armi (caccia, difesa personale, sport…). Ci sono poi i ferri del mestiere, vale a dire il mare oscuro delle armi illegali collegate ad attività criminali di varia natura. Insomma di armi ne abbiamo parecchie anche noi, eppure…
foto p.Capitini
Il secondo esempio riguarda la Svizzera dove non so se sia ancora in vigore la legge che autorizzava ogni cittadino elvetico, iscritto alle liste di mobilitazione per le forze armate, a detenere a casa il proprio fucile da guerra. Anche in questo caso viene da dire “eppure…”
Perché allora da questa parte dell’oceano, malgrado le armi non siano affatto state messe al bando, quasi nessun disoccupato, studente brufoloso, psicopatico fuggito dal centro di igiene mentale o disadattato generico prende la doppietta di nonno e spara nel mucchio? Negli ultimi dieci anni è venuto in mente solo ad Anders Breivik, lo squinternato suprematista bianco che ha ammazzato 77 persone in un’isoletta svedese.
Una spiegazione, di certo più scomoda e imbarazzante, va forse ricercata non nella legge e neppure nella National Rifle Association, ma nell’anima stessa della “terra dei liberi e dei forti” e della sua gente che malgrado nei tratti e nelle apparenze è tanto simile a noi scopriamo poi esserci estranea.
Forse perché una cultura dove l’individualismo è un valore assoluto, dove il successo – costi quel che costi – è prova della benevolenza divina, dove la comunità ha senso se è pronta a difendersi dal pericolo esterno siano i messicani, i neri, i russi, i comunisti o chiunque non sia … dei nostri.
Non è una sorpresa. Il cinema americano racconta da sempre quella società; lo fa senza sconti e con l’ingenuità sconcertante di chi non ha alcuna vergogna perché sa di essere nel giusto, anzi, sa di rappresentare la normalità del mondo.
E’ quindi normale comprarsi due pistole, un fucile automatico, uno a pompa e andarsene in giro per la città sentendosi libero, sentendosi forte. La legge lo consente, certo, ma il buon senso molto meno se non ti induce a riflettere che essere armato a casa tua come un mujaheddin dell’ISIS non difende te, ma mette in pericolo tutti gli altri. Da questo postulato che potrebbe essere riassunto in “tutto il mondo ce l’ha con me, ma io non ho paura ”, discendono poi le guerre preventive, quelle per esportare la democrazia, per combattere il narcotraffico e via così.
In pochi tra i 330 milioni di americani si chiedono cosa c’è che non va e perché da qualche anno il resto del pianeta non li accolga più con mazzi di fiori e sorrisi illuminati. D’altra parte non era Al Capone a dire che “puoi fare molta più strada con una parola gentile e una pistola che con una parola gentile e basta”.
“E sentiamo Mancinelli, dove sono i Dardanelli?” Cantava Natalino Otto.
La guerra mondiale, l’ultima, era finita da meno di mille giorni e una nuova, stavolta fredda, era già iniziata. Dopo settant’anni chissà se Mancinelli si è informato sui Dardanelli. Come avete capito stiamo parlando del mar Nero, l’altro mediterraneo, che la guerra russo-ucraina ha riportato all’attenzione mondiale e dove galleggiano e talvolta affondano questioni e ambizioni che è bene riassumere partendo dalla geografia.
Il Mar Nero è quel che si definisce un mare chiuso, una sorta di immenso lago salato vasto circa un sesto del Mediterraneo sul quale si affacciano Turchia, Bulgaria, Romania, Georgia e, naturalmente Ucraina e Russia. Le due sponde più lontane distano, da nord a sud, oltre 600 km e circa 1200 da est a ovest. Nel suo punto più profondo supera i 2000 metri. Questo mare ha un solo accesso, una doppia porta in mano da secoli prima all’Impero ottomano e quindi alla Turchia: lo stretto del Bosforo e quello dei Dardanelli. C’è anche un altro stretto sotto il controllo russo ben prima che Putin s’inventasse l’operazione militare speciale. E’ lo stretto di Kerch che lo collega all’appendice orientale del mar d’Azov, un mare vasto quanto Lazio, Umbria e Marche messe insieme e profondo meno di 10 metri. Questa dunque la geografia, ma ciò che fa di questa porzione di pianeta una luogo speciale è la storia. Qui infatti ai toccano delicatissime faglie geo-politiche come quella tra Asia ed Europa, tra mondo musulmano e cristiano o come quella tra NATO e Russia. Al mar Nero guardano anche potenze molto lontane, prima fra tutte la Cina che l’ha messo al centro del corridoio europeo senza dimenticare l’India, quasi tutto il medio oriente e buona parte dell’Africa settentrionale che dai granai ucraini e russi traggono il pane, unica arma in grado di tacitare le loro folle impoverite.
Cupra Montana (Ancona) – grano. (foto p.Capitini)
Eccoci dunque al primo dei temi del momento: il grano. Anche qui è bene tirar fuori qualche numero. Il raccolto del 2021, l’anno precedente alla guerra, ha prodotto in Ucraina oltre 40 milioni di tonnellate di grano in grande parte destinate all’esportazione verso l’Africa e l’oriente. Per trasportarle ci vogliono oltre un milione di TIR, oppure 150.000 treni merci ma solo, si fa per dire, 2000 navi. Ecco quindi che il problema della guerra e della chiusura dei porti settentrionali diventa grave visto che in assenza di un soluzione a breve termine quei 40 milioni di tonnellate rischiano di rimanere a marcire nei silos di Odessa e della altre aree di stoccaggio ucraine. Senza quel grano una buona parte del mondo povero, che l’ONU stima in oltre 450 milioni di persone, rischia la fame più di quanto normalmente non debba subire è già basterebbe per allarmarsi. E’ inoltre risaputo dai tempi delle scuole medie che l’Ucraina è il granaio non solo d’Europa ma in apparenza anche del mondo. Non dimentichiamo però che in Russia il raccolto 2021 ha prodotto 75 milioni di tonnellate. Si sa che in tema di fitofarmaci, pesticidi e concimi chimici un tantino spinti, la Russia non guarda tanto per il sottile ma sono pur sempre 75 milioni di tonnellate, vale a dire altre 4000 navi. A questo punto tutti ci ricordiamo che tra Russia e Ucraina è in corso una guerra, anzi, un’operazione militare speciale che tra le altre distruzioni e tragedie ha prodotto la chiusura dei porti ucraini, la distruzione di buona parte delle loro infrastrutture e, per la Russia, una serie di infinite sanzioni economico-commerciali delle quali si fa fatica a tenere il conto. Il risultato è che oggi abbiamo oltre 120 milioni di tonnellate di grano bloccate sulla sponda nord del Mar Nero con nemmeno una delle 6000 navi che servirebbero trasportarle che per il momento disposta ad attraversare gli stretti per andare a caricare.
Il mar Nero è dunque chiuso alla navigazione? Per niente, almeno non a quella commerciale, ma navigare in quelle acque è diventato un tantino pericoloso. Tanto quanto? Come al solito dipende. Ad esempio per Grecia e Malta non molto, mentre per il nostro ministero degli esteri la zona è ad altissimo rischio. Esiste un parametro più oggettivo? Si e ce lo offre chi della valutazione del rischio ha fatto il suo mestiere: il mercato delle assicurazioni marittime. Londra che di questo mercato è sede dal tempo dell’impero britannico, ha inserito l’area marina intorno al Mar Nero e al Mar d’Azov fra le zone ritenute ad alto rischio per la pericolosità alla navigazione mercantile. Il Joint War Committee (Jwc) del settore assicurativo in un avviso di pochi giorni fa ha infatti dichiarato che l’area ad alto rischio è stata ulteriormente ampliata alle acque vicine alla Romania e alla Georgia dopo un precedente ampliamento del 15 febbraio alle acque russe e ucraine nel Mar Nero e nel Mar d’Azov. Sono infatti almeno cinque le navi commerciali che dal 24 febbraio, data di inizio del conflitto, sono state colpite da proiettili, tra cui una che è affondata e un’altra sulla quale un marittimo è stato ucciso dalle schegge di un missile che ha colpito la nave.
Conseguenza più che prevedibile è stata l’innalzamento dei premi assicurativi. Aumenti che arrivano fino al 5% del valore della nave assicurata. In termini pratici una nave che decidesse di arrivare a Rostov-sul-Don, piccolo porto russo sul mar d’Azov e rimanerci una settimana, dovrebbe pagare un sovrapprezzo di oltre 300.000 dollari. E’ logico che in queste condizioni di mercato e con il rischio di imbattersi in una mina sono davvero pochi gli armatori disposti a caricare grano a Odessa.
Mina navale ex-sovietica (foto WEB)
Siamo dunque al secondo dei problemi di cui oggi si discute: le mine navali. Anche qui per chiarezza è bene fare un distinguo; quello tra i campi minati navali posati a protezione dei porti e le mine alla deriva. I primi si concentrano principalmente di fronte a Odessa e a Mariupol e sono stati posati dagli ucraini. Perché? Ma per scoraggiare un tentativo di sbarco dal mare da parte della flotta del mar Nero. I russi dal canto loro negano di aver contro-minato gli stessi accessi. Tuttavia rimane il fatto che attraccare oggi in Ucraina è davvero un mezzo suicidio. La buona notizia è che nel caso si raggiungesse un accordo umanitario, magari sotto l’egida del Programma Alimentare Mondiale (WFP), per l’apertura di corridoi di navigazione ci vorrebbero si e no una ventina di giorni per liberarli delle mine ancorate. “Ancorato” è purtroppo l’aggettivo che fa la differenza.
Nel mar Nero vanno infatti alla deriva un numero imprecisato di mine anti-nave. Chi l’ha rilasciate? Come è ovvio gli ucraini accusano i russi e viceversa salvo poi entrambi sostenere che si tratta di ordigni che hanno fortuitamente rotto l’ormeggio. Tenuto conto di quando sono stati posati i campi minati, delle correnti e dei venti appare tuttavia un po’ strano che alcune di queste mine siano ora spiaggiate in Turchia, in Georgia o in Romania. L’ipotesi che siano state rilasciate alla deriva, non ha prove ma è un fatto probabile. Questa è dunque la cattiva notizia.
Ricercare, individuare e far brillare mine che nessuno sa dove si trovano è infatti un’operazione lunga, molto costosa e dai risultati incerti. Ne sa qualcosa la nostra marina militare che al tempo della guerra del golfo ha contribuito a sminare lo stretto di Hormuz. La domanda successiva è allora: “ chi lo fa?” La marina ucraina non dispone di un solo cacciamine, quella russa ne ha uno solo, classe “Alexandrit”. Ci sono certo quelli della Turchia, della Romania e della Bulgaria, ma ecco che appena si nominano questi tre paesi qualcuno a Mosca ai ricorda che si tratta di paesi NATO con la quale di questi tempi non corre buon sangue.
“Ci pensiamo noi” è stata allora l’idea che Londra ha lanciato nei giorni scorsi per la creazione di una “coalizione di volenterosi”, con a capo la marina di sua Maestà britannica e il concorso di altri Paesi (della Nato?). Compito? Scortare le rotte del commercio e dell’export di grano dall’Ucraina.
Va bene che in questa strana guerra che non è una guerra ma un’operazione militare speciale le convenzioni internazionali e il diritto umanitario e dei conflitti armati sono stati relegati in allegato dell’annesso all’appendice, ma tutt’ora per gli stretti del Bosforo e dei Dardanelli è in vigore una convenzione del 1936 firmata a Montreux tra Turchia, Regno Unito (ma guarda un po’) Francia, Unione Sovietica, Grecia e Romania i cui temi è bene ricordare. Per garantire la sicurezza alla Turchia e agli stati che si affacciano sul Mar Nero la convenzione di Montreux garantisce per il tempo di pace la piena libertà di transito alle navi mercantili di qualsiasi bandiera. In tempo di guerra, se la Turchia come in questo caso non è parte del conflitto, la libertà di passaggio è invece assicurata ai soli mercantili dei paesi neutrali e solo nelle ore diurne e solo rispettando rotte obbligate. Cosa diversa riguarda le navi da guerra per le quali corre sempre e comunque l’obbligo di informare il governo di Erdogan almeno otto giorni prima del transito, limitatamente a flotte di un massimo di nove unità e con un tonnellaggio complessivo di 15.000 tonnellate. Si fanno eccezioni solo per i paesi rivieraschi, come appunto Russia e Ucraina, purché le navi passino singolarmente. Per i sottomarini è consentito il passaggio solo se di paesi rivieraschi – di giorno e in superficie – e solo per entrare nelle loro basi o per farsi riparare. A parte la convenzione mettere migliaia di tonnellate di navi da guerra, armate di tutto punto in un mare minato non appare comunque una buona idea. In conclusione ci troviamo dunque all’inizio dell’estate con 110 milioni di tonnellate di grano russo-ucraino bloccati dalla guerra, dalle mine e dalle sanzioni; con un mare dove galleggiano mine navali come fossero meduse a Riccione e con quasi mezzo miliardo di persone a rischio carestia nei prossimi mesi e, come se non bastasse, nessuna idea di dove stivare il raccolto del 2022 che tra poco qualcuno mieterà.
Da ultimo, ma solo per alimentare con un po’ di malizia una situazione già di per se ingarbugliata, c’è da chiedersi che bisogno o che vantaggio abbia la Russia a risolvere il problema ucraino del grano visto che in questo clima di “guerra ibrida” qualche milione di migranti alimentari che premono alle frontiere meridionali d’Europa farebbero davvero comodo a Mosca che li trasformerebbe in un’arma niente male contro la granitica unità europea. Soluzioni? Al momento se ne vedono poche e velleitarie e noi, come al solito, vedremo.
“A ma’, che mme dai 20 euri?”“20 euri? E che ce fai co’ 20 euri?” “’… ‘na pizza e ‘na bira co’ l’amìsci…”. Ecco, adesso al posto dei 20 euri mettetene qualche centinaio di milioni e invece della pizza pensate a un incrociatore, un paio di missili o di carri armati. Rimane comunque valida la domanda di mamma: che ci fai?
Proprio ieri la Germania ha annunciato che stanzierà 100 miliardi di euro per il suo settore della difesa e poco dopo Draghi ha timidamente annunciato che anche l’Italia si darà una mossa. A premessa ci sarebbe una considerazione, ma me la tengo per la fine, così i più curiosi saranno costretti a farsi due cabasisi così con numeri e numeretti.
Caccia multiruolo Dassault RAFALE (francia) (foto p. capitini)
Il tema è infatti QUANTO E COME SPENDE L’ITALIA per la DIFESA sua e della NATO. La fonte è la Camera dei Deputati. Lo so che non e sinonimo di veridicità e completezza, ma di meglio non ho trovato. Dunque cominciamo.In una notte del 2014, buia e tempestosa come solo le notti del Galles sanno essere, il gran maestro americano della NATO, stanco di pagare per tutti, fece giurare agli altri membri della confraternita che entro il 2024 ognuno avrebbe dedicato almeno il 2% del proprio PIL alla Difesa. L’allora ministro, l’evanescente Roberta Pinotti, si sentì improvvisamente addosso gli occhi severi di tutti. Inghiottì in fretta la tartina al caviale da 25 euro e alzando la mano destra pronunciò il giuramento: “… ve lo dico e lo suggello e vi fo giurin giurello! “Ma il destino cinico e baro era in agguato e fece abbatere sulla Penisola il Papéete e i 5 stelle; il Conte 1 e il Conte 2, Ventura che bucò i mondiali e infine il Covid. E fu sera e fu mattina. Mai nella millenaria storia d’Italia avevamo avuto una così vasta scelta di scuse per rinnegare il giuramento della tartina. Per star sicuri al posto della Pinotti venne inoltre nominata la pentastellata Elisabetta Trenta , ma la musica non cambiò.
Elicottero d’attacco Boeing AH-64 APACHE (USA) (foto p.capitini)
Eccoci arrivati dunque al 2020, il morbo infuria, il pan ci manca e il rapporto tra le spese per la difesa ed il PIL a prezzi costanti si assesta intorno all’1,39 %, comunque in aumento rispetto al 2019 (1,18%), al 2018 (1,23%) e al 2017 (1,20%), lontano dal 2% ma almeno avevamo mostrato buona volontà. Peccato che intanto gli altri confratelli erano già al 1,73%. La Francia al 2% e ovviamente gli inglesi, per non farsi cojonare dai “mangiarane”, erano al 2,32%. Sospettando forse una nuova invasione persiana persino la Grecia impoverita e commissariata destinava alla difesa il 2,68%. Comunque anche l’1,39% del PIL di una nazione che si vanta di far parte del G8 sono pur sempre un sacco di soldi. Volete sapere come li spendiamo?Ogni 100 euro destinati alla difesa 62,2 finiscono in stipendi, pensioni, indennità, fogli di viaggio e altre spese per il personale, 11,6 servono per tenere in piedi caserme, ospedali, scuole, musei, aeroporti e porti, insomma infrastrutture; con 1,7 euro paghiamo le operazioni, il mantenimento di equipaggiamenti e armamenti e, sopresa anche i costi per addestrare i nostri a usarli nel migliore dei modi. Con gli ultimi 24,6 euro possiamo infine comprare armi ed equipaggiamenti per i quali non avremo però i soldi per imparare ad usarli come si deve.Torniamo quindi ai 100 miliardi della Germania e a Draghi. La domanda di mamma rimane centrale. Che ne dobbiamo fare? Se ammoderno l’esercito, sviluppo la marina, consolido l’aeronautica e poi metto Di Maio al ministero degli esteri, Salvini agli interni e Guerini alla Difesa inizio a pensare che sarebbe meglio destinarli ad altri settori. Ma anche avessimo una leadership nazionale composta da persone per lo meno normali, in assenza di una politica comune europea, di uno stato o di una parvenza di stato europeo avrebbe senso avere uno strumento (così lo chiamano i militari) moderno e potente?Potremo fare una telefonata a Mosca e sentire che ne pensa il giovine Volodia…
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