Davvero gli americani ci vogliono mollare?
Conway, South Carolina è una delle tante cittadine dell’America profonda, quelle di cui non si sente mai parlare se non quando qualcuno entra sparando in una scuola oppure un tornado di categoria F4 le spiana. È in posti come Conway che vive la maggior parte dei sostenitori della “America first” di Donald Trump. Dalle casette color pastello, con il prato falciato e la Old Glory che ciondola sotto il portico l’Europa sembra lontanissima come il resto del mondo d’altronde. Proprio a Conway, nel febbraio scorso, alla domanda se l’America fosse disposti a difendere un paese NATO qualora questo non avesse rispettato l’obiettivo di destinare il 2% del proprio PIL alla difesa, The Donald, con il suo leggendario garbo, aveva risposto: “No, I would not protect you. In fact, I would encourage them (the Russian) to do whatever the hell they want. You got to pay. You got to pay your bills.” (No, Io non vi proteggerò. Anzi, incoraggerei (i russi) a fare quel che cazzo vogliono. Tu devi pagare. Devi pagare i conti”).

Dunque, è così che stanno le cose? Davvero l’America vuole dirci “sbrigatevela da soli” proprio mentre i russi aggrediscono l’Ucraina, a Gaza Israele sfiora la guerra grande in Medioriente; con l’Iran che potrebbe non essere lontano dall’Atomica, gli Houti a minacciare gli accessi al Mar Rosso e la Cina che digrigna i denti contro Taiwan? Visto da questa sponda dell’Atlantico quello che viene minacciato dall’altra appare davvero incredibile, ma per quanto increduli noi europei dovremo iniziare a fare i conti con qualche elemento di realtà; che ci piaccia o no.
La delicata affermazione di Trump ci racconta infatti di quanto in America sia oggi diffuso e robusto il movimento di opinione che vorrebbe “America First” e forse addirittura “America only”. Dopo l’infinita guerra in Afghanistan che si è andata ad aggiungere a quella altrettanto infinita in Iraq, l’America è stanca di guerre inconcludenti e spesso insensate e non reclama più con orgoglio il ruolo di gendarme del mondo. E non basta. Anche il fascino della Vecchia Europa come culla della civiltà americana sta perdendo colpi. L’incalzare dell’ideologia Woke e della cancel culture sta facendo percepire a molti americani di non essere più, come avevano creduto per decenni, una positiva evoluzione degli europei, ma di essere altro: americani, appunto.

Non si tratta peraltro di un sentimento condiviso solo tra le classi medio-basse della popolazione; tutt’altro. Anche alcune porzioni per nulla marginali dell’establishment sostengono ormai da tempo e con dovizia di argomentazioni come il legame tra le due sponde dell’Atlantico, fino a trent’anni fa assolutamente indiscutibile, si sia nel frattempo sfilacciato e allentato e non solo per responsabilità dei Paesi europei.
Dopo il risveglio dal sogno del “secolo americano”, con la sua globalizzazione a stelle e strisce e la sua fine della storia, Washington non può più sottrarsi al suo dilemma strategico, vale a dire dall’aver preso coscienza in primo luogo che la fine della guerra fredda non ha affatto creato un mondo globalizzato a guida americana, ma, al contrario, ha dato il via a un multipolarismo conflittuale e, in secondo luogo, di non essere più politicamente e militarmente in grado di sostenere un confronto armato di alta intensità su due fronti lontani e distinti. Volendo qui portare un esempio la Washington del 2024 non è più in grado come quella del 1941 di sostenere contemporaneamente un conflitto in Europa e uno nell’area indo-pacifica e fungere allo stesso tempo da fabbrica del mondo.

L’invasione russa dell’Ucraina, ma ancor di più la crisi aperta tra Hamas e Tel Aviv ha palesemente posto il governo americano di fronte alla evidenza di non essere più in grado di imporre a nessuno dei contendenti una parola definitiva. Le esitazioni dei Paesi europei nell’aiutare militarmente il governo di Kiev così come i continui e inconcludenti viaggi in medioriente del Segretario di Stato USA Antony Blinken, testimoniano della scarsa presa che gli Stati Uniti hanno ormai in numerosi scacchieri strategici. Appare chiaro che la questione evidenziata da Trump è molto più ampia e complessa del reclamare il pagamento del canone NATO al 2% del PIL. Le risorse americane, sia politiche, sia militari, sono ancora molto consistenti ma non infinite e questo sta spingendo non solo The Donald a una richiesta di aiuto che l’Europa non sembra però voler recepire.
L’America può far dunque a meno dell’Europa? Certamente no e in questo lo strumento dell’Alleanza Atlantica rimane indispensabile alle strategie di Washington. Tuttavia, la NATO non è più lo strumento che, con un antico aforisma, serviva a tenere dentro l’America, fuori la Russia e sotto la Germania. In aggiunta l’America si sta sempre più rendendo conto che l’Europa non sarà certo l’unico e neppure il principale teatro di confronto per la supremazia mondiale come era stato dagli anni Quaranta del secolo scorso fino alla scomparsa dell’URSS. Per oltre quarant’anni USA e URSS concordavano sul fatto che un ipotetico scontro militare tra i loro due blocchi, forse anche nucleare, sarebbe avvenuto in Europa e in particolare in Germania e in Italia. In questa previsione gli Stati Uniti avevano garantito una massiccia presenza militare sul Vecchio continente, presenza che in alcuni periodi aveva sfiorato quasi il mezzo milione di soldati.

Oggi gli Stati Uniti mantengono in Europa 160 basi principali e un’ottantina di istallazioni minori, alcune davvero minuscole. Germania e Italia sono ancora gli stati che ne ospitano in maggior numero: 110 in Germania e 44 da noi. Nei registri del Defense Manpower Data Center del Pentagono si leggeva che a marzo 2020 in Germania c’erano 36 mila uomini in servizio attivo più 11 mila civili. In Italia i militari erano invece circa 12 mila mentre il personale civile si attestava sulle 2.500 unità. Questo però ben prima dell’invasione russa dell’Ucraina che ha convinto l’amministrazione Biden ad aumentare la presenza di truppe americane in Europa, specialmente ad est, ma con numeri assolutamente imparagonabili a quelli raggiunti durante la Guerra fredda.
Il messaggio lanciato dagli Stati Uniti all’Europa è dunque chiaro: preparatevi a gestire in autonomia la deterrenza del Vecchio continente contro le possibili minacce vuoi quelle della Federazione russa, vuoi quelle provenienti dal fianco sud dell’Alleanza e in particolare dal Mediterraneo compreso i suoi imbocchi come Suez e i Bab-El-Mandeb.
Viene da chiedersi a questo punto cosa accadrebbe all’Europa se in caso di guerra. L’applicazione del famoso articolo V del trattato Nord atlantico sarebbe davvero così automatico? Di certo non si può pensare che l’America non prenderebbe parte in un simile scenario, ma la vera domanda è fino a che punto si impegnerebbe. Di certo non più come ai tempi della Seconda guerra mondiale e neppure come durante Guerra fredda. E allora?
Agli occhi di Washington la difesa, ma soprattutto la gestione, della sicurezza in Europa deve essere sempre più un affare europeo e sempre meno un problema americano, anche se Biden e di certo lo stesso Trump sanno perfettamente che il Vecchio continente rimarrà un Teatro molto importante nello scacchiere mondiale.
Importante ma non vitale come invece appare essere quello dell’indo-pacifico. È qui che secondo la maggior parte degli analisti si giocherà la vera partita, quella decisiva per il nuovo assetto del mondo. Inutile ricordare che si parla del confronto tra Stati Uniti e Cina popolare, un confronto al quale l’Europa non può che guardare da lontano visto che non dispone di assetti militari adeguati ad affrontare un eventuale conflitto aero-navale su ampia scala.

Come sta reagendo l’Europa a questo che si annuncia non come un mero mutamento di strategia, ma un ben più ampio riequilibrio delle priorità planetarie del suo maggior alleato? Verrebbe da dire poco e male. Poco perché i governi europei e le loro emanazioni nel settore della difesa sembrano ancora sonnecchiare nel dormiveglia post caduta del muro di Berlino. La fine della Unione sovietica e con essa del pericolo di una guerra ampia in Europa ha consentito loro di godere di un trentennio di assoluta tranquillità in cui si è potuto provvedere indisturbati a liquidare gli eserciti di leva, ridurne le componenti corazzate e meccanizzate, minimizzare l’artiglieria terrestre per votarsi anima e corpo a piccoli eserciti capaci di gestire operazioni di pace e poco più. Mentre l’America viveva la tragedia delle Torri Gemelle, veniva percossa dalla crisi finanziaria del 2008 e combatteva inutilmente le guerre della dottrina Bush, l’Europa rimaneva ancora tenacemente convinta che il compito di intervenire in un ipotetico e lontanissimo conflitto generale sarebbe toccato ancora e in toto all’America l’unica a non aver rinunciato a possedere un esercito degno di questo nome. D’altra parte, essere l’Impero trionfante su quello del Male qualche prezzo doveva pur comportarlo. Dopo tre decenni di sonni tranquilli il risveglio è stato però traumatico a Parigi come a Berlino, a Roma come a Madrid.
L’aggressione russa all’Ucraina ha infatti messo in piena luce che l’Europa non ha oggi strumenti per sostituirsi agli Stati Uniti nella gestione del suo stesso spazio geopolitico. Lo ribadisce ad ogni piè sospinto Ursula Von der Leyen predicando la necessità di una ipotetica difesa europea; lo stesso fa il presidente francese Macron seguito con più o meno convinzione da tutti gli altri leader europei. La realtà è che oggi e nel prossimo futuro l’Europa, intesa come l’insieme degli Stati componenti, non è e non sarà in grado di schierare nessuna forza che abbia una qualche credibilità militare, almeno non senza il decisivo apporto degli Stati Uniti che, come abbiamo detto, appaiono sempre più recalcitranti.

Anche sul termine “Europa” e “Unione Europea” ci sarebbe da puntualizzare un paio di aspetti. Il primo riguarda la esistenza stessa dell’Unione come soggetto politico in grado di assumere decisioni valide per tutti gli stati membri. Come la precedente e senz’altro assai meno drammatica esperienza della pandemia da Covid ha dimostrato, l’Unione Europea non ha gli strumenti, la forza politica e neppure l’organizzazione per reagire unitariamente ad una qualsiasi emergenza. Questo è tutt’ora compito esclusivo degli Stati che ne fanno parte che reagiscono ciascuno a suo modo e perseguendo obiettivi nazionali. Il secondo aspetto riguarda l’effetto cosmetico e anestetizzante che la parola “Europa” ha nei confronti dei popoli del Vecchio continente e delle loro classi dirigenti. Illudendosi di vivere in una sorta di versione liberal degli Stati Uniti, gli Europei continuano a far finta di non vedere che sono ancora i loro vecchi stati, quelli usciti dalla pace di Westfalia del 1648 e dalla Seconda guerra mondiale, a decidere dei destini dei rispettivi popoli e che l’Europa è solo un termine utilizzato come alibi per l’insipienza di classi dirigenti sempre meno competenti e sempre più legate all’effimera popolarità del qui e ora. Autocrazie o “Democrature” come quella russa o cinese hanno ben compreso natura e debolezza di quella che più che un’unione appare essere un mercato comune a moneta unica dove si incontrano e scontrano politiche diverse e spesso contrastanti.
Henry Kissinger, di recente scomparso, quando chiedeva che numero di telefono dovesse comporre nel caso volesse chiamare l’Europa ben sintetizzava l’ineffabile costruzione europea i cui gli Stati membri affrontano in ordine sparso e con sensibilità diverse ogni problema, compreso quello fondamentale di chi li difenderà e a quale prezzo. Certo, Polonia, Stati Baltici e adesso Finlandia e Svezia sentono molto più di Belgio, Olando o Italia il fiato sul collo dell’orso russo e si dichiarano quindi pronti a sostenere anche pesanti sacrifici per tenerlo in gabbia. Ma non è così per tutti, anzi, per alcuni, come la Germania, si tratterebbe di riposizionarsi completamente rispetto a decenni di politiche di sostegno e cooperazione con la Russia. Il patto tecnologia in cambio di energia ha infatti cementato il legame tra Mosca e Berlino che ha consentito a quest’ultimo di gestire da una posizione particolarmente vantaggiosa le turbolente dinamiche industriali degli ultimi due decenni. Un legame utile assolutamente inviso a Washington che non riusciva a capire come il suo più potente alleato europeo facesse affari d’oro con il suo maggior nemico, vale a dire la Russia e la distruzione del gasdotto north stream 2 ha ben rappresentato la misura di questo disappunto. D’altra parte, la progressiva vicinanza tra la maggiore potenza economico-industriale dell’Europa occidentale e il più grande produttore di materie prime dell’emisfero settentrionale, per giunta contiguo ad un altro partner strategico per Berlino come la Cina popolare, rischiava di costruire nel tempo un blocco potenzialmente antagonista a quello statunitense così come a quello cinese e, si sa, in un pollaio nuovi galli non sono mai bene accetti. Che dire poi dell’Italia che sotto i governi pentastellati aveva aderito entusiasticamente alla via della seta cinese attendendosi meravigliosi orizzonti di sviluppo e ricchezza finché qualcuno a Washington aveva fatto notare a Roma che allearsi con il maggior nemico della propria potenza di riferimento non era davvero una grande idea. La retromarcia, costosa per le casse dello stato italiano è stata obbligata ma almeno non così traumatica come quella tedesca. Si potrebbe aggiungere a questo punto anche l’iniziativa detta del “trimarium” che lega i Paesi dell’Europa orientale in una sorta di patto economico-infrastrutturale dal Baltico all’Adriatico e che fin’ora è stato benedetto da tutte le amministrazioni americane, compresa quella Trump. In questo clima in cui ogni Stato cerca di farsi strada per suo conto ecco, quindi, che la NATO torna a svolgere con forza la missione strategica richiamata all’inizio, cioè di tenere fuori i russi e sotto i tedeschi, magari potenziando rivali storici di entrambi come i polacchi.
In tutto questo fluttuare di faglie geopolitiche in cui grandi blocchi si avvicinano e allontanano seguendo leggi spesso imperscrutabili che ruolo può avere il nostro Paese?
Quando nel luglio del 1943 gli Alleati sbarcarono in Sicilia, insieme alle Camel, alle Lucky Strike e alle AMLIRE, portarono l’impegno a difendere la Penisola dall’Unione Sovietica e dal suo blocco che allora iniziava giusto fuori Trieste. L’avrebbero fatto con o senza le ricostituite forze armate italiane anche se un aiuto, ancorché simbolico, sarebbe stato apprezzato. Non si trattava certo di un gesto di solidarietà e di sostegno verso un ex-nemico, ma l’indispensabile necessità di porre sotto tutela diretta uno spazio geo-strategico vitale per gli interessi americani del tempo. L’unico in cui l’Unione sovietica poteva tentare un colpo di mano per incamerare il resto dell’Europa nel paradiso del socialismo reale. Sul resto del pianeta la bandiera a stelle e strisce non correva alcun serio pericolo. Su questo assioma così rozzamente riassunto ogni governo della Repubblica italiana ha costruito la propria politica di difesa. “Ci pensano gli Americani” sarebbe potuto essere assunto a motto delle Forza armate repubblicane, ma come si è accennato in precedenza, dagli inizi degli anni Duemila le cose sono radicalmente cambiate e la storia si è rimessa in movimento (ammesso che si sia mai fermata). Di questa ripartenza i governi che dal 1990 fino ad oggi si sono succeduti alla guida del Paese sembrano tuttavia non essersi accorti.

Anche di fronte al palese disimpegno statunitense, alla guerra nella ex-Jugoslavia prima e a quella attuale in Ucraina tutti i governi italiani hanno continuato a sognare che tutto, prima o poi, sarebbe tornato come prima con gli americani che ci avrebbero detto cosa fare, quando farlo e anche come. In assenza di direttive da Washington l’establishment nazionale si è quindi comportato e continua a comportarsi come un coniglio abbaiato dai fari di un’automobile. Sbigottito e immobile.
Eppure proprio in questo momento ci sarebbero gli spazi per una politica estera e di difesa che tuteli gli interessi nazionali. Si potrebbe tentare la via per ricostruire una sfera di interesse italiano nel nostro estero vicino che significa Mediterraneo centrale, Africa settentrionale e Balcani. Gli americani che chiedono all’Europa più partecipazione sono infatti disposti a concedere anche maggiore autonomia all’interno dello storico quadro dell’Alleanza. La Turchia a tal riguardo è un esempio più che illuminante, come lo sono la Francia o altri stati come la Polonia o, per altri versi, l’Ungheria. L’Italia invece sembra attendere il ritorno della bella stagione senza far caso che ormai l’intero pianeta è attraversato dai cambiamenti climatici.