Ma l’America è lontana, dall’altra parte della luna…

Davvero gli americani ci vogliono mollare?

Conway, South Carolina è una delle tante cittadine dell’America profonda, quelle di cui non si sente mai parlare se non quando qualcuno entra sparando in una scuola oppure un tornado di categoria F4 le spiana. È in posti come Conway che vive la maggior parte dei sostenitori della “America first” di Donald Trump. Dalle casette color pastello, con il prato falciato e la Old Glory che ciondola sotto il portico l’Europa sembra lontanissima come il resto del mondo d’altronde. Proprio a Conway, nel febbraio scorso, alla domanda se l’America fosse disposti a difendere un paese NATO qualora questo non avesse rispettato l’obiettivo di destinare il 2% del proprio PIL alla difesa, The Donald, con il suo leggendario garbo, aveva risposto: “No, I would not protect you. In fact, I would encourage them (the Russian) to do whatever the hell they want. You got to pay. You got to pay your bills.” (No, Io non vi proteggerò. Anzi, incoraggerei (i russi) a fare quel che cazzo vogliono. Tu devi pagare. Devi pagare i conti”).

Dunque, è così che stanno le cose? Davvero l’America vuole dirci “sbrigatevela da soli” proprio mentre i russi aggrediscono l’Ucraina, a Gaza Israele sfiora la guerra grande in Medioriente; con l’Iran che potrebbe non essere lontano dall’Atomica, gli Houti a minacciare gli accessi al Mar Rosso e la Cina che digrigna i denti contro Taiwan? Visto da questa sponda dell’Atlantico quello che viene minacciato dall’altra appare davvero incredibile, ma per quanto increduli noi europei dovremo iniziare a fare i conti con qualche elemento di realtà; che ci piaccia o no.

La delicata affermazione di Trump ci racconta infatti di quanto in America sia oggi diffuso e robusto il movimento di opinione che vorrebbe “America First” e forse addirittura “America only”. Dopo l’infinita guerra in Afghanistan che si è andata ad aggiungere a quella altrettanto infinita in Iraq, l’America è stanca di guerre inconcludenti e spesso insensate e non reclama più con orgoglio il ruolo di gendarme del mondo. E non basta. Anche il fascino della Vecchia Europa come culla della civiltà americana sta perdendo colpi. L’incalzare dell’ideologia Woke e della cancel culture sta facendo percepire a molti americani di non essere più, come avevano creduto per decenni, una positiva evoluzione degli europei, ma di essere altro: americani, appunto.

Non si tratta peraltro di un sentimento condiviso solo tra le classi medio-basse della popolazione; tutt’altro. Anche alcune porzioni per nulla marginali dell’establishment sostengono ormai da tempo e con dovizia di argomentazioni come il legame tra le due sponde dell’Atlantico, fino a trent’anni fa assolutamente indiscutibile, si sia nel frattempo sfilacciato e allentato e non solo per responsabilità dei Paesi europei.

Dopo il risveglio dal sogno del “secolo americano”, con la sua globalizzazione a stelle e strisce e la sua fine della storia, Washington non può più sottrarsi al suo dilemma strategico, vale a dire dall’aver preso coscienza in primo luogo che la fine della guerra fredda non ha affatto creato un mondo globalizzato a guida americana, ma, al contrario, ha dato il via a un multipolarismo conflittuale e, in secondo luogo, di non essere più politicamente e militarmente in grado di sostenere un confronto armato di alta intensità su due fronti lontani e distinti. Volendo qui portare un esempio la Washington del 2024 non è più in grado come quella del 1941 di sostenere contemporaneamente un conflitto in Europa e uno nell’area indo-pacifica e fungere allo stesso tempo da fabbrica del mondo.

L’invasione russa dell’Ucraina, ma ancor di più la crisi aperta tra Hamas e Tel Aviv ha palesemente posto il governo americano di fronte alla evidenza di non essere più in grado di imporre a nessuno dei contendenti una parola definitiva. Le esitazioni dei Paesi europei nell’aiutare militarmente il governo di Kiev così come i continui e inconcludenti viaggi in medioriente del Segretario di Stato USA Antony Blinken, testimoniano della scarsa presa che gli Stati Uniti hanno ormai in numerosi scacchieri strategici. Appare chiaro che la questione evidenziata da Trump è molto più ampia e complessa del reclamare il pagamento del canone NATO al 2% del PIL. Le risorse americane, sia politiche, sia militari, sono ancora molto consistenti ma non infinite e questo sta spingendo non solo The Donald a una richiesta di aiuto che l’Europa non sembra però voler recepire.

L’America può far dunque a meno dell’Europa? Certamente no e in questo lo strumento dell’Alleanza Atlantica rimane indispensabile alle strategie di Washington. Tuttavia, la NATO non è più lo strumento che, con un antico aforisma, serviva a tenere dentro l’America, fuori la Russia e sotto la Germania. In aggiunta l’America si sta sempre più rendendo conto che l’Europa non sarà certo l’unico e neppure il principale teatro di confronto per la supremazia mondiale come era stato dagli anni Quaranta del secolo scorso fino alla scomparsa dell’URSS. Per oltre quarant’anni USA e URSS concordavano sul fatto che un ipotetico scontro militare tra i loro due blocchi, forse anche nucleare, sarebbe avvenuto in Europa e in particolare in Germania e in Italia. In questa previsione gli Stati Uniti avevano garantito una massiccia presenza militare sul Vecchio continente, presenza che in alcuni periodi aveva sfiorato quasi il mezzo milione di soldati.

Oggi gli Stati Uniti mantengono in Europa 160 basi principali e un’ottantina di istallazioni minori, alcune davvero minuscole. Germania e Italia sono ancora gli stati che ne ospitano in maggior numero: 110 in Germania e 44 da noi. Nei registri del Defense Manpower Data Center del Pentagono si leggeva che a marzo 2020 in Germania c’erano 36 mila uomini in servizio attivo più 11 mila civili. In Italia i militari erano invece circa 12 mila mentre il personale civile si attestava sulle 2.500 unità. Questo però ben prima dell’invasione russa dell’Ucraina che ha convinto l’amministrazione Biden ad aumentare la presenza di truppe americane in Europa, specialmente ad est, ma con numeri assolutamente imparagonabili a quelli raggiunti durante la Guerra fredda.

Il messaggio lanciato dagli Stati Uniti all’Europa è dunque chiaro: preparatevi a gestire in autonomia la deterrenza del Vecchio continente contro le possibili minacce vuoi quelle della Federazione russa, vuoi quelle provenienti dal fianco sud dell’Alleanza e in particolare dal Mediterraneo compreso i suoi imbocchi come Suez e i Bab-El-Mandeb.

Viene da chiedersi a questo punto cosa accadrebbe all’Europa se in caso di guerra. L’applicazione del famoso articolo V del trattato Nord atlantico sarebbe davvero così automatico? Di certo non si può pensare che l’America non prenderebbe parte in un simile scenario, ma la vera domanda è fino a che punto si impegnerebbe. Di certo non più come ai tempi della Seconda guerra mondiale e neppure come durante Guerra fredda. E allora?

 Agli occhi di Washington la difesa, ma soprattutto la gestione, della sicurezza in Europa deve essere sempre più un affare europeo e sempre meno un problema americano, anche se Biden e di certo lo stesso Trump sanno perfettamente che il Vecchio continente rimarrà un Teatro molto importante nello scacchiere mondiale.

Importante ma non vitale come invece appare essere quello dell’indo-pacifico. È qui che secondo la maggior parte degli analisti si giocherà la vera partita, quella decisiva per il nuovo assetto del mondo. Inutile ricordare che si parla del confronto tra Stati Uniti e Cina popolare, un confronto al quale l’Europa non può che guardare da lontano visto che non dispone di assetti militari adeguati ad affrontare un eventuale conflitto aero-navale su ampia scala.

Come sta reagendo l’Europa a questo che si annuncia non come un mero mutamento di strategia, ma un ben più ampio riequilibrio delle priorità planetarie del suo maggior alleato? Verrebbe da dire poco e male. Poco perché i governi europei e le loro emanazioni nel settore della difesa sembrano ancora sonnecchiare nel dormiveglia post caduta del muro di Berlino. La fine della Unione sovietica e con essa del pericolo di una guerra ampia in Europa ha consentito loro di godere di un trentennio di assoluta tranquillità in cui si è potuto provvedere indisturbati a liquidare gli eserciti di leva, ridurne le componenti corazzate e meccanizzate, minimizzare l’artiglieria terrestre per votarsi anima e corpo a piccoli eserciti capaci di gestire operazioni di pace e poco più. Mentre l’America viveva la tragedia delle Torri Gemelle, veniva percossa dalla crisi finanziaria del 2008 e combatteva inutilmente le guerre della dottrina Bush, l’Europa rimaneva ancora tenacemente convinta che il compito di intervenire in un ipotetico e lontanissimo conflitto generale sarebbe toccato ancora e in toto all’America l’unica a non aver rinunciato a possedere un esercito degno di questo nome. D’altra parte, essere l’Impero trionfante su quello del Male qualche prezzo doveva pur comportarlo. Dopo tre decenni di sonni tranquilli il risveglio è stato però traumatico a Parigi come a Berlino, a Roma come a Madrid.

L’aggressione russa all’Ucraina ha infatti messo in piena luce che l’Europa non ha oggi strumenti per sostituirsi agli Stati Uniti nella gestione del suo stesso spazio geopolitico. Lo ribadisce ad ogni piè sospinto Ursula Von der Leyen predicando la necessità di una ipotetica difesa europea; lo stesso fa il presidente francese Macron seguito con più o meno convinzione da tutti gli altri leader europei. La realtà è che oggi e nel prossimo futuro l’Europa, intesa come l’insieme degli Stati componenti, non è e non sarà in grado di schierare nessuna forza che abbia una qualche credibilità militare, almeno non senza il decisivo apporto degli Stati Uniti che, come abbiamo detto, appaiono sempre più recalcitranti.

MIL 26 – Ciad

Anche sul termine “Europa” e “Unione Europea” ci sarebbe da puntualizzare un paio di aspetti. Il primo riguarda la esistenza stessa dell’Unione come soggetto politico in grado di assumere decisioni valide per tutti gli stati membri. Come la precedente e senz’altro assai meno drammatica esperienza della pandemia da Covid ha dimostrato, l’Unione Europea non ha gli strumenti, la forza politica e neppure l’organizzazione per reagire unitariamente ad una qualsiasi emergenza. Questo è tutt’ora compito esclusivo degli Stati che ne fanno parte che reagiscono ciascuno a suo modo e perseguendo obiettivi nazionali. Il secondo aspetto riguarda l’effetto cosmetico e anestetizzante che la parola “Europa” ha nei confronti dei popoli del Vecchio continente e delle loro classi dirigenti. Illudendosi di vivere in una sorta di versione liberal degli Stati Uniti, gli Europei continuano a far finta di non vedere che sono ancora i loro vecchi stati, quelli usciti dalla pace di Westfalia del 1648 e dalla Seconda guerra mondiale, a decidere dei destini dei rispettivi popoli e che l’Europa è solo un termine utilizzato come alibi per l’insipienza di classi dirigenti sempre meno competenti e sempre più legate all’effimera popolarità del qui e ora. Autocrazie o “Democrature” come quella russa o cinese hanno ben compreso natura e debolezza di quella che più che un’unione appare essere un mercato comune a moneta unica dove si incontrano e scontrano politiche diverse e spesso contrastanti.

Henry Kissinger, di recente scomparso, quando chiedeva che numero di telefono dovesse comporre nel caso volesse chiamare l’Europa ben sintetizzava l’ineffabile costruzione europea i cui gli Stati membri affrontano in ordine sparso e con sensibilità diverse ogni problema, compreso quello fondamentale di chi li difenderà e a quale prezzo. Certo, Polonia, Stati Baltici e adesso Finlandia e Svezia sentono molto più di Belgio, Olando o Italia il fiato sul collo dell’orso russo e si dichiarano quindi pronti a sostenere anche pesanti sacrifici per tenerlo in gabbia. Ma non è così per tutti, anzi, per alcuni, come la Germania, si tratterebbe di riposizionarsi completamente rispetto a decenni di politiche di sostegno e cooperazione con la Russia. Il patto tecnologia in cambio di energia ha infatti cementato il legame tra Mosca e Berlino che ha consentito a quest’ultimo di gestire da una posizione particolarmente vantaggiosa le turbolente dinamiche industriali degli ultimi due decenni. Un legame utile assolutamente inviso a Washington che non riusciva a capire come il suo più potente alleato europeo facesse affari d’oro con il suo maggior nemico, vale a dire la Russia e la distruzione del gasdotto north stream 2 ha ben rappresentato la misura di questo disappunto. D’altra parte, la progressiva vicinanza tra la maggiore potenza economico-industriale dell’Europa occidentale e il più grande produttore di materie prime dell’emisfero settentrionale, per giunta contiguo ad un altro partner strategico per Berlino come la Cina popolare, rischiava di costruire nel tempo un blocco potenzialmente antagonista a quello statunitense così come a quello cinese e, si sa, in un pollaio nuovi galli non sono mai bene accetti. Che dire poi dell’Italia che sotto i governi pentastellati aveva aderito entusiasticamente alla via della seta cinese attendendosi meravigliosi orizzonti di sviluppo e ricchezza finché qualcuno a Washington aveva fatto notare a Roma che allearsi con il maggior nemico della propria potenza di riferimento non era davvero una grande idea. La retromarcia, costosa per le casse dello stato italiano è stata obbligata ma almeno non così traumatica come quella tedesca. Si potrebbe aggiungere a questo punto anche l’iniziativa detta del “trimarium” che lega i Paesi dell’Europa orientale in una sorta di patto economico-infrastrutturale dal Baltico all’Adriatico e che fin’ora è stato benedetto da tutte le amministrazioni americane, compresa quella Trump. In questo clima in cui ogni Stato cerca di farsi strada per suo conto ecco, quindi, che la NATO torna a svolgere con forza la missione strategica richiamata all’inizio, cioè di tenere fuori i russi e sotto i tedeschi, magari potenziando rivali storici di entrambi come i polacchi.

In tutto questo fluttuare di faglie geopolitiche in cui grandi blocchi si avvicinano e allontanano seguendo leggi spesso imperscrutabili che ruolo può avere il nostro Paese?

Quando nel luglio del 1943 gli Alleati sbarcarono in Sicilia, insieme alle Camel, alle Lucky Strike e alle AMLIRE, portarono l’impegno a difendere la Penisola dall’Unione Sovietica e dal suo blocco che allora iniziava giusto fuori Trieste. L’avrebbero fatto con o senza le ricostituite forze armate italiane anche se un aiuto, ancorché simbolico, sarebbe stato apprezzato. Non si trattava certo di un gesto di solidarietà e di sostegno verso un ex-nemico, ma l’indispensabile necessità di porre sotto tutela diretta uno spazio geo-strategico vitale per gli interessi americani del tempo. L’unico in cui l’Unione sovietica poteva tentare un colpo di mano per incamerare il resto dell’Europa nel paradiso del socialismo reale. Sul resto del pianeta la bandiera a stelle e strisce non correva alcun serio pericolo. Su questo assioma così rozzamente riassunto ogni governo della Repubblica italiana ha costruito la propria politica di difesa. “Ci pensano gli Americani” sarebbe potuto essere assunto a motto delle Forza armate repubblicane, ma come si è accennato in precedenza, dagli inizi degli anni Duemila le cose sono radicalmente cambiate e la storia si è rimessa in movimento (ammesso che si sia mai fermata). Di questa ripartenza i governi che dal 1990 fino ad oggi si sono succeduti alla guida del Paese sembrano tuttavia non essersi accorti.

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Anche di fronte al palese disimpegno statunitense, alla guerra nella ex-Jugoslavia prima e a quella attuale in Ucraina tutti i governi italiani hanno continuato a sognare che tutto, prima o poi, sarebbe tornato come prima con gli americani che ci avrebbero detto cosa fare, quando farlo e anche come. In assenza di direttive da Washington l’establishment nazionale si è quindi comportato e continua a comportarsi come un coniglio abbaiato dai fari di un’automobile. Sbigottito e immobile.

Eppure proprio in questo momento ci sarebbero gli spazi per una politica estera e di difesa che tuteli gli interessi nazionali. Si potrebbe tentare la via per ricostruire una sfera di interesse italiano nel nostro estero vicino che significa Mediterraneo centrale, Africa settentrionale e Balcani. Gli americani che chiedono all’Europa più partecipazione sono infatti disposti a concedere anche maggiore autonomia all’interno dello storico quadro dell’Alleanza. La Turchia a tal riguardo è un esempio più che illuminante, come lo sono la Francia o altri stati come la Polonia o, per altri versi, l’Ungheria. L’Italia invece sembra attendere il ritorno della bella stagione senza far caso che ormai l’intero pianeta è attraversato dai cambiamenti climatici.

La fede ci voterà.

perché le elezioni europee sono una questione di religione.

Melzo, provincia di Milano, primavera 1906. Dal caseificio Davide Galbani esce per la prima volta una delle eccellenze italiane: il formaggio Bel Paese. A volerlo era stato il cavalier Egidio, figlio di Davide, un lumbard classe 1858 che s’era messo in testa di competere con in formaggi francesi producendone uno tutto suo, leggermente stagionato, a pasta morbida e dal nome italianissimo di “Bel Paese”.

Ogni Italiano, se non intollerante al lattosio, lo ha assaggiato almeno una volta magari ricordando lo slogan che negli anni ’70 del ‘900 accompagnava tutti prodotti della Galbani: “la fiducia è una cosa seria, che si da alle cose serie”. E come dare torto agli eredi di Egidio? La fiducia è davvero una cosa seria, anzi serissima. A differenza di altri sentimenti umani come l’amicizia o la stima, la fiducia, come l’amore, non ha bisogno né di prove, né di spiegazioni. La provi e basta. Non a caso fiducia e fede hanno origine comuni. “Beati coloro che crederanno senza vedere” sottolineò addirittura Gesù rivolgendosi a Tommaso che, a scanso d’equivoci, per convincersi della resurrezione di nostro Signore aveva avuto bisogno di mettere il dito nelle piaghe della Croce.

Non c’è niente di male a non avere fede o fiducia, prova ne è che l’apostolo Tommaso l’hanno fatto santo lo stesso. Tuttavia, se uno non ci nasce è davvero difficile che se la faccia venire in corso d’opera. Privo della fede il novello Tommaso ha sempre bisogno di prove, di ragionamenti, di fatti inconfutabili e di evidenze per pensare che non lo si stia buggerando. E spesso non basta. Vorrebbe vedere di persona, ficcare il naso, fare domande per evitare d’essere perculato dal prestigiatore di turno. E neppure questo gli basterebbe perché, in fondo, Tommaso sa bene che un bravo prestigiatore è sempre in grado di venderti l’illusione della realtà. In definitiva Tommaso è condannato a una vita d’incertezza e dubbio. Molto meglio vivono quelli che credono senza vedere.

Tra questi fortunati ci sono gli elettori che tra il 6 e il 9 giugno andranno a votare per l’elezione del nuovo parlamento europeo. Si deve indubbiamente trattare di gente sostenuta da una fede talmente incrollabile nell’Europa e nei sui rappresentanti da far invidia a un martire cristiano dei primi secoli. Questi davvero credono nell’Europa, una e trina; creatrice del cielo e dello spread; figlia unigenita di Euro, generato e non creato dalla Banca Centrale. Professano una sola Patria d’azzurro dipinta e pluristellata e aspettano la dissoluzione di ogni Stato e la ubertosa prateria che verrà. Chi se la sente può anche dire Amen.

Hai voglia tu a dirgli che da un punto di vista scientifico l’Unione Europea è solo un forum di Stati che, alleandosi e opponendosi l’un l’altro, perseguono il proprio interesse nazionale. Non serve a nulla ricordare che senza in governo comune, una politica estera comune e una difesa comune in nessuna parte del pianeta può sopravvivere una creatura politica gracile come un’Unione quale essa sia. Se lo ricordano bene gli americani che al tempo di Abramo Lincoln per oltre quattro anni si sono presi a fucilate l’un l’altro prima di stabilire la loro di Unione che infatti ha un suo governo, una sua moneta, una sua politica interna e, incredibile a dirsi, anche una estera. Insomma, si comporta tale e quale ad uno Stato. Anche la Federazione russa di Vladimiro ha sofferto della dissoluzione della sua unione, a quel tempo sovietica, e per ricostituirsi come Federazione ha scatenato qualche guerra interna al solo scopo di render chiaro a tutti quali fossero i suoi valori fondanti. C’è qualcuno che, ragionevolmente, può fare lo stesso per l’Unione Europea? Certo che no. Per questo si deve ricorrere alla fede.

Una fede ancora maggiore è richiesta peraltro per guardare a quelli che oggi si candidano a rappresentarci. Pur tralasciando gli aspetti fisiognomici di alcuni tra loro, aspetti che farebbero bella mostra di sé in una delle pagine de “L’uomo delinquente” del Lombroso, si potrebbe essere tentati dal ricordare le mirabolanti gesta e le meditate decisioni di quelli che si sono già seduti sugli scranni dell’europarlamento. Tutto inutile. A chi ha fede cosa vuoi che importi che Salvini Matteo si prefigga di andare in Europa per difendere la casa e l’auto degli italiani (perché poi non le moto o le biciclette?), oppure che il nostro Presidente del Consiglio voglia essere eletta a tutti i costi, previa specificare che lei in Europa non andrebbe mai. A lei è sufficiente che gli sia dia un attestato di stima e di affetto scrivendo “Giorgia”. Che Amore! Anche Schlein o Calenda si sono affrettati a candidarsi, ma per non andare. A qualcuno verrebbe da dire: “ma che cazzo ti candidi a fare se poi a Bruxelles non vai neppure a prendere un caffè gourmand, un piatto di moules a la crème o una carbonade flamande? Stai a casa che risparmi tempo e soldi”. Inutile. Ai fedeli europeisti le ragioni di questo mistero imperscrutabile risultano limpide e chiare come acqua di fonte. Qualcuno tenterà, forse, di ricordare ai Crociati Unionisti che tutte, ma proprio tutte le leggi europee che ci stanno incasinando la vita sono state votate dagli stessi che ora giurano che le prossime non le voteranno mai. Tutte, nessuna esclusa. Fatica sprecata.

Si potrebbe continuare rammentando l’entusiasmante gestione della pandemia ultima scorsa o quella della attuale guerra russo-ucraina per tacere del trattamento riservato alla Grecia pochi anni fa, passando per le politiche green, le auto elettriche, le case ecologiche e quante altre scemenze volete voi. Anche questo è del tutto inutile. Chi ha fede è capace di camminare sui carboni ardenti, di librarsi in aria con una mistica levitazione e anche di credere nella Unione Europea. Tutti gli altri, tra i quali, ahimé, devo contarmi anch’io, la fiducia la accordiamo solo al Bel Paese del cavalier Egidio Galbani.

I fantasmi di aprile.

Quell’anno, il 1945, un insolito caldo stava avvampando gli ultimi giorni di Aprile, specie su al nord o, come si diceva allora, in “Alta Italia“. A Modena la massima aveva sfiorato i 27°, a Milano si era attorno ai 24° e anche sul resto d’Italia splendeva un bel sole che annunciava un’estate da ricordare.

A Milano l’ultimo bombardamento aereo era capitato dieci giorni prima. La notte del 12 aprile, bombardieri inglesi avevano sganciato un po’ su tutta la città; gravi i danni, ma un solo morto. La notte seguente c’era stata un’altra incursione, questa volta più limitata, che ancora una volta aveva colpito gli scali ferroviari a nord. Lunedì 16, nel giorno in cui la chiesa ricorda Santa Bernadetta, la ragazzina che a Lourdes parlava con la Madonna, una coppia di caccia aveva infine mitragliato a bassa quota quello che era sembrato essere un convoglio: tre i morti. Poi più nulla.

Già dalle prime ore del mattino di quel mercoledì un cielo d’orzata annunciava un’altra giornata afosa sopra Milano. In città arrivava l’odore dolce e tiepida dell’erba nuova e l’aria immobile a stento sfiorava le tremule foglie dei pioppi appena usciti dall’inverno. Poca la gente per strada. All’ora di pranzo una certa agitazione aveva infine animato le vie del centro e le grandi fabbriche tra Sesto e Cinisello. Il Comitato di Liberazione Nazionale dell’Alta Italia aveva infatti ordinato a tutti i gruppi combattenti presenti in città e a quelli che operavano nei dintorni di convergere su Milano per animare l’insurrezione generale prevista per le ore 13 di mercoledì 25 aprile 1945.

Cittadini, lavoratori! Sciopero generale contro l’occupazione tedesca, contro la guerra fascista, per la salvezza delle nostre terre, delle nostre case, delle nostre officine. Come a Genova e a Torino, ponete i tedeschi di fronte al dilemma: arrendersi o perire!” Così recitava il proclama affisso sui muri della città e che migliaia di sghembi volantini stampati in fretta chissà dove diffondevano per le vie. La sera del 25 aprile gli ultimi tedeschi lasciavano la città. Sconfitti e rabbiosi come nel 1918 risalivano “… in disordine e senza speranza le valli che avevano disceso anni prima con orgogliosa sicurezza“.

Quel mercoledì insolitamente caldo per il mese d’Aprile l’Italia chiudeva un periodo iniziato tanti anni prima. Era stata un Italia diversa quella che il 28 ottobre 1922 di fronte allo sconcerto di una guerra vinta ma sentita persa, alla povertà, al disordine dei rossi e alle mancate promesse dei padroni aveva pensato che, in fondo, Mussolini fosse il minore dei mali. C’erano voluti vent’anni, altre guerre e altri morti per cambiare idea e decidersi, finalmente, a non credere più negli uomini della provvidenza e ad iniziare a decidere del proprio futuro. Un futuro senza Re, senza Impero, senza Mussolini e, soprattutto, senza guerra.

Da quel giorno sono trascorsi gli anni di una vita intera e oggi sopravvivono solo i ragazzini di allora. I giovani partigiani, i fascisti del Maresciallo Graziani, i ventenni delle SS e anche i G-I americani che entrarono in città sotto un cielo d’orzata sono tutti morti. Anche i potenti che quella guerra la vollero e quelli che furono costretti a combatterla sono morti da tanti anni. Le Nazioni e le Patrie avvolte nei drappi delle bandiere e con la spada in mano, in nome e per conto delle quali si morì quel giorno e nei giorni precedenti non ci sono più. Al loro posto si sono preferiti i Paesi e la loro versione burocratica: gli Stati. L’Europa azzoppata dalla guerra e ridotta in macerie pian piano ha sepolto gli “ismi” più mortiferi di quegli anni: il nazionalismo, il militarismo, il razzismo, il nazional-socialismo, il fascismo e il comunismo. Tutto passato. Tutto finito. Il tempo passa, incidendo le valli e levigando i monti, figurarsi le effimere idee degli uomini.

Ciò che invece il tempo non sembra aver levigato è il desiderio di alcuni di continuare a evocarne gli spettri. Come l’orco o la strega cattiva il fascismo e il suo possibile ritorno viene ancora minacciato per spaventare grandi e piccini nelle notti di tempesta o in quelle di elezioni. L’ha fatto anche Antonio Scurati nel suo monologo che avrebbe dovuto essere letto in RAI in occasione della ricorrenza del 25 aprile. C’ho messo un po’, ma alla fine l’ho trovato e l’ho letto. Un testo fanciullesco e un po’ pasticciato, profondo come le buche di Roma e come quelle del tutto vuoto se non di un limaccioso sedimento di livore con cui si intima a un presidente del consiglio che – nota bene – ha giurato nelle mani del Capo dello Stato di difendere la costituzione repubblicana, di proclamarsi antifascista, come se potesse esserci un’alternativa al non esserlo. Oggi noi tutti possiamo essere conservatori e liberali, progressisti e retrogradi, stupidi o intelligenti, alti o bassi e quant’altro volete voi per differenziarci l’uno dall’altro, ma di certo non siamo più fascisti né comunisti. Semplicemente non ne siamo più capaci. Purtroppo, aggiungo, non siamo più capaci neppure di guardare ai nuovi “ismi”, questi si vivi e crudeli, che animano i nostri sogni formato iKea. Non ci accorgiamo più di un capitalismo senza regole, di un individualismo che mina la base stessa delle società, di un monetarismo che valuta la vita in base al reddito e solo a quello. E neppure ci accorgiamo dell’indeterminismo di genere che cancella uomini e donne sostituendoli con percezioni di sé stessi definite neutralmente fluide e quindi per loro stessa natura, incerte. Caparbi alcuni guardano ancora al passato lontano, indicando mostri invecchiati e un po’ imbolsiti senza sentire il fiato mefitico che i nuovi mostri stanno alitando loro sul collo.