PROMOVEATUR UT AMOVEATUR- IL CASO VANNACCI.

Qualche giorno fa mi era capitato di scrivere due righe circa le “note”; quel documento cioé che periodicamente viene compilato per tutto il personale militare, come si dice in questi casi:” di ogni ordine e grado”. In quella occasione l’argomento valutazione e note caratteristiche era saltato fuori in merito alla penultima polemica che aveva scosso la nostra tremebonda classe digerente (no, non è un errore), quella cioé sulla eventuale valutazione del lavoro dei magistrati attraverso una sorta di “scheda valutativa”. Non avrei immaginato ora che l’ultima polemica, quella sul povero generale Vannacci, mi avrebbe costretto a ritornare su questo argomento, ma ome dicono i giornalisti: prima il fatto.

Il primo fatto è che il Generale di Divisione Vannacci è stato designato a ricoprire l’incarico di Capo di Stato Maggiore del Comando Forze Operative Terrestri, in arte il COMFOTER. Per chi non è del mestiere occorrono un paio di precisazioni che fanno parte ancora dei fatti e non dei commenti.

Secondo fatto. Un Capo di Stato Maggiore non è il capo supremo della difesa interstellare; non è neppure parente di quel Dart Fener che in Guerre Stellari interpretava il male assoluto nella sua declinazione militare. Un Capo di Stato Maggiore non è neppure un despota alla Pinochet e tantomeno guida alcuna armata verso l’immancabile vittoria. Un Capo di Stato maggiore è responsabile della direzione, del coordinamento e del controllo di una serie di uffici o reparti specializzati, appunto lo Stato Maggiore. Tutto qui. In uno stato maggiore troviamo reparti dedicati al Personale, quelli all’Intelligence, quelli che si occupano di sviluppare piani operativi e di preparare ordini e altri che trattano la logistica nei suoi vari aspetti. I grandi Stati Maggiori hanno anche uffici dedicati al cerimoniale, agli affari generali, alle comunicazioni, agli affari legali etc. Come avrete intuito più importante è il comando, più complesso è il suo stato maggiore e di conseguenza elevato il grado del suo Capo di Stato Maggiore. Già, perché di Capi di Stato Maggiore ce n’è un po’ per tutte le tasche. Dalla versione base del Capo di Stato Maggiore di una Brigata o di una scuola, alla versione intermedia di Capo di Stato Maggiore di alti comandi e di comandi d’area per arrivare alla versione de luxe del Capo di Stato Maggiore dell’Esercito o a quella con ancor più accessoriata e full hibrid del Capo di Stato Maggiore della Difesa. Come si vede il cesto dei Capi di Stato Maggiore ne contiene di diversi, come i funghi, e il generale VANNACCI è un fungo prestigioso certo, ma non il Porcino Reale.

Il terzo fatto riguarda ancora l’assegnazione dell’incarico e qui devo svelare un mistero che poi tanto mistero non è: nell’esercito, come peraltro nelle altre Forze Armate, a ciascuno viene assegnato un lavoro, in termine tecnico un incarico. In base a come ciascuno assolverà al proprio incarico verranno quindi compilate le note, sulla base delle quali verrà infine valutato il rendimento di ognuno. Non avere un incarico è dunque una situazione eccezionale e momentanea che può essere dovuta a molteplici cause. Ad esempio un rientro da una malattia, il termine di una missione all’estero o gli esiti di un provvedimento penale o disciplinare. Ogni anno infatti lo Stato Maggiore dell’Esercito assegna a ciascuno un suo incarico, di solito tra ottobre e dicembre. Fuori da questa programmazione il personale può essere posto nella posizione di “a disposizione”, in attesa che gli si trovi un posto adeguato al grado, all’esperienza professionale e alle esigenze della Forza Armata.

Al povero Vannacci è capitato proprio questo. Cessato l’incarico di Direttore dell’Istituto Geografico Militare ha trascorso un periodo “a disposizione” e quindi gli è stato trovato un incarico adeguato al grado di generale di Divisione che riveste e alla pluriennale esperienza operativa che ha maturato. Il ritardare o addirittura non assegnare un incarico a un militare costituisce una violazione dei doveri dei suoi superiori e crea un danno oggettivo a chi “rimane a piedi”. Per il periodo in cui rimane a disposizione il militare non potrà infatti essere giudicato né nel bene, né nel male e quindi vedrà i suoi colleghi che non subiscono questa situazione superarlo nella graduatoria di merito. Ecco perché il non assegnare a Vannacci un incarico adeguato in tempi ragionevoli avrebbe potuto autorizzarlo a intraprendere un’azione giudiziaria nei confronti dei suoi diretti superiori e con ogni probabilità l’avrebbe vinta.

Nessun mistero quindi. Ora aggiungiamo un quarto fatto. Il Ministro della Difesa non è responsabile dell’assegnazione di nessun incarico, né può revocarlo. Ogni forza armata decide in assoluta autonomia chi mettere e chi togliere.

Quinto e ultimo fatto. L’azione disciplinare cui sembra il generale Vannacci sia ancora sottoposto non è un atto pubblico, in altri termini non esiste pubblicità della sentenza come per la giustizia ordinaria, ma è un atto che viene comunicato in busta chiusa all’interessato e trascritto sulle sue note. Quindi per gli interessati a conoscere come andrà a finire consiglio di mettersi l’animo in pace perché a meno dello stesso Vannacci nessun altro è autorizzato a dare pubblicità agli eventuali provvedimenti disciplinari adottati. E questo vale per il caporale quanto per il generale.

Detto questo mi accorgo che non ho più spazio né voglia di aggiungere commenti. Un suggerimento però vorrei darlo a quanti fanno discorsi di opportunità, convenienza o lesa maestà. Consiglio loro di studiare un po’ l’organizzazione militare, le sue responsabilità e le sue competenze e poi, eventualmente, parlare. A quanti invece vogliono la fucilazione in quanto, secondo loro, ha portato disdoro all’uniforme e all’Italia tutta, suggerisco di riflettere sul fatto che qualsiasi cittadino italiano, nelle ore libere, magari dopo cena, è libero di scrivere ciò che vuole e di esprimere le opinioni che meglio lo rappresentano così come è altrettanto libero di renderle pubbliche, anche editando un libro. Il mondo dove questo non è possibile non è un mondo al contrario, ma una galera.

Napoleon, napoleon, napoleon!

sotto il cappello, niente.

Porte di Roma è un mega centro commerciale che Marc Augé avrebbe facilmente rubricato tra i non-luoghi, vale a dire un posto senza alcuna identità; senza passato e si spera con poco futuro che ha un solo scopo: vendere oggetti di bassa qualità alla massa di milleduecentoeurici che ogni giorno lo attraversa come un luna park. I non-luoghi si accendono con precisione svizzera alle 08.30 del mattino e alle 22, come la carrozza di Cenerentola, ritornano ad essere quello che sono; una zucca vuota. Questo particolare non-luogo lo trovi a ridosso del Sacro GRA, tra gli autovelox della via Salaria e gli smorzi di via di Settebagni ed è la summa di tutto ciò che i milleduecentoeurici possono desiderare: iKea, Leroy Marlene, Fratelli La Bufala, Zara home e, naturalmente, il multisala.

Terzo piano, sala 9, per 11,50 euri da una settimana danno “NAPOLEON” di Ridley Scott. Con altri 4 euro puoi prenderti una fantastica selezione di liquirizie e more gommose e con altri 5,70 un bidone di pop-corn che per mangiarlo tutto dovresti guardare Via col Vento e di seguito Ben Hur. Due gorni fa c’ero anch’io. E come avrei potuto perdermi un film tanto atteso? Dopo tutto qualche anno fa avevo scritto un libro dedicato a Napoleone e alla sua ultima campagna, quella che si sarebbe conclusa a Waterloo il 18 giugno 1815. Quindi, malgrado le critiche feroci, mi ero ripromesso di vederlo di persona.

Prima dell’epico film però pipì. Il particolare, vi avviso, non è di poco conto. In fondo al breve corridoio che conduce ai bagni giganteggia infatti un ritratto a mosaico bianco grigio di quello che mi è sempre apparso come un Napoleone del Canova. Tutte le volte che mi sono trovato da quelle parti mi sono chiesto perché mai ad indicarmi il cesso avevano scelto proprio Lui: l’Imperatore dei francesi. Avrei trovato più appropriato, che ne so, Vespasiano. Prima di salire al terzo livello e fare il mio ingresso nella sala 9, fila E, posto 10, avevo dunque già incrociato lo sguardo dell’Empereur. Sono soddisfazioni.

Alle 19,30 ero infine seduto in attesa dell’evento. Nessuno mi aveva avvertito che oltre al film, avrei avuto diritto a ben trenta minuti di ininterrotta pubblicità in dolby surround tanto che l’inizio del film ci ha colto tutti di sprovvista. A questo punto potrei facilmente iniziare la litania dello spernacchiamento che ha accompagnato l’uscita dell’ultimo lavoro di Ridley Scott. Non lo farò. Certo che dal regista de “I Duellanti”; “Thelma&Louise”, “Il Gladiatore” o “Alien” mi aspettavo qualcosina di più… ad esempio un filmone che mi avesse portato al centro della storia, con un protagonista, un antagonista, cavalli, cannoni e frasi storiche.

E invece mi vedo arrivare Joaquin Phoenix con tanto di celebre bicorno che secondo il Regista non si toglieva mai, neppure al bagno o per dormire. Unica eccezione quando si trombava Giuseppina appoggiandola alla spalliera del letto. L’espressione di Madame la diceva lunga sulla foga erotica dell’Imperatore. A completare mancavano solo lo sbadiglio e la battuta “Fatto?” E poi finalmente sono arrivate le battaglie. Ben tre battaglie tre. Tutte uguali. Ma si sa che le battaglie in fondo sono tutte uguali. C’è uno che spara, l’altro che muore, spara il cannone, cade il cavallo e alla fine uno vince. In verità mi ha un tantino sorpreso come all’inizio di ogni battaglia il Napo si turasse le orecchie con le mani. “Forse” – ho pensato tra me e me – ” aveva avuto un’otite da piccolo e così gli aveva detto la mamma“. E neppure ho capito per quale motivo gli era preso di prendere a cannonate la cima della piramide di Cheope invece che i Mamelucchi, ma lui era Bonaparte e faceva un po’ come accidente gli pareva.

Non avevo mai pensato poi al perché Napoleone volesse vincere le sue battaglie il più velocemente possibile. Altro che direttorio, impero e gloria; ingrifato come un cinghiale maremmano il Napoleon voleva scappare da Giuseppina che si faceva già trovare appesa alla testiera del letto con tanto di sbadiglio finale. E poi sono venuti gli inglesi, i soliti perfidi inglesi che come spetta a un autentica carogna non si erano fatti vedere fino al giorno di Waterloo per poi mollare il colpo finale al povero Napo che, fuggito dall’Elba, aveva infine appreso che Giuseppina era morta lasciandolo solo davanti alla testiera del letto. In verità ad un certo punto sarebbe apparsa Maria Luisa d’Austria, interpretata da una ragazzina dall’apparente età di undici anni, che secondo il regista aveva attraversato la vita del Napo come una meteora rimanendo però incinta per Immacolata Concezione, come peraltro poteva ben testimoniare Monsieur De Talleyrand.

Alla fine, lo spettacolo è finito, le luci si sono accese ma per molti gli sbadigli hanno continuato fino al corridoio. Nessuno che parlava, nessuno che commentava. Sembrava avessero tutti osservato il Nulla Cosmico. Me compreso. Prima di avviarmi al parcheggio sono tornato di nuovo al bagno. Mi attendeva Napoleone con il suo solito sguardo fisso all’orizzonte. Per fortuna lui il film non l’aveva visto.

GIUDICATE MA NON VERRETE GIUDICATI

Il leggero cigolio del carrello porta-documenti annunciava un pomeriggio noioso. Lungo i venti metri scarsi del corridoio si affacciavano l’ufficio matricola, la maggiorità, l’ufficio cassa, quello posta&viaggi e infine il mio; l’ultimo. Il carrello percorreva quei metri come fossero il miglio verde.

Era quello l’ufficio del comandante di reggimento. Appena fuori dalla porta una placca in ottone lucidissima ammoniva chiunque dal considerarlo un luogo come un altro. “In questo ufficio è custodita la Bandiera di Guerra dell’8°reggimento bersaglieri”. Per chi non fosse stato avvezzo alle tradizioni militari ciò significava che prima di parlare, salutare o anche solo sorridere ci si doveva rivolgere alla teca in cui era contenuta; mettersi sull’attenti e salutare quella reliquia laica dei sacrifici passati e del dovere presente. Il carrello porta-documenti smise di cigolare proprio fuori dalla porta. Un secondo dopo una mano bussò.

Comanda’ ci sarebbero da fare le note” disse il maresciallo con il tono di chi mostra un menù di pesce consigliandoti il branzino da 40 euro al chilo. “… e sarebbero urgenti!” Aggiunse prima di salutare la bandiera e tornarsene da dove era venuto. L’urgenza aveva definitivamente ammazzato il condizionale. Guardai il carrello parcheggiato a lato della scrivania. La pila infinita di cartelle color arancio sbiadito aveva già deciso quale sarebbe stato il mio pomeriggio con opzione sulla prima serata.

Se oltre a non sapere del dovere di saluto alla Bandiera non siete mai entrati in una caserma, vi sfuggirà anche il significato di “fare le note”. Premetto che la musica non c’entra niente e neppure una ipotetica lista delle cose da fare. Nell’italiano un po’ sgangherato dei soldati “note” era il termine usato al posto del più burocratico “scheda valutativa”.

In altre parole si trattava di giudicare i propri dipendenti e, per giunta, di farlo per iscritto. Frontespizio più sei pagine di voci analitiche dovevano bastare per descrivere un uomo con il quale avevi lavorato, pranzato a mensa, condiviso il freddo del Poligono “B” di Capo Teulada, fatto a metà con una Marlboro in crisi di erezione e anche, perché no, “schiaffato dentro”, per qualche cazzata che appena ricordavi. (schiaffar dentro non ha niente di brutalmente sessuale, ma si riferisce all’infliggere una sanzione disciplinare a un militare. Un sinonimo è “stai punito”. Il che per il soggetto non contempla l’assunzione di una particolare postura o atteggiamento ma solo di considerarsi oggetto di riprovazione. Più blando è “stai vergognato”. Insomma nell’esercito l’importante è stare!).

Già; fare le note era una sorta di giudizio universale cui ogni militare, volente o nolente, doveva sottoporsi per un sacco di motivi. Ad esempio perché doveva avanzare di grado, oppure era trasferito da qualche parte ed era bene che il nuovo comandante e tutto l’esercito sapessero quale cacumenale testa di cazzo stavano ricevendo o ancora perché era passato un anno dall’ultima volta che qualcuno lo aveva giudicato. Un anno. Un anno solo. Dopo aver diligentemente compilato tutte le voci si arrivava alla summa. Il giudizio finale.

Come lo giudico questo cristianuccio? ” Era questa la domanda finale che rimaneva appesa alla punta della penna una volta risalito il calvario di dei pagine di caselle. Le qualifiche, come ammoniva l’articolo 1026 del codice, dovevano essere scelte tra una di queste cinque: ECCELLENTE, SUPERIORE ALLA MEDIA, NELLA MEDIA, INFERIORE ALLA MEDIA, INSUFFICIENTE. Giudizi del tipo ECCELLENTE ma tendente alla pigrizia dopo pranzo non sono ammessi ed ecco che salta fuori la nostra anima cattolica.

Vivere in un Paese di tradizione cattolica ogni tanto mostra infatti imprevedibili conseguenze. Le note erano una di queste conseguenze. Come avresti giudicato Il tuo capitano, pieno di buona volontà e inesperienza? Che non riusciva a tenere in ordine neppure i propri calzini, ma che era amato dai suoi bersaglieri. Sarebbe stato ECCELLENTE? Come in un racconto di Dickens ecco allora apparire i fantasmi di Rommel, Annibale, Giulio Cesare, Giovanni dalle Bande Nere e persino di Nelson. Sembravano dirti “Ma che, davvero, davvero il capitano Mario Cipullo (nome di fantasia) è come noi?” Il paragone certo non reggeva e forse nel mondo anglosassone Cipullo avrebbe beccato un oggettivo NELLA MEDIA perché in fondo chi di noi non è un NELLA MEDIA?

Ma nell’esercito laico di una nazione di tradizione cattolica; nel paese del parlare a nuora perché suocera intenda, un NELLA MEDIA significava una cosa sola: INCAPACE. Il capitano Cipullo magari non avrebbe conquistato le Gallie, ma non meritava certo quel marchio d’infamia. Era stata gente come lui che in fondo ci aveva fatto vincere la Prima guerra mondiale. E poi, neppure io, al quale lo Stato chiedeva di giudicare, avevo mai conquistato le Gallie. Perché dunque infierire. Avrei scritto il mio ECCELLENTE e sarei passato al prossimo fascicolo che solo in caso di omicidio volontario aggravato dalla premeditazione e da motivi abietti sarebbe stato giudicato NELLA MEDIA.

Chi compilava e anche chi veniva compilato sapeva benissimo di questo rituale di compassionevole indulgenza, ma in fondo, a saper leggere bene tra le righe, si riusciva sempre a capire con chi si aveva a che fare, senza però insultarlo. Ti serviva un buon logista che però aveva il carisma di una torta Saint Honoré? Oppure ti occorreva una replica di John Wayne o una mente organizzativa superlativa che non nutrisse soverchie ambizioni? Nelle note li avresti trovati.

Tutti gli anni e per quarant’anni qualcuno mi ha giudicato e a sua volta è stato da me giudicato. Questo non fa certo di me una persona migliore o speciale, ma almeno non ho potuto sottrarmi al giudizio di quella parte di Stato che quotidianamente mi impiegava.

Dopo tutto darmi in mano un carro armato, qualche proiettile, un fucile o una bomba a mano esigeva una qualche contropartita in termini di affidabilità. Ricordo che prima di arruolarmi avevano preteso tre o quattro giorni di test psicologici e attitudinali per decretare che non fossi palesemente uno psicopatico. Li avevo passati presso la scuola di fanteria di Cesano di Roma. Era l’estate del 1980 e faceva un gran caldo. Ero stato giudicato IDONEO alla frequenza dell’Accademia militare il che non voleva necessariamente dire che fossi normale, ma almeno sufficientemente cretino da sopportarla.

Mi chiedo allora per quale motivo l’idea di sottoporre anche i magistrati a una valutazione da parte di loro colleghi e superiori generi tutto questo scandalo. Non sono forse anch’essi un pezzo dello Stato? Anzi un Potere? Non possono anche loro far danno ad altri cittadini? Non è possibile che l’agire di qualcuno tra loro possa essere dettato da qualche disturbo comportamentale o pulsione caratteriale mai accertata? In fondo per entrare nelle forze di polizia o nell’esercito devi dimostrare di non essere matto; idem se vuoi ottenere un porto d’armi per andare al poligono. Per la magistratura basta un concorso.