ALEPH E IL DITO DI DIO

Fu Dio a disegnare nel cielo le lettere. Le disegnò una per una.

La prima fu “Aleph”, il segno che apre e chiude i mondi e annulla il tempo, e poi continuò a tracciare altre linee e altre curve nell’azzurro finché, giunto alla “Tau“, si fermò.

la lettera Aleph, la prima nell’alfabeto ebraico

Ogni gesto tracciato nel cielo portava l’eco della sua voce; il profumo del suo respiro. Gli uomini li avevano osservati come un bambino guarda alle nubi e il contadino ai cirri che annnciano la gelata. Non capirono ma quello era il respiro di Dio e tanto bastò perché da allora li avrebbero ricordati, conservati e riprodotti fino alla fine dei tempi. Ogni segno sapeva parlare agli altri uomini del profondo dell’anima e della natura che li avvogeva, faceva comprendere il mondo e sapeva far arrendere alla magia dell’incomprensibile.

Ogni segno non permetteva mai al passato di scomparire del tutto, né al futuro di chiudersi nella conchiglia di un sogno. E nel presente faceva esclamare “Guarda !” a chi non aveva ancora visto.

Sarà per questo che anche oggi le parole riportano il profumo del sacro.

Sarà per questo che vanno conosciute, ricordate e rispettate. Sarà per questo che sono loro, le PAROLE, a muovere qualsiasi fatto, a generare qualsiasi sorriso, far sgorgare qualsiasi lacrima e consolare ogni dolore.

Scrivere e leggere fa entrare in questo mondo profondo dove ognuno è viaggiatore e vagabondo. Camminiamo senza paura tra i segni che Dio ha tracciato sull’azzurro.

Diritto e rovescio: lo strano caso del signor Putin.

Vinti e vincitori sono stati sostituiti da colpevoli e innocenti. Breve viaggio sul cambiamento di un punto di vista per comprendere quello che è capitato allo “Zar”

Nel 2012, a Nataruk, una trentina di chilometri dal lago Turkana in Kenia, furono rinvenuti i poveri resti di 21 adulti e 6 bambini trucidati. Ignota la mano come ignoto il motivo della strage. Solo la data venne ricostruita con sufficiente precisione: 10.000 anni fa. Quella di Nataruk rimane dunque la prima testimonianza scientifica di un fenomeno che caratterizza tuttora l’umanità: la volontà, perdurante nel tempo, di porre a rischio la propria stessa vita e sopprimere quella di altri uomini al fine di conseguire un qualsiasi scopo, attraverso la violenza organizzata. Vale a dire la guerra.

Frank Frazzetta – dipinto

Nei lunghi secoli che seguirono la strage di Nataruk la guerra ha visto apparire e bruciare eroi e vigliacchi, capi sanguinari e truppe assetate di bottino, generali alla ricerca della gloria e soldati che cercavano solo di scamparla. E poi massacri, incendi, devastazioni, eccidi e tutto l’armamentario della crudeltà umana sempre alla ricerca di un Vincitore e del suo antagonista, il Vinto.

Per secoli la guerra ha creato queste due categorie simmetriche, mai buoni e cattivi, tantomeno colpevoli o innocenti. Bene lo sapeva il capo barbaro Brenno con il suo “Guai ai vinti pronunciato nel cuore di una Roma sconfitta. Meglio ancora Eraclito di Efeso che nel VI secolo avanti Cristo già ammoniva come «Polemos fosse padre di tutte le cose, di tutti i re; e gli uni disvela come dèi e gli altri come uomini; gli uni fa schiavi gli altri liberi».

Anche Tucidide, lo storico greco vissuto nel 460 a.C., sbatteva in faccia ai poveri abitanti dell’isola di Mélo la palese quanto crudele legge del più forte. “Questa legge non l’abbiamo istituita noi, non siamo nemmeno stati i primi ad applicarla; così, come l’abbiamo ricevuta e come la lasceremo ai tempi futuri e per sempre, ce ne serviamo, convinti che anche voi, come gli altri, se aveste la nostra potenza, fareste altrettanto. 2500 anni il povero Tucidide ignorava colpevoli e innocenti; a lui bastava poter distinguere tra vincitori e sui vinti.

Tucidide 460 – 395 a.C

Non è questa una differenza di poco conto. Al concetto di vittoria è indissolubilmente legato quello di forza prevalente, mentre l’innocenza e la colpevolezza conducono in tutt’altro ambito: quello della morale, nel regno cioè del giusto e dell’ingiusto; dell’equo e dell’iniquo.

Sant’Agostino Vescovo d’Ippona

La vittoria in guerra se ne infischia della giustezza e della moralità della causa; vuole il trionfo; piegare il nemico. Nient’altro. L’innocenza ha invece bisogno che la guerra sia “GIUSTA”, a volte addirittura “SANTA”.

Lo scriveva Sant’Agostino quando rassicurava il povero generale romano Bonifacio, perplesso del fatto che uccidere in guerra gli avrebbe negato l’accesso al paradiso cristiano: “…non credere” – diceva il Santo – che non possa piacere a Dio chi faccia il soldato tra le armi destinate alla guerra”. Da allora quando ci si batte dalla parte giusta e santa e si vince non si è semplici vincitori, ma si è anche giusti e innocenti. Allo sconfitto non basta sottostare al vincitore, ma è anche dichiarato colpevole e iniquo. Il concetto era ed è perfettamente chiaro a tutti i terroristi dell’ISIS e dovevano essere dei fan di Sant’Agostino anche i giudici della Corte Penale Internazionale  de L’Aja (CPI) che hanno spiccato un mandato di arresto per Putin Vladimir Vladimirovič, nato a Leningrado il 7 ottobre 1952 da Marija Ivanovna Šelomova e da Vladimir Spiridonovič Putin; di professione Presidente della Federazione Russa. Il capo d’accusa è grave: crimine di guerra di deportazione illegale di popolazione (bambini) e di trasferimento illegale di popolazione (bambini) dalle zone occupate dell’Ucraina alla Russia.

Vladymir Putin – Presidente delle Federazione russa.

Questa decisione induce più di una riflessione. La prima è questa.

A qualcuno forse sta sfuggendo il fatto che da oltre un anno non Putin, ma la Federazione russa sta conducendo una sanguinosa e durissima guerra di aggressione non contro Volodymir Zelensky, ma contro la Repubblica d’Ucraina. I motivi, ammesso che ne servano, spaziano dalla temuta possibilità che l’Ucraina potrebbe in futuro rappresentare un concreto pericolo per la Russia e passano per la necessità di proteggere la minoranza russa nel Donbas dalle angherie della maggioranza ucraina che li circonda senza tralasciare ragioni di ordine culturale, religioso o valoriale e via così, di ragione in ragione, o di pretesto in pretesto.

La realtà, almeno come appare dai fatti, è che un grande stato, forte di un grande esercito e animato da una sua idea del tutto personale ne ha aggredito un altro, più piccolo e in apparenza più debole perché ha convenuto conveniente farlo. Ricordate Tucidide? “…questa legge non l’abbiamo istituita noi, non siamo nemmeno stati i primi ad applicarla questa è una legge di natura, etc…” Il governo della Federazione russa l’aveva ben chiara e prima di lui tutti coloro che hanno dichiarato o subìto una guerra; sempre così, nei secoli dei secoli, almeno fino a quando, nel 1918, di fronte alle macerie dell’Europa devastata e espulsa dalla storia, allo sconcertante numero di cadaveri insepolti che ancora giacevano sulla cicatrice del fronte, qualcuno decise che essere vincitori o vinti non bastasse più. Ci voleva un colpevole; il malvagio che con il suo scellerato comportamento era stato il responsabile di tanta rovina.

Guglielmo II Kaiser dell’Impero tedesco

Bisognava trovare un uomo o un gruppo di uomini che si prendessero cioè sulle spalle la croce della sconfitta e l’onta del peccato. Nel 1918 lo trovarono in Guglielmo II von Hohenzollern, Kaiser dell’impero prussiano. Tra gli specchi di Versailles si decise che l’unico responsabile della tragedia della prima guerra mondiale fosse stata la Germania e il suo militarismo. Il resto d’Europa – quella che aveva vinto – si auto-dichiarò del innocente. Già che c’erano i Vincitori decisero di giudicare colpevole non solo l’imperatore dall’elmo a chiodo, ma con lui anche milioni e milioni di tedeschi. Trovato il colpevole non restava dunque che stabilire la giusta punizione, come se per i tedeschi aver perso a loro volta milioni di giovani vite, aver annientato la propria economia, essere sull’orlo della rivoluzione non fosse già una punizione sufficiente abbastanza. Ci si voleva vendicare e ci si vendicò.

Qualcuno, ad esempio l’economista John Maynard Keynes, provò a sollevare una voce in dissenso, ma non fu abbastanza. Peccato che aver trattato la Germania, il suo kaiser e il suo governo non da sconfitti ma da colpevoli portò ben presto qualche decina di migliaia di uomini a non sentirsi sconfitti, cosa che nei secoli passati sarebbe stata perfettamente compresa, ma innocenti e vittime a loro volta di un’ingiustizia. Tra questi uno in particolare, di nome Adolf, in quel clima avrebbe trovato la sua fortuna. “Se anche voi, come noi, vi foste trovati in possesso della nostra stessa potenza”.

Ed è questo il punto. Decidere di processare venti, trenta, ma anche fossero stati diecimila, individui separava il loro agire da quello dell’intero popolo che li aveva espressi. Era questa una decisione presa in base al principio di giustizia o alla convenienza politica del momento? Era cioè un’applicazione comunque della legge del più forte? Senza il consenso della Germania tutta sarebbe stato possibile avere un Adolf Hitler? Io credo di no.

Alcuni degli imputati del processo di normberga 1945-46.

Nel 1945 a Norimberga si replicò. Si processarono una ventina di gerarchi nazisti; gente ripugnante, responsabile di azioni atroci, ma pur sempre funzionari o ministri di uno stato. Il loro capo, Adolf che nel frattempo era divenuto più o meno legittimamente Cancelliere si era suicidato assieme ad altri membri del suo governo. Ecco di nuovo Tucidide e il suo:”… ce ne serviamo (della legge del più forte n.d.r), convinti che anche voi, come gli altri, se aveste la nostra potenza, fareste altrettanto”.

Se invece di uno sconfitto si cerca un colpevole allora la prospettiva cambia. Basta dire che non c’è mai stata la guerra della Repubblica tedesca contro il resto del mondo, ma quella personale di Adolf Hitler e del suo gruppo di razzisti squinternati. Vale lo stesso per l’Unione delle Repubbliche Socialiste Sovietiche innocente di essersi mangiata mezza Polonia, sterminato 15 milioni di propri cittadini colpevoli d’essere così ricchi da possedere addirittura una mucca. L’URSS era innocente di tutto. Quella era la guerra di Stalin, il Tiranno. E via così con i vari Ayatollah che bastonano le ragazze in piazza senza che il popolo iraniano ne sappia nulla; i principi sauditi che bombardano lo Yemen; Saddam Hussein che uccide i curdi di nascosto al proprio popolo fino ad arrivare oggi a Putin che invade l’Ucraina perché è cattivo, anzi colpevole.

E’ bizzarro come un popolo come quello russo che ha inventato la rivoluzione patendone per decenni gli effetti si tenga ancora stretto questo capo e la sua cricca di oligarchi psicopatici. Non solo, è ancor più strano che risponda ai suoi appelli, non diserti la sua mobilitazione e difenda in gran numero le ragioni della guerra.

L’AIA – I giudici della corte penale internazionale.

Ai giudici de L’Aja questo poco interessa, perché? Perché il concetto di colpevolezza e di innocenza, attribuibile a un individuo o ad un gruppo di individui, funziona solo se si prescinde dalle enormi masse di altri individui che li mantengono al potere, che ne eseguono gli ordini e che, spesso, ne condividono obiettivi e visioni. In altri termini funziona solo se non si pensa che la guerra sia un’attività politica con innegabili risvolti criminali. La Corte Penale Internazionale funziona dunque proprio sul binomio “colpa-individuo”, ignorando del tutto il contesto socio-politco che ne giustifica e sostiene il potere.

Istituita a Roma il 17 luglio 1998 la Corte è un tribunale per crimini internazionali con sede a L’Aia, La sua competenza è limitata ai crimini che riguardano la comunità internazionale nel suo insieme, quali il genocidio, i crimini contro l’umanità e i crimini di guerra (cosiddetti crimina iuris gentium), e di recente anche il crimine di aggressione. La Corte ha una competenza complementare a quella dei singoli Stati, dunque può intervenire solo e se gli Stati non possono o non vogliono agire per punire crimini internazionali.

La Corte Penale Internazionale non è un organo dell’ONU anche se spesso la si confonde con la Corte Internazionale di Giustizia delle Nazioni Unite, anch’essa con sede all’Aia. Ha però alcuni legami con le Nazioni Unite. Oggi la Corte è riconosciuta da 123 paesi. Molti altri, tra cui Cina, Stati Uniti, Russia e India non ci pensano proprio che ad indagare, investigare, giudicare e condannare un loro cittadino sia una corte internazionale e non un loro legittimo tribunale.

Karim Khan, capo della procura penale internazionale 

Ecco rispuntare la differenza tra il binomio vincitore/vinto e quello di colpevole/innocente. Un vinto in balia del vincitore potrà essere incarcerato, trascinato in catene dietro il carro del trionfo, appeso dentro una gabbia fuori dalle mura del castello, oppure graziato. Il suo destino è in definitiva l’ultimo atto della guerra. Un colpevole no. Per un colpevole ci vuole un codice di leggi , una giurisdizione, un giudice naturale e, soprattutto un’Autorità. Il destino del colpevole è il primo atto della pace.

Putin si può dunque processare? Certo, ma dovrebbe essere una decisione della Russia, anzi potrebbe essere il primo atto della nuova Russia post-oligarchica. Se invece ci si ostina a esportare una giustizia a passo variabile, si sottrae il dittatore di turno al giudizio dell’unico giudice naturale: il suo popolo. Per questo la decisione di spiccare un mandato di arresto contro Putin in qualità di presidente della Federazione russa è un atto di grave arroganza politica che poco ha a che fare con la giustizia.

Ci aveva già pensato nel 1815 il congresso di Vienna quando all’indomani della fuga di Napoleone dall’Elba aveva posto l’ex imperatore dei francesi:” ... al di fuori delle relazioni civili e sociali e come nemico e perturbatore del mondo. Egli è additato alla pubblica vendetta”. Ora come allora con questo mandato di arresto internazionale, si chiede agli stati aderenti all’istituto della Corte Penale Internazionale di arrestare Putin e tradurlo in manette davanti al tribunale de L’Aja.

Anche questa è una scena già vista. Radovan Karadzic, ex presidente della repubblica serba di Bosnia fu arrestato il 21 luglio 2008 dopo 13 anni di latitanza ma allora la guerra nella ex-Jugoslavia era finita da un pezzo e Karadzic era solo un ex-presidente. Oggi in Ucraina si combatte ancora e la via di una pace possibile neppure si intravede. In questa condizione viene chiesto che si arresti il presidente di una delle due parti.

E non basta.

Viene infatti anche da chiedersi quale valore avrebbe mai un’eventuale pace sottoscritta da un criminale di guerra, o quale leader occidentale gradirebbe condurre colloqui con un simile delinquente e poi dove? In che località? Magari in un paese del sudamerica che non prevede l’estradizione.

A ben guardare il provvedimento della Corte Penale Internazionale assume dunque sempre meno una connotazione giuridica e sempre più una politica, per giunta intempestiva. Con un gesto del genere si avvicina la pace? Io non credo. Quello che so per certo è che, come ricordava Bertolt Brecht:Alla fine dell’ultima c’erano vincitori e vinti. Fra i vinti la povera gente faceva la fame. Fra i vincitori faceva la fame la povera gente egualmente

GUERRA RUSSO-UCRAINA:primo anniversario (terza parte)

Il terzo e ultimo articolo dedicato al primo anniversario dell’operazione militare speciale punta a mettere in evidenza quali sono finora i principali elementi di novità emersi dal conflitto.

La storia” – diceva Antonio Gramsci – “insegna, ma purtroppo non ha scolari”, figurarsi la cronaca come quella che con grande difficoltà si tenta giorno per giorno di costruire attorno al conflitto russo-ucraino. Eppure, ad un anno dall’inizio di questa guerra insensata, già emergono elementi che ci inducono a pensare a questa non come a una delle tante guerre combattute da quando, agli inizi degli anni ‘90 si immaginò l’avvento della pace universale e la fine della storia, ma ad un evento nuovo e in un certo senso dirimente.  Alcuni di questi elementi sono evidenti, altri si nascondono così tanto nella confusione del quotidiano da celare quei semi destinati a dischiudersi in un futuro neppure troppo lontano.

Se allora nulla ci è stato ancora insegnato, il conflitto russo-ucraino illumina tuttavia di una luce scomoda molti temi del nostro presente. Iniziamo da un primo scelto a caso tra i tanti: l’ONU. Che fine ha fatto quell’istituzione senza la quale, solo venti anni fa, non era possibile muovere un passo? Dove sono finite le riunioni d’urgenza del Consiglio di Sicurezza, le risoluzioni, i caschi blu, le provette agitate in faccia al mondo per aver uno straccio di pretesto per una guerra? Che fine ha fatto insomma tutto l’armamentario di un mondo globalizzato creduto pacificato? Semplicemente è scomparso da quando il 24 febbraio, uno degli Stati originari dell’ONU, membro permanente del Consiglio di Sicurezza e dotato di diritto di veto ha invaso un suo vicino.

New York – Palazzo di Vetro: la sala dell’assemblea generale delle Nazioni Unite

Era la notte di capodanno del 1942 quando Maksim Litvinov firmò per l’URSS la Dichiarazione delle Nazioni Unite che si sarebbe trasformata nello Statuto dell’Organizzazione. Qui, all’articolo 2, comma 4 anche l’URSS di Stalin aveva concordato sul principio secondo il quale” … i membri devono astenersi nelle loro relazioni internazionali dalla minaccia o dall’uso della forza, sia contro l’integrità territoriale o l’indipendenza politica di qualsiasi stato…”. Ottant’anni dopo, i cingoli dei carri russi incolonnati sulle scalcinate autostrade ucraine hanno impresso la parola FINE non solo su questo principio, ma anche su quel mondo che dalla fine del secondo conflitto mondiale per decenni ci si era ostinati a credere immutato. E’ dunque questo il primo degli elementi portati a galla dall’operazione militare speciale di Putin: che destino avrà l’ONU, riprenderà ad essere l’unica assise mondiale ove confrontarsi oppure verrà declassato a una sorta di coordinamento per la soluzione di questioni minori, come – ad esempio – il commercio del grano dai porti ucraini?

Un secondo elemento riguarda il sistema della globalizzazione. Almeno quello che abbiamo conosciuto finora. La pandemia di covid 19 prima e la guerra oggi hanno incrinato l’idea della Cina come fabbrica del mondo, della produzione a basso costo, delle catene logistiche infinite, della delocalizzazione ad ogni costo, dell’interconnessione energetica, del mondo come mercato globale e non come luogo della competizione politico-economica tra stati.

nave porta-container cinese della compagnia MSC

Il covid 19 e i carri con la “Z” sulle torrette hanno messo il mondo, almeno quello occidentale, di fronte all’evidenza che non tutto può essere decentrato, ottimizzato, delegato e dislocato; in altri termini che il mercato globale non ha sostituito lo stato-nazione, almeno per ora. Siamo dunque tornati all’autarchia e al sacro egoismo di Salandra? Certamente no, ma la consapevolezza che i mercati mondiali e l’intero sistema di approvvigionamento e produzione vadano rivisti è ormai all’ordine del giorno di quasi tutti i governi.

A corollario di una globalizzazione rivedibile appare inoltre sempre più chiaramente che la visione che il mondo occidentale ha del resto del pianeta è sempre più scollegata dalla realtà. Anche se il western front continua a comportarsi come se il resto del mondo non esistesse è sempre più difficile ignorare come questo stia iniziando a percorrere strade diverse e indipendenti da quelle volute e talvolta imposte da noi. Una prova? Basta tornare all’ONU cui si è accennato in apertura per scoprire che se è vero che oltre 180 paesi avevano condannato l’aggressione russa all’Ucraina tra quei pochi che si erano astenuti c’erano colossi demografici ed economici come India, Pakistan e non certo ultima la Cina. Lo stesso piano di pace di Pechino è un ulteriore voce di avvertimento rivolta all’Occidente per dire che una parte dell’umanità ha ambizioni e sogni diversi di quelli pensati a Washington o a Parigi. Se infine si avesse bisogno di ulteriori prove basterebbe rivolgersi alle sanzioni economiche adottate contro la Russia. E’ evidente che queste sono solo le sanzioni che l’Occidente ha adottato contro Mosca. Il resto del mondo o le ha ignorate oppure ha trovato il modo di aggirarle. In altri termini siamo noi ad essere oggi sotto sanzioni.

In questa deriva dei continenti messa in moto dalla guerra russo-ucraina che posto ha l’Europa? Per comprenderlo è sufficiente ricordare cosa abbia significato per l’Europa o parte di essa scoprirsi dipendente da un unico fornitore d’energia quando questi diventa improvvisamente IL NEMICO.

il gasdotto north tream che univa la Russia alla Germania

La corsa a diversificare è stata immediata, confusa e non sempre conveniente per gli stati Europei, specie quelli dell’Unione, acquistando a maggior prezzo e sotto condizioni peggiori l’energia indispensabile a sostenere quello che pur sempre rimane uno dei maggiori poli produttivi mondiali.

Come ogni emergenza è stata infatti improvvisa e devastante, ma non per tutti. Almeno non per il nostro maggiore alleato, la potenza che da ottant’anni garantisce la sicurezza, la libertà e lo stile di vita europeo. In uno dei suoi primi discorsi Putin aveva indicato proprio nella divergenza d’interessi tra Europa e Stati Uniti uno degli elementi di incongruenza dell’asse anti-Mosca. E non aveva tutti i torti. Senza voler analizzare caso per caso e settore per settore le divergenze inter-atlantiche tutt’ora in atto, basti ricordare che gli Stati Uniti, per la loro storia, potenza economica e militare, posizione geografica e visione strategica sono un impero e come tale agiscono. L’Unione Europea – ammesso che essa esista al di là di una moneta e di un mercato comuni – semplicemente non lo è. Anzi, non è neppure un’unione politica e tanto meno una potenza militare.

In tempi di bonaccia questo semplice fatto è stato annacquato dal tempo, dalla lentezza della storia e dal felpato linguaggio diplomatico, ma da quando l’orso russo è uscito dalla tana ha preso a soffiare area di tempesta e ai governi europei non è restato altro da fare che aggrapparsi alle traballanti assicelle dei loro interessi nazionali e della scarsa rilevanza internazionale. Ecco allora il terzo elemento; l’Unione Europea. Quale futuro potrà avere un’istituzione incapace di esprimere una politica comune, la quale deve bilanciare interessi e bisogni diversissimi e che non è mai stata pensata come un vero e proprio stato? Si tornerà alla vecchia Comunità Economica Europea pre-Maastricht  o si farà un passo in avanti?

la presidente della Commissione Europea Ursula Von der Lien

Rimaniamo per un secondo nell’Unione per iniziare a parlare di eserciti e di difesa solo per chiarire che nelle attuali condizioni parlare di difesa europea è pura fantascienza. Occorre ricordarlo a quanti vanno auspicando l’esercito europeo, dimenticando che un esercito, in ogni tempo e in ogni luogo, difende un popolo, una politica e un territorio. In assenza di uno stato europeo e della sua politica è dunque inutile pensare a un esercito europeo.

In che modo allora la guerra russo-ucraina ci costringe a parlare di eserciti e di guerra? Ecco il quarto elemento di riflessione: la guerra. Non tanto le immagini quanto le azioni conseguenti alla campagna in corso in Ucraina hanno disvelato una semplice verità. In Europa occidentale il concetto stesso di guerra è stato rimosso. Non esiste. Certo dopo le distruzioni e gli orrori della prima e soprattutto della seconda guerra mondiale abbiamo tutti delle ottime ragioni per voler rimuovere l’idea stessa della guerra. Il fatto però che l’Europa non pensi più alla guerra non significa che altri paesi o alleanze di paesi, lontani dal nostro percorso culturale e di sofferenza, non solo ci pensino ancora, ma vedano questa nostra penisola dell’immenso continente euro-asiatico come possibile obiettivo. Se dunque la guerra, gioco forza, dovrà prima o poi rientrare negli argomenti di cui prendersi cura, in che modo e sotto quali aspetti si potrà manifestare.

militari italiani in missione di pace in Libano

In ogni libro di arte militare si afferma che ogni guerra è un evento del tutto nuovo inizialmente pianificato, organizzato e combattuto con la mentalità e le conoscenze della guerra precedente. Quando nel 1989 scoppiò la pace universale l’entusiasmo generale fece dimenticare la guerra come sforzo totale di una nazione o di un’alleanza contro un’altra. La guerra convenzionale, quella dei bombardieri; dei carri armati a centinaia dilaganti nelle pianure del centro Europa; delle divisioni corazzate, dell’artiglieria e dei missili furono considerati ormai armamentario da “guerra fredda”.

Dagli anni ’90 in avanti si è aperta l’epoca delle operazioni di pace. Peacekeeping, peace enforcing, Other-than-war operations erano i nomi e i volti della nuova guerra. Si difendevano gli oppressi oppure si esportava la democrazia. Erano gli anni della guerra totale al terrorismo e della guerra preventiva come l’aveva definita la dottrina Bush dipingendo scenari da Minority Report.

Oggi Mariupol, Backmut e i missili balistici sulle città dell’Ucraina ci hanno detto che la guerra, quella classica o convenzionale ad alta intensità come viene definita esiste, è in buona salute e per giunta ha scelto proprio l’Europa per manifestarsi.

Peccato che nel frattempo tutta Europa, convinta che mai e poi mai si sarebbe di nuovo presentato un conflitto ad alta intensità e lunga durata, avesse deciso di mettere anemizzare il proprio potenziale militare. Eserciti sempre più piccoli, costituiti unicamente da personale professionistico, armati giusto quello che bastava per presidiare qualche strada nel mezzo dell’Afghanistan o far la guardia davanti alla casa di qualche personalità. Questa era stata la scelta dell’Europa in tutte le sue declinazioni. Poi il 24 febbraio scorso è scoppiata una guerra brutale e violentissima che in pochi mesi ha consumato quasi tutto l’esercito professionale della Federazione russa, obbligando lo stesso Putin e il suo governo a indire la mobilitazione parziale di 450.000 coscritti, riesumando il vecchio e polveroso concetto della “nazione in armi”.

Ecco quindi un’ulteriore questione che il vento dell’est sta spingendo sui tavoli dei nostri governi: gli attuali modelli di difesa, i mezzi assegnati, gli stanziamenti, le missioni assegnabili sono ancora validi e coerenti oppure occorrerà ripensarli? Il quesito ne sottende un altro ancor più inconfessabile e che riguarda non tanto la capacità quanto la volontà delle nostre popolazioni di battersi con il ferro e con il sangue per i valori che a parole difendono senza esitazioni. Esiste ancora in Europa occidentale qualcosa per cui valga la pena mettere in gioco la propria vita? Prima del 24 febbraio 2022 la domanda sarebbe stata ammessa al massimo a un raduno di combattenti e reduci ottuagenari; oggi invece suona inquietante e pertinente.  Scendiamo infine di livello per osservare anche il modo di combattere.

La seconda guerra mondiale e molte di quelle successive avevano dimostrato che la guerra avrebbe per sempre preso le forme di una guerra manovrata oppure di una guerriglia. Le trincee, il filo spinato, i rifugi, la terra-di-nessuno erano stati un accidente della storia; una sorpresa.

A dire la verità qualche eccezione si era avuta, come ad esempio durante il conflitto tra l’Iran degli Ayatollah e l’Iraq di Saddam, ma in generale alla prima guerra mondiale nessuno aveva più pensato. Manovra, movimento, conquista degli spazi erano state le parole d’ordine attorno alle quali progettare e realizzare carri armati, elicotteri d’attacco, cacciabombardieri, missili e così via. Poi sugli oltre 500 chilometri dell’immobile fronte tra Donbas e Ucraina meridionale erano spuntate le trincee di prima linea, quelle di seconda, i camminamenti e i rifugi. E l’artiglieria; tanta e onnipresente. Il fuoco incessante dell’artiglieria ha ripotato alla memoria luoghi come Verdun o La Somme e parole come materialschlacht sepolte da cent’anni insieme a von Falkenhayn. E’ dunque tempo per gli Stati Maggiori di pensare che la guerra di posizione esiste ancora?

Lascio per ultimo un elemento che è sempre presente in ogni tipo di guerra combattuta fino ad ora: l’apparire di mezzi nuovi o dell’impiego nuovo di mezzi conosciuti. Malgrado la primordiale barbarie dei combattimenti corpo-a-corpo quella russo-ucraina è anche la guerra dei droni che siano volanti o sotto forma di barca. I droni, che siano ipertecnologici o commerciali da poche centinaia di euro stanno cambiando la percezione stessa dei combattimenti.

drone turco Bayraktar 182

Non solo combattere ma vivere sentendosi permanentemente osservati, sotto il perenne pericolo di essere individuati o colpiti da qualche ronzante aggeggio è un elemento nuovo di questa guerra. Queste apparecchiature a basso costo, facili da utilizzare e in grado di osservare e colpire a distanza senza esporre alla rappresaglia nemica saranno il futuro? Dovremo forse pensare ad aerei senza pilota e carri armati senza equipaggio? A prima vista verrebbe da rispondere: “si”, aggiungendo anche un “magari”. Ma cosa succederà alla guerra se la si priva di uno dei suoi fattori di autoregolazione: l’orrore e la paura? Rimane la trasformazione in un videogioco letale in cui una parte è in grado di infliggere reali dolore e sofferenza all’altra senza esserne a sua volta coinvolta. È la premessa della guerra infinita.  L’idea che uomini in carne e ossa si affrontino sul campo è certo qualcosa di brutale e bestiale, ma nello stesso tempo tiene entrambi i contendenti legati alla propria umanità e li avvicina prima o poi al punto di rottura, superato il quale non si combatte più. In assenza di questo uccidere diventa un mestiere come un altro e il ‘900 al riguardo ha già fornito esempi più che sufficienti.

Elon Musk , proprietario del sistema Starlink

E’ questo anche il conflitto dove a dei privati, vedi ad esempio il magnate Elon Musk con il suo sistema Starlink la costellazione di satelliti di proprietà del cinquantenne miliardario sudafricano di cittadinanza canadese che consente l’accesso a internet satellitare globale in banda larga a bassa latenza. È a questo sistema che si appoggia gran parte della rete informativa e di comunicazione di Kiev, ma questo sarebbe il meno. L’eccezione o per lo meno la novità è che per la prima volta un imprenditore privato si appalta l’onere di fornire un servizio essenziale ad uno dei contendenti, prerogativa finora di esclusiva competenza degli stati. Cosa succederebbe infatti per ragioni personali, magari solo per questione di profitto o di cattiva pubblicità Musk decidesse di spegnere starlink? Oppure chi potrebbe impedirgli di fornire il servizio chiavi in mano a qualunque stato in grado di pagarlo senza andare a vedere di che regime si tratti. Il tema è quindi dell’ingresso prepotente dei privati in un fenomeno essenzialmente pubblico come la guerra e in tale contesto vanno intese anche le compagnie di mercenari come il gruppo Wagner e le altre che si sono appaltate una fetta di guerra.

Non sono dunque pochi gli elementi di novità. Molti saranno ancora sepolti nel fango e nella neve delle steppe ucraine ma c’è da star sicuri che prima o poi verranno a galla. Basta attendere.