SANREMO-Quartiere “LA PIGNA”

Vicoli minuti dove l’odore del piscio e dell’aglio sono spariti da anni, disinfettati dalla modernità delle villette a schiera e dei televisori al plasma. Questo quartiere, la Pigna, è fuori dal tempo. Un guscio svuotato dalla lumaca umana che un giorno l’abitò.

Si erano arrampicati su quella collinetta verso l’anno Mille, per paura dei pirati e della fame, man mano rinchiudendosi in un bozzolo di vicoli angusti e pareti altissime. Da lassù scendevano al mare giusto il tempo di guadagnarsi il pane. Quando però i pirati sono scomparsi e la fame s’è placata, anche la paura se n’è andata e chi abitava da quelle parti s’è sentito povero e stretto. Meglio andarsene. Da morta, come tanti borghi d’Italia, anche La Pigna era pronta a trasformarsi in quello che le guide turistiche amano definire: ” un suggestivo e pittoresco quartiere medioevale“.

Mi arrampico per le sue viuzze e non incontro nessuno; neppure un gatto grasso, un lenzuolo arricciato o una bici alla catena. Dietro un muro di questo luogo senza angoli d’improvviso due ragazze maghrebine ridono e chicchierano sedute su un gradino. Sono estranee al mio paese che mai le ha accolte, ma si vede che si sentono a casa in questa kasba abbandonata di vicoli scoscesi.

Sono luoghi così che ti fanno capire l’estraneità; tanto intricata, opprimente e apparentemente incoerente è la loro planimetria che per trovarci un senso devi esserci nato, altrimenti ne sei inevitabilmente espulso. Qui le case, i fondi e gli archi non seguono mai le regole del catasto, ma quelle dei matrimoni, delle disgrazie e delle fortune delle famiglie. Quella finestra è stata murata dopo che la vedova si era risposata e quell’altro portone, con le due finestre superiori era stato aperto con i soldi fatti in America. Ci si allargava seguendo la logica dell’odio e dell’amore. Spariti entrambi tutto è davvero pietrificato e ora che la sua tribù è evaporata non c’è più nulla che me ne rende la cristallina coerenza.

Non si capisce neppure che ore siano visto che nessuna finestra arriva l’odore della cipolla soffritta, né quello delle sarde in tegame. Figurarsi il gridare dei bambini. Alla Pigna sembrano esserci ormai solo gli extracomunitari. Strana parola per gente che arrivata dai quattro angoli del Mediterraneo qui ha fatto comunità, come se comprendesse l’alfabeto e la lingua di queste pietre addormentate. Qui vive gente sospettosa della città giù da basso, quella con le strade larghe, gli alberi e le luci la sera. Si rifugiano quassù gli ultimi arrivati, senza soldi e senza storia. Sanno ancora che chi viene dal basso è sempre nemico, un tempo saraceno oggi carabiniere.

Sui muri s’incontrano pesci colorati, quasi tutti verticali. Non sono insegne, non sono graffiti post-moderni. Solo magri pesci dagli occhi grandi e dalle lische prominenti. Su una pietra liscia d’arenaria qualcuno ha lasciato il suo dubbio musicale. Poco più in alto un enorme albero di ficus copre d’ombra una minuscola piazzetta. Vuota e silenziosa.

Proseguo. Salgo, scendo, giro e svolto. L’orizzonte non arriva mai oltre tre o quattro metri da me e solo rovesciando all’indietro la testa ti accorgi del cielo. Le piazzette ti appaiono con la velocità di una diapositiva; in questa c’è una biblioteca, una casa editrice, una brutta fontana e un’edicola sacra di una fede ancora viva, almeno a giudicare dai fiori freschi e rossi.

Scendo fino ad arrivare al più grande dei pesci occhiuti, scoprendone finalmente la tana. Insieme a loro ci vive Andrea, il pittore palermitano che li ha evocati facendoli spiaggiare fin quassù come dopo una mareggiata. Lui e altri come lui si sono ricavati un nido tra queste pieghe; liberi dai regolamenti condominiali e dalla Pay-TV. Parliamo un po’ e dopo avermi studiato il giusto, afferra un mazzo di chiavi e mi dice “VIENI”. E io vado. Passiamo sotto un arco basso e bianco del XIII secolo, saliamo delle scalette traballanti e infine Andrea apre una porta che non avevo neppure visto. Dentro ci sono due o tre muratori che riparano non so che. Si sale per una scala immacolata di graniglia rossa. Sono abituato alle scale ripide ma queste sono infinite. Arriviamo infine sulla faccia de La Pigna che in pochi vedono: le terrazze. Quassù c’è solo cielo e sole, il mare è così vicino e blu che lo puoi quasi toccare.

Capisco perché i suoi pesci sono saltati fin quassù.

Un po’ di bianco e nero

Credo che fotografare in bianco e nero sia rinunciare a raccontare il mondo così com’è, tentando invece di fissare ciò che il mondo imprime in noi. Insomma, una sorta di radiografia dell’anima.

I grandi fotografi, quelli bravi davvero, radiografando sé stessi attraverso la luce del mondo, hanno mostrato le loro fratture mal saldate, le lacrime mai rotolate da alcun ciglio, le loro grida senza suono, ma anche la meraviglia di essere per sempre bambini, lo stupore dell’attesa, la tenerezza d’un sedimento d’amore.

Se vi capiterà, andate a visitare le mostre dei Maestri e di tutti quei giovani e inesperti fotografi che, forse inconsapevoli, vi mostrano ferite e profumati sorrisi.

QUELL’ULTIMO PONTE – Arnheim, sui luoghi di “Market Garden”.

Le foto che seguono riguardano una storia di 70 anni fa che merita d’essere ricordata. Sono questi i luoghi dell’operazione “MARKET-GARDEN”, la più grande operazione di paracadutisti mai compiuta. La mattina del 17 settembre 1944 il cielo insolitamente limpido dell’Inghilterra meridionale è solcato da una formazione di più 3.000 aerei diretti a sud-est. E’ larga sedici chilometri e lunga più di 160, così grande che impiegherà più di due ore a scorrere sopra le ignare teste dei farmers inglesi prima di scomparire verso l’Europa occupata. 20 mila paracadutisti americani, inglesi e polacchi sono a bordo degli aerei e degli alianti al traino. Uomini che in media hanno meno di 24 anni. La loro missione è di lanciarsi sull’Olanda occupata e conquistare, ma soprattutto tenere, una serie di ponti. Il primo è a sud di Eindhoven e l’ultimo un centinaio di chilometri più a nord, ad Arnheim. Quei ponti sono vitali per l’attraversamento dei canali e degli imponenti fiumi che da est ad ovest attraversano la pianura olandese. Ai paracadutisti è chiesto di aprire uno strettissimo corridoio attraverso cui far passare le unità corazzate che stanno attendendo più a sud, in Belgio. L’idea è in fondo semplice: invece che lottare per ogni singolo ponte, perché non conquistarli tutti insieme con un’unica operazione basata sulla sorpresa? Questa è “MARKET “la parte dell’operazione affidata ai paracadutisti. La seconda sarà denominata GARDEN e prevede che una grossa forza corazzata e meccanizzata risalirà a tutta velocità i cento chilometri dello stretto corridoio appena occupato per stabilire una testa di ponte oltre il Reno, appunto nella città di Arnhem Una volta arrivati in Germania la fine della guerra sarebbe stata questione di poche settimane, A quel tempo i comandanti alleati descrissero l’operazione spiegando che i paracadutisti avrebbero «…steso un tappeto su cui le truppe di terra avrebbero fatto una passeggiata…». Dopo una settimana di durissimi scontri i sopravvissuti delle divisioni aviotrasportate alleate si chiesero se quel tappeto dovesse essere composto da vivi o da morti. Quei soldati che all’ora di pranzo si lanciarono sui placidi prati del Brabante non sapevano ancora che per un micidiale mix di errori, sfortuna e incompetenza, stavano per dar vita ad una delle più difficili e tragiche battaglie di tutta la guerra. L’operazione MARKET-GARDEN si concluderà con la sconfitta alleata o, come ebbe a dire Montgomery con“..una vittoria al 90%”. Chi di sicuro non vinse nulla furono i 17.000 tra morti, feriti, dispersi e prigionieri sofferti dagli alleati ed i 10.000 da parte tedesca. Dei civili olandesi non si hanno stime precise. La guerra non finì per Natale, come sperato, ma si protrasse per altri 8 mesi.