TUTTI AL MARE! (prima parte)

Nel Mediterraneo sempre più conteso e lacerato, senza più – in apparenza – grandi protettori, l’Italia può ancora considerarsi un paese con una coscienza marittima?

Mediterraneo è oggi una parola quasi priva di significato.

Questo mare chiuso che contiene poco più dell’1% dell’acqua salata del pianeta, ma sul quale transita oltre il 20% del commercio marittimo mondiale, non è oggi infatti solo un “mare tra le terre”, ma piuttosto un “medioceano”. Come altro definire infatti il mare che fisicamente collega l’immenso oceano indo-pacifico con l’Atlantico? Appunto “medioceano”. La definizione è di assoluta rilevanza se si pensa che sugli oceani viaggia circa il 90% delle merci prodotte al mondo e che il comparto marittimo, comprensivo di cantieristica, logistica portuale, rotte, noli, trasporti e via elencando fornisce oltre il 12% del PIL dell’intero pianeta.

Ma il “medioceano Mediterraneo” non è solo traffici ed economia. È linea di faglia tra mondo cristiano e musulmano e, più profonda e instabile, tra ricchi e miserabili. Sulle sue rive si affacciano democrazie evolute, dittature sanguinarie, giovani paesi in cerca di un ruolo e antiche potenze ansiose di riscatto. Sulle sue acque si misurano strategie di piccolo cabotaggio e interessi planetari di super potenze come Stati Uniti e Cina mentre sul suo fondale corre gran parte della rete di approvvigionamento energetico di un intero continente e molta parte dei cavi che collegano l’Europa al resto del mondo è adagiata sulle sue profondità. In questo mare ribollente di crisi ma anche di opportunità la geologia ha posto il lungo molo della nostra Penisola. 1000 miglia la separano da Gibilterra, circa 600 da Suez.

Viene quindi da chiedersi se l’Italia si è accorta di tutto ciò e se, soprattutto, ha intenzione di collocarsi stabilmente in questo complesso scenario, sviluppando una propria realistica strategia e un credibile potere marittimo.

Si potrebbe brutalmente definire il potere marittimo non solo l’insieme coordinato della flotta mercantile e di quella militare, ma anche quello dei porti, dei cantieri, delle tecnologie di connessione, del sistema multimodale dei trasporti e non ultima della politica e della cultura marittima di un popolo. In particolare questi due, sebbene immateriali, costituiscono il lievito di ogni reale potere marittimo. Si tratta infatti di definire quale sia la consapevolezza che un popolo e la sua classe dirigente hanno della propria “marittimità” e della loro storia marittima.

Senza voler tirare di nuovo in ballo Cristoforo Colombo, Amerigo Vespucci o Antonio Pigafetta è noto a tutti che l’Italia come penisola mediterranea possa vantare una storia marittima millenaria i cui effetti sono patrimonio della nostra stessa italianità. Tuttavia a partire dalla sconfitta nella seconda guerra mondiale la marittimità del paese è andata via via affievolendo, limitandosi ormai al ristretto ambito di quanti con il mare e sul mare ci lavorano e ci vivono. Per tutti gli altri e soprattutto per la classe dirigente di questo paese quando si parla di Mediterraneo si pensa a una fonte di guai o a un parco giochi per l’estate. Nel primo caso si guarda all’immigrazione clandestina dai paesi dell’Africa; fenomeno che sta di certo assumendo una dimensione preoccupante, ma non tale da fare dei migranti l’unico interesse italiano verso l’ex “mare nostrum”; come a dire che i 42.449 disgraziati che dal 1 gennaio al 5 maggio 2023 sono sbarcati sulle nostre spiagge non sono un numero sufficiente per farci voltare le spalle al mare. La visione del Mediterraneo come gigantesco parco divertimenti è meno ansiogena visto che sdraie, ombrelloni e pedalò, insieme alle città d’arte, concorrono per ben il 13%  a formare il nostro prodotto interno lordo. Balza agli occhi che in entrambi i casi si tratta di una visione molto angusta, priva di ogni profondità politica e, in definitiva, pericolosa per gli interessi generali della comunità che in questa spensierata Penisola ci vive ignara se ha o meno una cultura marittima, vale a dire, secondo un’efficacie definizione di Luca Caracciolo una cultura che invece di guardare il mare dalla terra sollecita a guardare la terra dal mare.

Alla ricerca di uno sguardo marittimo l’Italia si scopre se non proprio cieca almeno molto miope. Ciò che palesemente manca è una visione del mare come estensore e moltiplicatore di potenza, un mezzo vitale per esprimere il soft-power italiano e uno spazio indispensabile alla difesa degli interessi vitali del Paese. Alla luce di questi tre parametri possiamo ben dire che l’Italia non si è ancora ripresa dal trauma causatogli della fine della guerra fredda. Vediamo di capire perché.

Tutto ha inizio a partire dalla fine degli anni ’90, con il definitivo collasso dell’URSS, quando gli Stati Uniti scoprono che era giunto il tempo di prestare attenzione a nuovi teatri; in primo luogo a quello indo-pacifico dove Washington era ed è tuttora convinto di dover giocare la decisiva partita con la Cina. Peraltro a dare una spallata alla noblesse del Mediterraneo aveva pensato l’allargamento a est della NATO. Polonia, stati baltici, Ungheria, ma anche Romania e Ucraina garantivano un più vicino e pressante contributo al contenimento della Russia, nel frattempo faticosamente riemersa dall’apnea post-sovietica.

Per Washington il Mediterraneo si è dunque negli anni trasformato in un teatro di secondo piano, in cui l’impero americano poteva anche non intervenire direttamente, lasciando alle foederatae civitates la gestione delle crisi regionali. L’incancrenita questione israelo-palestinese, il disfacimento del Libano, la guerra civile in Siria, l’espansione turca ai danni dei Curdi, gli attriti balcanici tra Serbia, Kossovo e Croazia, le “primavere arabe” o il sorgere dello stato islamico erano in fondo questioni che il pilastro europeo della NATO e il suo specchio politico della Unione Europea potevano a gestire oppure sopportare, poco importa.

In questo vuoto di potere alcuni stati hanno ritenuto di trovare lo spazio per proporre e talvolta imporre una propria strategia, altri no. Tra i primi il più vivace è stato di certo la Turchia con la sua visione della “patria blu”, ma anche l’Algeria o la Grecia. Anche la Federazione russa ha tentato e sta tentando di uscire dalla morsa dell’allargamento a est della NATO cercando un aggiramento sul fianco sud dell’Alleanza; manovra questa che passa attraverso il diretto coinvolgimento militare in Siria, l’appoggio all’Egitto e la presenza fisica non solo in Libia ma anche tra gli stati del Sahel africano.

Persino stati lontani, non propriamente mediterranei hanno sviluppato una visione di sé che li sta portando a immaginarsi lontano dai contesti attuali. E’ questo il caso della Polonia, degli stati baltici e di altri otto paesi, raggruppati nell’iniziativa del cosiddetto “tri-marium”. Si tratta di un progetto per collegare e difendere gli interessi politici, economici, commerciali e di sicurezza di un area che, partendo dal mar Baltico, arriva al mar Nero e all’Adriatico. L’iniziativa a guida polacca è stata sostenuta sia dall’amministrazione Trump sia da quella attuale di Biden a sottolineare l’avvenuto spostamento a est dell’asse americano in Europa e la costanza della strategia anti-russa di Washington. Fuori da questa iniziativa sono rimasti la Germania, paese che comunque affaccia sul Baltico, ma ancora troppo “filo-russo” e l’Italia.

Al riguardo il nostro paese, come a confermare la mancanza di una visione strategica di sé stessa, dapprima ha reagito con sorpresa e in seguito con completo disinteresse. Ci è voluto del tempo per ricordarci che siamo noi a detenere il controllo completo dell’Adriatico e che siamo sempre noi a disporre dei porti più numerosi e attrezzati sulle sue sponde, partendo da quello di Bari, passando per Ancona, Ravenna, Venezia e concludere a Trieste. Poco importa: la parte adriatica dell’iniziativa è stata affidata alla Croazia. Chapeau!

Eppure mai come in questo momento la situazione generale sembra essere a noi favorevole. Il progressivo disimpegno degli USA, per anni elemento pacificatore dell’intero bacino ha aperto spazi di autonomia solo parzialmente occupati da altre potenze come Turchia, Federazione russa ma anche Francia e Gran Bretagna. Ma c’è dell’altro.

Attraversati da feroci crisi economiche, con la disoccupazione alle stelle, sferzati dalla crisi del grano – sottoprodotto del conflitto russo-ucraino – i paesi della sponda sud del Mediterraneo sono oggi sull’orlo di una crisi che può diventare irreversibile e pertanto cercano disperatamente un appoggio robusto e affidabile nei paesi della sponda nord. Un appoggio che sarebbero disposti a pagare o compensare in termini di controllo dei flussi migratori e forniture energetiche, basterebbe tendere la mano senza ritrarla all’ultimo momento come avvenne nel 2019 quando a fronte delle richieste di aiuto da parte del governo di Tripoli, un governo che noi per primi avevamo concorso ad insediare, preferimmo fare orecchi da mercante, spingendo così la Tripolitania tra le braccia di Ankara, ben felice di porre non uno, ma due piedi nel ex “bel suol d’amor

Non si tratta della sola Libia dove, a oltre dieci anni dalla caduta di Gheddafi, ancora non s’intravede una via di pacificazione, ma anche della Tunisia i cui giovani sono in fuga dalla fame o dello stesso Egitto dove il governo, nel marzo scorso, per assicurare il pane agli oltre 110 milioni di abitanti, è stato costretto a imporre il prezzo di 50 piastre – poco più di tre centesimi – per un panino di 45 grammi. Il motivo? La crisi del grano scatenata dalla guerra in Ucraina.

A sud del Sahara – immediato retroterra della sponda sud del medioceano – la situazione e ancor più grave. La francafrique è ormai agli sgoccioli, rimpiazzata da cinesi e russi, il Sudan è in preda a una violenta lotta per il potere, il Ciad è anch’esso attraversato da forte instabilità, in Repubblica Centroafricana gli uomini del Gruppo Wagner sono ormai di casa e, come se non bastasse, su tutto questo gravano gli effetti del cambiamento climatico e della perdurante siccità che sta inducendo masse sempre più consistenti di individui a tentare la sorte muovendo verso nord.

Grande è la confusione sotto il cielo, quindi la situazione è eccellente!” avrebbe forse commentato Mao Tze Tung osservando quando accade in questo irrequieto quadrante. Certo, situazione eccellente a patto di disporre di un disegno capace di coglierne le opportunità e della forza per perseguirle. L’Italia, malgrado tunnel, trafori o valichi, resta in sostanza separata dall’Europa centro-settentrionale dalle Alpi, ed è, sempre suo malgrado, per gran parte un paese mediterraneo. Basterebbe questa banale constatazione geografica per indurre all’azione, ma nulla o poco accade.

In pochi sembrano chiedersi perché in un mare attraversato dal 27% del traffico container mondiale quasi il 90% delle porta-container, una volta uscite da Suez, preferiscono affrontare altri sette o otto giorni di navigazione per arrivare ad Antwerp, Amburgo o Rotterdam piuttosto che attraccare a Napoli, Genova, Bari o Trieste. Eppure il nostro paese è attraversato da alcuni tra i più importanti “corridoi” europei. Abbiamo quello scandinavo-mediterraneo che collega i principali centri urbani in Germania e in Italia con la Scandinavia e il Mediterraneo. C’è poi il corridoio Mediterraneo che collega Spagna e Francia con l’Ucraina e l’Ungheria, passando attraverso le Alpi e l’Italia. Non dimentichiamo i 2400 km del corridoio baltico-adriatico tra i porti del Baltico in Polonia e quelli adriatici, connettendo i centri economici di Varsavia, Vienna, Venezia, Trieste e Ravenna e infine il corridoio alpino collega sull’asse nord-sud i porti sul Mare del Nord di Rotterdam e Antwerp con le basi nel Mediterraneo, come il porto di Genova.

Perché allora la flotta mercantile italiana nell’ultimo decennio ha visto diminuire la propria consistenza e attrattività? Da uno studio pubblicato dal Gruppo Giovani di Confitarma risulta che essa è passata da un tonnellaggio complessivo di 17.044.319 ton. nel 2010 a 14.723.084 ton. nel 2018. Nello stesso periodo la Danimarca da 12.126.432 è passata a 20.966.896 ton. Nel 2008, poco prima della ben nota crisi economica mondiale che ha investito anche lo shipping, l’Italia si collocava al 15º posto della classifica mondiale per tonnellate di gross tonnage (tonnellate di stazza lorda) registrate dai principali Paesi marittimi. Dopo 10 anni, l’Italia ricopre oggi solo la 18ª posizione mentre altri Paesi europei, come Portogallo e Danimarca, in condizioni macroeconomiche del tutto simili alle nostre, ci hanno sorpassato.

Sebbene la situazione, solo a volerla ricercare, sia chiara, il sistema-paese-Italia, definizione tanto cara alle classi dirigenti degli ultimi trent’anni, sembra ancora ostinarsi a far finta di nulla, preferendo guardare il mare dalla terra piuttosto che la terra dal mare.

Si tratterebbe in fondo di coprire quegli otto giorni tra Suez e Rotterdam gettando sul mercato mondiale la controfferta di 36 ore tra Gioia Tauro e Berlino. Tuttavia per giocarsi e vincere questa battaglia dei quattro giorni sono necessarie non certo infrastrutture isolate o di richiamo (vds ponte sullo stretto) ma un sistema combinato di porti-strade e ferrovie all’altezza dell’obiettivo. In questo contesto i fondi del PNRR potrebbero rappresentare un’occasione irripetibile per far ritornare il nostro paese a una dimensione marittima di rilievo. Tuttavia, almeno a stare alla quotidiana vulgata mediatica, di tutto questo sembra giungere un’eco smorzata, come se ignorare la situazione fosse un modo per sfuggirne gli effetti. (fine della prima parte)

TUTTI AL MARE (seconda parte)

Nella seconda parte di questo (lungo) intervento si parla ancora di Mediterraneo ma dal punto di vista di chi una sua visione ce l’ha.

(segue dalla prima parte) Per fortuna non tutti hanno paura di navigare in acque travagliate. Ad esempio va ricordato come nel gennaio scorso l’amministratore delegato dell’ENI Claudio Descalzi ha firmato un accordo quarantennale con la Libia del valore di dieci miliardi di dollari per la fornitura di gas.

L’amministratore delegato dell’ENI, Claudio Descalzi (foto WEB)

Allo stesso modo l’ENI e il presidente della National Oil Corporation (NOC) libica, Farhat Omar Bengdara sembrano decisi al completo ripristino dei 520 km del gasdotto greenstream che dalla centrale di compressione di Mellitah può trasportare a Gela fino a 10 miliardi di metri cubi/anno di metano. Farà piacere sapere che grazie all’Italia e alla messa in esercizio del giacimento Zohr– il più grande mai individuato nel Mediterraneo – l’Egitto ha ormai raggiunto la quasi completa autonomia energetica. E via di questo passo con decine se non centinaia di iniziative, molte delle quali innovative e produttive, che coprono parzialmente il vuoto di visione della Repubblica italiana.

La sede a Tripoli della National Oil Company.

Mentre noi continuiamo a procedere a tentoni altri hanno elaborato un pensiero definito e preciso riguardo la loro vocazione marittima e sono pronti a trasformarlo non solo in una strategia politico-economica , ma anche militare.

E’ giusto sottolineare come accanto al vuoto di potere lasciato nell’area dagli Stati Uniti e allo spostamento dell’asse geopolitico mondiale, un altro elemento ha permesso ad alcuni un nuovo sguardo verso il bacino mediterraneo. Mi riferisco a ciò che è comunemente definita come la “terrorializzazionedel mare.

Per comprendere il valore di questo termine che regola l’attuale regime degli spazi marittimi è necessario fare un passo indietro di una quarantina d’anni. In quell’epoca, agli sgoccioli della guerra fredda, si parlava di acque territoriali, di piattaforma continentale e di alto mare, che potremo definire come “il mare di tutti”. A quel tempo a nessuno sembrava poter venir in mente di “cartolarizzare” l’alto mare, ma mai dire mai.

Mareggiata sul lungomare di Tripoli (foto P.Capitini)

A partire dagli anni ’80 del secolo scorso, in forza di trattati e convenzioni ma anche di manovre unilaterali o di politiche particolarmente aggressive, lo spazio destinato al mare-di-tutti si è molto ridotto. In particolare, nel 1982, con la convenzione di Montego Bay, sono state istituite le Zone Economiche Esclusive che hanno compresso l’Alto Mare, anche se non sono riuscite ad eliminarlo del tutto. Una ZEE[2] è infatti una zona di mare dedicata all’esercizio esclusivo di alcuni diritti da parte dello Stato che la dichiara. Si tratta di diritti quali la pesca, il monitoraggio antiinquinamento, ma soprattutto lo sfruttamento del fondale e del sottosuolo.

Le attuali Zone Economiche Esclusive nel Mediterraneo. L’Italia deve ancora definire al sua

In un mare chiuso sul quale si affacciano venti Stati diversi basterebbe questo a definire il potenziale di crisi e contenziosi generato dalla dichiarazione di una ZEE, così come la perdita di opportunità conseguente la sua mancata individuazione.

Se è vero che una ZEE non ha niente a che vedere con la sovranità esprimibile ad esempio all’interno di acque territoriali e che comunque viene garantito il diritto alla libera navigazione da parte di navi di altri paesi, essa rappresenta comunque un elemento fortemente condizionante il potere marittimo. Nel tempo, alcuni paesi, in primo luogo la Turchia ma anche Grecia, Algeria o Cipro hanno sviluppato una visione più esclusiva e proprietaria della propria ZEE.

Ad esempio nel marzo 2018 un decreto del presidente della Repubblica algerina ha disegnato la ZEE del paese nordafricano estendendola fino ai confini delle acque territoriali italiane, cioè a 12 miglia marine dalla costa sarda e altri contenziosi riguardano ad esempio le isole greche prospicenti la Turchia o le condizioni delle acque attorno a Cipro.

La Zona Economica Esclusiva definita dall’Algeria. Notare la distanza dalla costa sarda.

E l’Italia? In questa corsa a tracciare confini sul mare a che punto siamo? Anche in questo caso la risposta è sconfortante. Il sito della Camera dei Deputati informa infatti che, ad oggi:”…è all’esame della Commissione Affari esteri della Camera, in sede referente, la proposta di legge A.C. 2313, d’iniziativa della deputata Iolanda Di Stasio ed altri, concernente l’istituzione di una zona economica esclusiva oltre il limite esterno del mare territoriale”. Quindi mentre l’Algeria si crede a casa sua a 12 miglia da Carloforte, a Roma stiamo ancora pensando se e quando dichiarare quale sarà la nostra ZEE, sempre che rimanga abbastanza mare per averne una.

In riferimento al tempo che corre qualcuno forse ricorderà anche il caso del cosiddetto accordo di Caen tra Italia e Francia riguardante i confini marittimi a nord della Sardegna. L’accordo firmato il 21 marzo 2015, dopo un lungo negoziato avviato nel 2006 e terminato nel 2012, non è stato ancora ratificato a conferma di come mentre per alcuni il mare va recintato e preservato per noi rimane ancora solo “acqua salata”.

Le crescenti tensioni nel bacino del Mediterraneo stanno infine riportando le marine militari di molti paesi, incluso il nostro, ad esercitare il loro pieno diritto di navigare e operare nelle ZEE di qualche altro paese. Come è ovvio ciò è stato, e ancor più sarà, causa di tensioni e forse di incidenti soprattutto quando una di queste marine è l’emanazione di uno stato che le idee sulla propria posizione nel Mediterraneo le ha ben chiare. E’ questo il caso della Turchia.

Incardinare le proprie scelte politiche in base a una strategia precisa e a lungo termine permeata di dottrina e dal carattere visionario non è una prerogativa di tutti i Paesi. Sono poche le potenze mondiali che possono realmente dirsi in grado di condurre questo tipo di scelta. Una di questa è oggi la Turchia, che da quando Recep Tayyip Erdogan è salito al potere sembra aver intrapreso con costanza l’idea di voler riprendere il posto da cui è stata detronizzata dalla prima guerra mondiale.

Il primo decennio del suo governo ha avuto come faro strategico dotare il paese di una propria profondità strategica da ricercare non solo in terra con l’apertura ai vari stati turcofoni della galassia ex-sovietica, ma anche sul mare. Padre di questa strategia è stato il ministro degli esteri e poi primo ministro Ahmet Davutoglu. Sua infatti la visione di espansione e di penetrazione della Turchia in diverse direttrici e la trasformazione del paese in attore di primo piano nelle contese mediorientali. Sua anche la volontà di espandere Ankara verso i tre mari che circondano la Turchia – Mediterraneo orientale, Mar Nero e Mar Egeo – ma anche verso mari più distanti ma utili a mantenere le roccaforti costruite negli anni della “profondità”.

I confini marittimi secondo la Turchia (fonte Limes)

Tutto questo ha un nome e si chiama “Mavi Vatan”, altrimenti conosciuta come la dottrina della “patria blu”. A idearla è stato l’ammiraglio Cem Giurdeniz nazionalista e kemalista convinto e per questo odierno oppositore di Erdogan. L’obiettivo di mavi vatan è uno solo: controllare il mare per controllare le risorse energetiche e imporre così la propria influenza. Secondo la visione di Ankara sarà dunque il mare, la “patria blu”, a sostenere i suoi piani egemonici e di leadership.

La portaerei/porta droni turca ANADOLU varata il 4 maggio 2019

Non si tratta tuttavia solo di progetti e visioni. 27 novembre 2019 l’allora premier libico Al-Sarraj e il presidente Erdogan hanno concordato la delimitazione delle rispettive ZEE. La decisione era nell’aria da qualche mese dopo che UE, Gran Bretagna, Israele e Stati Uniti erano scesi in campo a difesa dei giacimenti di gas scoperti attorno a Cipro.

Mappa che illustra l’accordo turco-libico del 2019 sulle rispettive ZEE.

L’accordo del 2019 ha finito per costituire una minaccia diretta per i diritti della Grecia sugli spazi marittimi circostanti Creta e il Dodecanneso. La potenziale ZEE di Creta è stata infatti privata di un’ampia porzione poiché quella turco-libica si estende dal promontorio ad ovest di Antaya al tratto di costa libica tra il confine con l’Egitto e Derna e al suo interno si trova per giunta l’isola greca di Castellorizo. Al tempo sulla questione il Ministero degli esteri italiano si era espresso testualmente in questi termini:

”…l’orientamento nella disputa turco-cipriota è diretto a favorire i diritti sovrani di Cipro e ad assumere un atteggiamento fermo ma reversibile auspicando che la Turchia voglia tornare al più presto a un atteggiamento più costruttivo”.

Cosa pretendere di più?

Quello del 2019 è comunque solo il primo di una serie di accordi e di iniziative diplomatiche messe in atto dalla Turchia per esportare il modello “patria blu” anche ad altre frontiere marittime. In tal senso particolarmente rilevanti sono le trattative in corso con Israele per definire una ZEE confinante sul modello di quella turco-libica. Cosa ne possano pensare la Grecia, l’Egitto, Cipro o altri attori dell’area del Mediterraneo orientale è facile da immaginare.

In apertura si è introdotto un neologismo,“medioceano”, è quindi tempo presentare il maggiore degli attori extra-mediterranei ed oceanici che sul nostro ha un’influenza tanto nascosta quanto decisiva: la Cina. Per questo partiamo da un nome e da una data. Il nome è Zhōngguó e la data è 2049.

Carta del mondo secondo Pechino- notare la posizione centrale della Cina.

Zhōngguó, liberamente tradotto in “impero di mezzo” è la definizione che i cinesi danno di sé stessi. Verrebbe da chiedersi in mezzo a che? Al mondo, naturalmente. La Cina popolare e prima di lei quella imperiale si è sempre vista come il centro del mondo; il perno attorno al quale orbitano le altre terre. La cosa non dovrebbe sorprenderci più di tanto, visto che Pechino ha la stessa visione di sé che per oltre 500 anni ha avuto l’Europa e che dopo la seconda guerra mondiale è stata allargata ad un’indefinita realtà geografica denominata “Occidente”, solo per non dire il mondo anglosassone, bianco e capitalista e liberale.

Il mondo secondo l’Occidente – notare l’Europa al centro.

Nulla di sorprendente se lo Zhōngguó, fedele alla sua auto-percezione intenda muoversi per imporla anche al resto dei satelliti, noi compresi.

La visione della Cina nei prossimi anni è dunque di trasformarsi rapidamente da potenza eminentemente terrestre in una super-potenza marittima.

La portaerei cinese “Shandong”

Questo sforzo che non dipende solo dall’incremento degli strumenti fisici del potere marittimo come navi, rotte o porti, ma passa anche dal mutamento di quelli immateriali della storia navale e della coscienza marittima di un popolo sterminato tutt’oggi in gran parte contadino e per ciò stesso legato alla terra.

Chiariamo ora perché si è indicato il 2049. Questa è la data entro la quale Pechino intende definitivamente affermarsi come super-potenza globale attraverso il conseguimento di precisi obiettivi. Per quanto di interesse uno degli obiettivi più importanti è il dominio sul mar cinese meridionale con l’annessione di Taiwan e la connessione al resto del mondo attraverso le “nuove vie della seta”.

Pechino ha dunque capito che per competere davvero con gli Stati Uniti deve trasformarsi in potenza marittima espandendo la propria influenza all’estero anche attraverso il commercio, ma non solo. Chi immagina le nuove vie della seta come semplici assi di penetrazione economico-commerciale commette un errore di sottovalutazione. Essi sono parte di una precisa strategia di potenza.

Nel 2012 Wang Yizhou – vicepreside della facoltà di Studi internazionali all’Università di Pechino – presentò la teoria della “creative involvement diplomacy” come chiave di lettura della nuova diplomazia cinese, non più limitata alla ricerca di risorse energetiche, ma più partecipativa e diretta. Interventismo, ma non interferenza, commercio, ma non sottomissione all’Occidente.

Le nuove vie della seta (fonte Limes)

Questa nuova fase della politica estera mette insieme, secondo il suo autore, grandi opportunità e grandi incertezze per lo “impero di mezzo”, abituato a un’aggressiva diplomazia commerciale fondata sulla ricerca di risorse per alimentare la sua enorme industria. Il mezzo per perseguire questo disegno strategico è la Nuova Via della Seta (in cinese “yī dài yī lù – una cintura, una via liberamente tradotta in inglese in “Belt and Road Initiative). Presentato da Xi Jinping, il piano prevede di ricostruire gli antichi collegamenti tra oriente e occidente lungo una direttrice terrestre e una marittima.

Il presidente cinese Xi Jin Ping

La via terrestre partirà dalla Cina e toccherà Iran, Iraq, Siria e Turchia per poi raggiungere l’Europa continentale, mentre quella marittima passerà per Malesia, India, Sri Lanka e Kenya per poi attraversare il Mar Rosso e arrivare sempre in Europa attraverso il Mediterraneo dove si ricongiungerà con la via terrestre.

L’unione di tre continenti attraverso questa doppia cintura terrestre-navale fornisce una chiarissima visione di quello che la Cina vuole riuscire a conseguire prima delle fine di questo secolo: riconquistare il titolo di impero di mezzo. E’ a questo punto che l’Occidente farebbe bene a riflettere sul fatto che per la Cina la dimensione economico-commerciale e quella militare sono un tutt’uno. Le nuove vie della seta sono dunque essenzialmente uno strumento di potere militare e come tali vanno trattate con le dovute cautele.

Cautela che nel 2019 l’allora governo Conte e il suo ineffabile ministro degli esteri non hanno dimostrato di avere allorché aderirono entusiasticamente alla proposta cinese di inserire l’Italia nell’ambito di questa cintura.

Ci volle del tempo per far comprendere al governo che l’Italia la sua scelta l’aveva già fatta nell’aprile del 1949, aderendo alla NATO e che, volenti o nolenti, eravamo parte di quell’Occidente che la Cina aveva identificato se non come nemico almeno come concorrente.

Gli Stati Uniti fecero altresì sommessamente notare che in Italia erano ancora presenti 13.000 militari americani che per la maggior parte lavorano in una delle nove basi principali sparse per la penisola e che per inciso il comando della 6^ flotta USA era ancora a Napoli.

Un F-16 in decollo dalla base USAF di Aviano

Un membro anziano dell’Alleanza Atlantica e della Unione Europea, paese baricentrico nel Mediterraneo, repubblica fedele alleata degli Stati Uniti che apriva la porta di casa al loro principale avversario non aveva rappresentato un lampante successo della nostra politica estera e ci è voluto del bello e del buono per sfilarsi dalle clausole più stringenti dell’accordo con Pechino.

Perché dunque visti da Pechino Mediterraneo e Italia sono importanti? Perché molto prima di noi i cinesi hanno compreso la funzione di “medioceano” del nostro mare, cioè l’essere il Mediterraneo un canale di transito tra il Pacifico e l’Atlantico. Per garantirsi libero transito e completa libertà d’azione nel Mediterraneo come nel mar cinese meridionale Pechino deve allentare la catena di contenimento americana; una catena i cui anelli sono le isole, gli stretti, le basi e i gruppi da battaglia statunitensi che senza sosta pattugliano il Pacifico, l’oceano Indiano e l’Atlantico.

Le nuove vie della seta sono dunque le direttrici che la Cina intende percorrere per rompere o allentare l’abbraccio contenitivo americano. La via terrestre e quella marittima non sono né alternative l’una all’altra, né certamente separate, ma vanno intese come diramazioni di un unico progetto, di un’unica concezione dell’Eurasia in cui i porti – tanto per restare sul mare – fungono da punto di connessione tra le due diramazioni.

La visione è senza dubbio affascinante e di lungo respiro, così come è proprio della millenaria tradizione cinese, ma presenta dei gravi punti di vulnerabilità, che per l’antagonista statunitense rappresentano altrettante opportunità di rinsaldare la presa attorno al collo del Dragone.

Sia via terra, sia via mare queste vie sono fragili. Esse infatti attraversano territori estremamente instabili, basta pensare all’Afghanistan, alla Russia e oggi alla Ucraina, ma anche sul mare – per il tratto che interessa il Mediterraneo – c’è poco da stare tranquilli.

Malgrado la precarietà la Cina continua a investire in quelli che ritiene essere i punti di forza o se preferite “le oasi” per le sue carovane in marcia lungo le vie della seta. Ve ne sono anche in Italia.

navi portacontainer della China Ocean Shipping Company (COSCO)

Ad esempio perché non ricordare Vado Ligure dove è stato realizzato il Vado Gateway, terminal container gestito da APM Terminals Vado Ligure Spa, società italiana composta da APM Terminals (50,1%), COSCO Shipping Ports (40%) e Qingdao Port International, (9,9%). Trieste dove Pechino continua a investire anche dopo il repentino raffreddamento della partecipazione italiana alla via della seta. E’ dal gennaio 2023 infatti che la Hamburger Hafen und Logistik, società che gestisce il porto tedesco di Amburgo e divenuta gestore anche del porto triestino. Si dirà “Sono tedeschi”. Certo, peccato che il 24,9% di HHL è in mano al colosso cinese COSCO.  A palazzo Gardini, a Ravenna, troviamo la sede europea di CMITChina Merchants Industries Technology Europe; un colosso che tra le tante attività gestisce 53 porti in 20 Paesi ed è uno dei leader mondiali nella costruzione e riparazione di navi e piattaforme off-shore.

Ravenna – Inaugurazione del CMIT a palazzo Gardini

In Sardegna, a Pulaimmerso nel verde, a un’ora di macchina da Cagliari… come recita il suo sito sorge il CRS4 (Centro Ricerca, Sviluppo e Studi Superiori in Sardegna), un centro di ricerca all’avanguardia realizzato grazie alla collaborazione della Regione Sardegna con il colosso cinese delle telecomunicazioni HUAWEI che dal 2016 vi ha investito 17 milioni di euro. Che fanno a Pula i cinesi? Gestiscono il Joint Innovation Center, un laboratorio che ha l’obiettivo di realizzare infrastrutture sperimentali con cui verranno sviluppati servizi intelligenti per le smart cities, le città del futuro. Per ultimo abbiamo lasciato il Mortara (PV) che di questi fin qui enunciati ha finora avuto la sorte più infelice. In mezzo alle risaie di Mortara, o forse proprio per questo, sorge il Polo Logistico Intermodale dal quale alle 11, 50 del 28 novembre del 2017 è partito il primo e finora unico treno destinato a percorrere la linea ferroviaria Mortara/Milano – Chengdu capoluogo della provincia cinese del Sichuan.

Come ovvio iniziative di questo tipo non riguardano solo l’Italia. Noto a tutti è il caso del porto greco del Pireo, acquisito nel 2016, nel pieno della crisi del debito che travolse Atene, dall’immancabile COSCO e odierna via d’accesso privilegiata per le merci destinate ai mercati dell’Europa orientale e punto di smistamento più servito per quelle destinate ai mercati dell’Europa centrale.

La base militare della Repubblica Popolare cinese a Gibbuti

E’ interessante gettare uno sguardo al di là delle sponde del medioceano per giudicare il respiro della strategia di liberazione cinese. Questo sguardo porta nel Corno d’Africa, all’imbocco dello stretto di Bab el-Mandeb. Qui, a Gibuti, a soli 13 km dalla più grande base americana in Africa, da cinque anni opera la prima base militare cinese sul continente nero.

Per citare le parole pronunciate nel 2021 dal generale Stephen Townsend, comandante dell’Africa Command (AFRICOM), alla commissione per le forze armate della Camera statunitense a proposito della presenza cinese in Africa, “La Cina emerge come la forza economica esterna dominante in Africa e i suoi investimenti in Africa stanno superando quelli degli Stati Uniti e dei suoi alleati. La Cina usa il suo peso economico anche per offrire prestiti sfavorevoli ai paesi africani, che funzionano come trappole del debito che aiutano a garantire l’accesso di Pechino alle infrastrutture chiaveSono letteralmente ovunque nel continente”. Per tornare a Gibuti e alla luce della realistica visione del generale Townsend, laggiù la Cina non ha solo una base militare, ma anche il più importante terminal per un colossale progetto infrastrutturale che prevede di unire con una ferrovia la costa orientale dell’Africa con quella atlantica. In linea d’aria sono oltre 4.000 chilometri, la metà della ferrovia transiberiana che qualora si riuscisse davvero ad attraversare con un asse ferroviario e stradale permetterebbero di bypassare in parte Suez e di aprire alla Cina un proprio sbocco diretto in Atlantico.

Cannukkale – stretto dei Dardanelli (foto P.Capitini)

Si potrebbe proseguire nell’elencazione di altre iniziative simili, ma quello che premeva rappresentare qui oggi – in una città che prende il proprio nome dall’essere in mezzo alla pianura e quindi per definizione lontana dal mare – è di come attorno a questo antico mare chiuso come attraverso le sue acque navighino non solo navi e traffici ma manche visioni strategiche di altissimo respiro. La Turchia con la sua “Patria blu”, l’Algeria che tra poco considererà anche la spiaggia del Poetto a Cagliari come Zona Economica Esclusiva, con la Libia in fiamme e 200 milioni di nordafricani potenzialmente pronti a salpare suona rassicurante che da noi Mediterraneo significhi ancora ponte sullo stretto e fiera opposizione alla direttiva europea sugli stabilimenti balneari. Buona fortuna.


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Chi di rave colpisce…

Sul decreto legge anti-rave passata è la tempesta, anche se non si ode alcun uccello far festa. Allora forse è il momento giusto per parlarne un po’. Per prima cosa c’è da dire che il decreto legge – sebbene scritto in un momento di post coma etilico da un maori neozelandese appena sbarcato a Livorno – non vieta in alcun modo di organizzare un rave. Se si decide di rincoglionirsi per tre o quattro giorni senza mangiare, dormire, lavarsi, saltellando allegramente al ritmo della pressa-maglio dell’Ansaldo officine; ebbene, si può fare. Basta organizzarsi.

Non parlo del giro segreto e carbonaro via WEB per informare 5.000 cristiani di trovarsi sull’aia del signor Filippo il tal giorno alla tal ora. No, intendo qualcosa di un tantino più complicato, ma che il signor Filippo di certo apprezzerà. Intanto inizi aprendo una bella partita IVA, poi affitti o compri un luogo, anche quello del signor Filippo se te lo dà, oppure se è già tuo lo metti a disposizione per il rave che vuoi organizzare. Nel frattempo vedi in che comune abita il signor Filippo. Perché? Ma perché devi individuare lo Sportello Unico Attività Produttive (SUAP) di quel comune al quale mandare tutta la documentazione.

Se al rave inviti solo 200 persone (incluso te e il signor Filippo) e ti impegni a spegnere tutto entro mezzanotte sarà sufficiente mandargli una Segnalazione Certificata di Inizio Attività (SCIA). Dentro ci dovrà essere la relazione tecnica di un professionista, che attesti le condizioni di sicurezza della manifestazione e che il montaggio di tutti gli apparati verrà eseguito a regola d’arte. Se hai un parente ingegnere o geometra o tecnico non ti costa nulla se no qualcosa devi pur tirar fuori. Se invece il rave, come sospetto, proseguirà oltre mezzanotte e avrai invitato più di 200 persone le cose cambiano un po’. In questo caso sarà necessario ottenere dal Comune un’autorizzazione per manifestazione di pubblico spettacolo, a norma dell’articolo 68, TULPS, e, da un punto di vista tecnico, sarà necessario, ai fini del rilascio dell’autorizzazione, richiedere la convocazione della Commissione di Vigilanza Comunale per i Pubblici Spettacoli e ottenere il suo parere favorevole, a norma dell’articolo 80, TULPS, e dell’articolo 141, regolamento TULPS…insomma un rompimento di scatole, ma tant’è.

Tutto qui? No. Dal 2017 il Prefetto Gabrielli ha emanato una  circolare in materia di Safety e Security piuttosto strettina. Quell’estate a Torino, in piazza San Carlo erano infatti morte un po’ di persone che si erano trovate là per festeggiare la vittoria della Juve. La cosa non era piaciuta molto e quindi da allora si è stabilito che è necessario presentare al SUAP del Comune anche il piano di emergenza della manifestazione nel quale dovranno essere indicati, in particolare, la tipologia dell’evento; le caratteristiche della location; la capienza massima del luogo ove si terrà la manifestazione e il numero di partecipanti previsto; l’individuazione delle vie di fuga, che dovranno essere chiaramente segnalate con appositi cartelli; le dotazioni di personale e di attrezzature e mezzi per il rischio incendio e per l’assistenza sanitaria; le modalità di sbarramento degli accessi e delle uscite, etc, etc.

foto LA STAMPA

Insomma… se non sei capace di farlo tu è bene che ti rivolga a una ditta specializzata in queste cose. Magari dopo che ti sei noleggiato il truck con le mega-case ti avanza qualche soldo per pagarne una a buon prezzo. Finito? Forse sì.

Se il rave lo fai dal signor Filippo, allora ti metti d’accordo con lui per il prezzo dell’affitto, se invece te ne vuoi andare da un’altra parte devi considerare che forse il posto che hai scelto è suolo pubblico. Allora? Niente paura. Basta pagare il relativo canone di occupazione di suolo pubblico, a meno che il Comune non rilasci il patrocinio all’evento, nel qual caso sei esentato dal pagamento, ma un rave organizzato con il patrocinio del Comune di Rocca Secca non ha un grande appeal, lo capisco.

foto WEB

Nei giorni del rave ci sarà un po’ di casino e un sacco di gente per cui il solerte sindaco di Rocca Secca sarà costretto a comandare i suoi 2 vigili urbani 2 a dare una mano perché tutto vada liscio. Chi paga? L’articolo 22, comma 3-bis, decreto legge n. 50/2017 dice che paghi tu e se al comune i suoi 2 vigili non bastano ed è costretto a chiamare i rinforzi, paghi sempre tu.

Tranquillo, quasi finito.

Ci sono due o tre tra leggine e Decreti del Presidente della Repubblica che faresti bebe a conoscere: sono quelli che riguardano la normativa sull’impatto acustico e sono più che certo che le dovresti leggere con attenzione.

Di sicuro mi sarò anche dimenticato qualcosa, ma ritengo che a questo punto siano chiare un paio di cose. La prima è che se sei disposto a passare tutta questa trafila devi avere una passione per la musica che Mozart al tuo confronto era svogliato. La seconda è che forse avrai notato che l’ideona del rave ha un sacco di conseguenze, alcune anche potenzialmente pericolose per te, per gli amici e anche per il signor Filippo. Ritorno quindi al decreto legge- quello scritto da un Sumero – per evidenziare che in fondo ti dice solo che non puoi farti gli affari tuoi a casa d’altri, con i loro beni e a loro spese.