UNA CROCIERA IMPOSSIBILE

Viaggio di un veliero tra le montagne d’Appennino.

Dove nasce un libro non lo so. Il mio stava nascendo nella cucina di Mirko. L’argomento – come capita ai miei lavori – sarebbe stato di quelli che per essere affrontati, avrebbe avuto bisogno di applicazione, di studio e di tempo, ma di poca fantasia; molto poca.

Una tazza di caffè e quel che rimaneva di una Sacher erano stati i muti testimoni delle sue prime righe, ma prima di cercare e confrontare, di scrivere e stracciare avevo avvertito il bisogno d’aria; quella fresca del mattino e di pioggia leggera e questo piccolo borgo dell’Appennino ligure offriva entrambe.

A Prato Sottolacroce, frazione di Borzonasca, mi avevano condotto le vele impolverate della Soleil Royal. Quella vera l’avevano varata a Brest, in Bretagna, il giorno di Santa Lucia del 1669 ed era stata affondata ventitré anni dopo, di fronte a Cherbourg, il 2 giugno 1692. Della nave ammiraglia del Re Sole sarebbe scampato un solo marinaio.

Come passaggio io mi ero dovuto accontentare di una bellissima replica che Mirko aveva scovato a Roma pregandomi di ritirarla per lui da un modellista in zona Ottavia, dalle parti di via Trionfale; una delle zone meno marinare o bretoni di Roma. Al contrario il tempo che avevo incontrato durante il viaggio era stato molto normanno. Pioggia scrosciante e veloci nuvoloni neri mi avevano accompagnato da Firenze fino a Borgo val di Taro e da lì fino al passo del Bocco ed oltre. Dopo un’interminabile serie di curve e controcurve ero finalmente attraccato sul bel tavolone vicino al camino dove la Soleil Royal avrebbe calato l’ancora a babordo della HMS Victory e guardando la San Felipe al mascone di dritta.

Preso il caffé, assaggiata la Sacher e prima di decidermi a prendere tra le mani i dolorosi giorni della guerra russo-ucraina m’era sembrata una buona idea uscire fuori malgrado questo scampolo di inverno, anche perché Mirko non si era ancora deciso ad apparire in cucina per iniziare a discutere di carri armati e generali.

La pioggia, il freddo e la distanza dal paese più vicino sembravano aver fatto di Prato Sopralacroce un luogo assolutamente deserto. Chiusa l’unica bottega; chiuso il minuscolo Ufficio postale e chiuse anche la chiesa e l’osteria, non c’era nessuno tranne me e un infastidito gatto rosso visibilmente infastidito da me che gli apparivo palesemente un intruso qual ero. Prima di sparire attraverso la porta socchiusa di un fienile, mi aveva lanciato un’occhiata fredda di disprezzo come solo i gatti rossi sanno lanciare; con gli occhi socchiusi, naturalmente.

L’intero paese appariva come un diorama in scala 1:1 e io ci camminavo dentro scrutandone le pietre nere, viscide di pioggia, l’erba verde e novella, cresciuta nell’abbandono di case da dove oltre i proprietari – spariti chissà dove sulla costa – persino i ricordi erano ormai usciti da molti anni.

Era quella la sorte dei borghi d’Appennino, dal col di Tenda all’Aspromonte. Paesini nati e cresciuti in forza di una caparbia ragione ormai sparita. Poteva essere stata la strada che legava due valli, un bosco dove far carbone e legna, dei pascoli freschi o cose del genere. Erano ragioni che queste minuscole comunità avevano ritenute sufficienti per rimanere quassù, dove il mare in una bella giornata di sole lo puoi vedere come un drappo di stoffa blu scura e per il resto del tempo lo puoi solo immaginare attraverso la nebbia del bosco.

Prima che i supermercati e le villette a schiera con annessa taverna esercitassero il loro finale richiamo c’avevano pensato le grandi fabbriche della pianura e la guerra a stanare dalle loro case di pietra quella gente silenziosa dalle gambe d’acciaio e dalle parole pesate come fossero piombo.

Sulla piazzetta di fronte alla chiesa, in un angolino sotto l’indifferente abbraccio della Patria, una lapide ricordava la quindicina di morti che la sua grandezza aveva imposto persino ai giovani di Prato Sopralacroce. Quando mi capita di imbattermi nei monumenti ai caduti mi fermo sempre a leggere le lapidi con i nomi dei giovani italiani vittime delle nostre guerre ormai dimenticate. Ne abbiamo in tutti i paesini d’Italia e ce n’è uno anche a Prato Sopralacroce, vicino alla chiesa. Sono certo che quei ragazzi, uccisi da un colpo di artiglieria o dal tifo non avrebbero avuto alcun interesse a che qualcuno come me gli spiegasse il perché erano morti e in nome di cosa o per conto di chi. A loro rimaneva solo la fregatura suprema di una morte senza spiegazioni.

Nella sua assoluta eleganza, la natura aveva pensato che un ramo in fiore sopra quel ricordo ci sarebbe stato proprio bene. Tutt’attorno aveva poi sparsi petali bianchi e frettolosi che giacevano a terra, sterminati da un vento freddo e improvviso, rimasto in agguato nell’ombra dell’inverno. Sul muro di fronte era incisa caparbia la testimonianza di un capodanno passato ed oltre la chiesa, allo sbocco di un vicoletto, un manifesto ricordava l’anniversario di un’altra strage, quella del15 febbraio 1945. Quel giorno fascisti e tedeschi avevano messo al muro dieci prigionieri presi dalle carceri di Chiavari. E chi se ne ricordava più, oggi che tedeschi e anche fascisti vengono da queste parti a fare trekking o a rilassarsi in un agriturismo.

Avevo trovato buffo e perfettamente in linea con questa linea d’oblio che il manifesto fosse proprio dietro il cassonetto della differenziata. Proprio vero che l’Occidente uccide il proprio passato e per questo non riesce a vivere il presente né, tanto meno, a immaginare un futuro.

Me ne ero tornato a casa passando dalla fermata dell’autobus che ci teneva a precisare che essa valeva per ambo i lati. Uno di questi giorni mi sarei deciso a scrivere di questa nuova guerra, ma nel frattempo avevo sperato che su quei poveri nuovi morti e su quelli vecchi che la mattina avevo incontrato qualche albero del Signore avesse deciso di spargere petali bianchi e frettolosi, annunciando loro che la Pasqua è vicina.

Vent’anni fa, una sera, a Roma.

Ricordi personali dell’ultimo giorno di Giovanni Paolo II

Alla fine di marzo 2005 avevo una camera all’hotel Corsini, in via Giardini, a due passi dall’ospedale di Pavullo nel Frignano. Da Jesi mia madre era stata ricoverata lassù, in un ospedale senza nome come sono gli ospedali dei paesi prima che qualche riforma sanitaria li cancellasse.

Lassù operava un chirurgo, a parere dei medici jesini un vero luminare, che avrebbe potuto salvargli un piede fratturato e aggredito dal diabete. Questo il motivo per cui mi trovavo lassù, dove passa il confine tra il pioppo e l’ulivo; tra la pianura che taglia la gola alle rane e l’infinito mare delle colline d’Appennino.

I giorni a Pavullo erano trascorsi tra una speranza, la paura e una cena in pensione, ma alla fine l’operazione era andata bene. Mia mamma aveva ancora il piede e per me era ormai arrivato il tempo di tornare a Roma.

Dai tempi del liceo, quando con il mio compagno di banco ed amico del cuore ci avevo trascorso una quindicina di giorni, avevo sviluppato una sorta di allergia per quella città. Roma per me rappresentava in eccesso tutto ciò che non tolleravo nelle cose e nelle persone. Troppo traffico, troppo sporco, troppa furbizia. Facile dunque immaginare con quale animo ero salito in macchina per farvi ritorno.

Appena fuori il paese mi era salito irrefrenabile il desiderio di rendere il viaggio il più lento e più lungo possibili. Scartata quindi l’idea dell’autostrada imboccai la vecchia statale che conduceva in Appennino fino a Porretta Terme e da lì, giù verso Pistoia e il Tevere. Allora avevo una bella Fiat Barchetta color argento, l’ideale per quelle strade di montagna all’inizio di primavera. E ce l’ho ancora, anche se impolverata.

Avevo acceso la radio e visto che in auto mi piace sentir parlare più che ascoltare musica ero finito, credo, su RAI 2. Da giorni il papa stava male e quel giorno, il 2 aprile 2005 dal mattino era ormai chiaro che si era alla fine. Guidavo ed ascoltavo; ascoltavo e guidavo. Ogni tanto un caffè e due passi per sgranchirmi le gambe o fare un paio di foto. Così verso le sette di sera ero arrivato a Civita Castellana, a pochi chilometri ormai da casa. Per tutto il viaggio avevo seguito l’agonia di quest’uomo. Avevo ascoltato testimonianze di questo e di quello, ricordi d’infanzia e collegamenti da piazza San Pietro. Dentro ognuna di quelle conversazioni non c’era nulla di speciale o di interessante se non il fatto che l’intero Paese si fosse fermato in attesa della notizia. Quello si che era davvero inatteso. Almeno per me.

Decisi di tirar dritto fino a Roma. Ci arrivai in meno di un ora e riuscii anche a trovare un parcheggio in via dei Gracchi che per chi è pratico di Roma è un po’ come trovare un diamante. Scesi dalla mia Barchetta e mi incamminai verso Piazza Risorgimento. Girato l’angolo con via Cola di Rienzo mi accolse una folla di persone come avviene nei giorni di festa all’ora del passeggio. Solo che non parlava nessuno. Nessuno proferiva parola, anzi si sentiva un leggero bisbigliare e lo scalpiccio di migliaia di scarpe. Nessuno chiedeva cosa fosse successo o dove si stesse andando.

Per chi vive a Roma non sentire il minimo rumore, nessuna sirena, nessun vociare; solo il rumore di migliaia di passi è un’esperienza estraniante. E lo fu certo per me. Fu al tempo stesso una sorpresa e una lezione. La sorpresa veniva certo dal mio giudizio superficiale sulla città e da questo veniva anche la lezione. Per esperienza millenaria Roma sapeva distinguere il valore degli uomini, che fossero re, papi, imperatori o popolani. Agli uomini degni, ed erano pochissimi, riservava la gentilezza nobile del suo volto ossuto; una cortesia quasi timida di chi vuole essere presente ma senza disturbare. Ero là e capivo, o almeno credevo di capire.

Arrivai infine in piazza San Pietro e a fatica trovai un angolo dove fermarmi. Accanto a me, nei pressi del colonnato, tre giovani preti polacchi con la loro bandiera sulle spalle pregavano inginocchiati. Più avanti qualcuno stava sgranando un rosario. Ogni tanto mi arrivava un verso del Padre Nostro o un Amen. Il resto era un accalcato silenzio di attesa. Alle 21 qualcuno disse che il Papa era infine morto.

Pensai a mia madre in ospedale, a me che avevo guidato per cinquecento chilometri per essere là, e pensai al perché mi trovassi proprio in quella piazza. Io che non avevo fatto neppure la cresima, né avevo tanta confidenza con la Chiesa. La risposta era in quella città che detestavo che m’aveva insegnato in un giro di angolo a capire chi è davvero degno di rispetto e chi di una presa per il culo. E visto che l’hanno fatto santo non si sbagliava. Questo il mio ricordo di Giovanni Paolo II che mia sorella chiamava “il Papone”. (P.S. Le foto sono mie).

RICORDO DI UN AMICO.

“Ciao, so’ Roberto Tomassini, una emme e du’esse, mi raccomando”. Che venisse da Roma si capiva benissimo, ma a lui piaceva specificare che era di Roma-Talenti. Per me, che venivo da Falconara Marittima in provincia di Ancona, Roma Talenti aveva lo stesso senso che Berlino. Roma rimaneva un posto “troppo”. Troppo grande, troppo affollato, troppo rumoroso. Insomma: “TROPPO”. E poi non aveva il mare il che per me, che fino a qualche giorno prima potevo vederlo dal terrazzo di casa, era già un handicap non da poco. Comunque, Roberto Tomassini – una emme e due esse – ci teneva molto a sottolineare questo “Talenti”. L’imperscrutabile burocrazia dell’Accademia militare di Modena aveva deciso che io e Roberto fossimo destinati allo stesso plotone: il 3° plotone della 3^ compagnia che a ben guardare era l’ultimo plotone del nostro glorioso 162° corso “Onore”, il che doveva farci già sospettare qualcosa. Tuttavia nel settembre del 1980 io e Tomassini – una emme e due esse – credevamo ancora che lì in Accademia vigesse una brutale forma di democrazia in cui nessuno contasse un cazzo e che l’impegno, la tenacia e l’onestà bastassero a sopravvivere.

Ci sarebbe voluto del tempo per capire che magari un parente onorevole o generale avrebbe di certo aiutato. In mancanza di onorevoli e generali che ci fossero amici io e Roberto (d’ora in poi avrete capito che si scrive con una emme e due esse) decidemmo di essere amici l’uno dell’altro. In un giorno dell’ottobre 1980, dopo che nella cappella dell’Accademia avevamo partecipato alle prove del coro cantando l’inno alla “Virgo Fidelis”, patrona dei Carabinieri, capimmo che eravamo diventato amici veri, il perché rimane per me un mistero, ma mi basta sapere che eravamo di quelli che si trovano di rado e quando li trovi, lì per lì, non ti rendi neppure conto di avere ricevuto un dono. Passammo così gli anni dell’Accademia e quelli successivi a Torino presso la Scuola di applicazione dove, in teoria, saremo dovuti diventare bravi ufficiali e comandanti di uomini. Compito difficile se si pensa che, a parte lo studio, il resto del tempo era impiegato a cercare una ragazza o una signora compiacente che ci consolassero dei due anni di clausura patita a Modena, dopo di che si andava a sparare di nascosto in qualche cava del canavese e altre scemenze simili.

Con Roberto il giorno che la Roma aveva perso la finale della coppa dei campioni contro il Liverpool, era il 1984, decidemmo su due piedi di prendere il super bandierone giallo rosso, salire in auto e fare un’incursione in piazza San Carlo dove nel frattempo s’erano radunati molti, direi anzi troppi, tifosi juventini per festeggiare la sconfitta dell’odiata Roma. Non gradirono l’incursione e ci corsero dietro per i lunghi viali torinesi. “Mannaggia a me che sono anche interista” pensavo mentre uno dopo l’altro passavo con il rosso i semafori di corso Vittorio. Finite le scuole militari fummo catapultati io a Bellinzago Novarese e lui a Maniago, 26° battaglione bersaglieri. Da lì la vita e il tempo ci separarono pian piano fino a farmi temere che ci fossimo davvero persi di vista. Questo fino a poco più di un anno fa quando preso il coraggio e chiamai. “Ciao Pa’, come stai?” Mi rincuorai. Era sempre Tomassini una erre e due esse di trent’anni prima. Era sempre il mio amico. Da qual giorno sono successe cose banali e abbiamo detto e fatto cose sceme da sessantenni in pensione, ma Roberto era di nuovo e da sempre il mio amico e questo, ogni volta che ci pensavo, mi scaldava il cuore, come a pensare a casa quando si è lontani in missione. Poi l’altro ieri il cuore del mio amico ha deciso che aveva battuto abbastanza. Aveva battuto per sua moglie, per le sue due figlie, per gli amici e anche per i nemici. E sono sicuro che avesse battuto anche per me. Ora, quasi alla Vigilia di Natale, quel cazzo di cuore di Roma-Talenti aveva deciso che aveva battuto abbastanza.

Questa mattina c’era un gran sole a Tarquinia e il mare era bello, giù, alla fine della pianura. Di fronte alla chiesa una bouganville era ancora fiorita. Me lo sono caricato su una spalla, il mio Amico, e l’ho portato fuori da quella chiesa, in mezzo al sole di un mattino d’inverno. Il mio di cuore ha deciso che poteva ancora battere e farmi scendere lacrime di abbandono.

P.S.

Ringrazio il cielo che a reggere questo peso fossero con me Matteo, Erminio, Pierluigi, Gualtiero, Vittorio, Aldo, Francesco, Daniele 1 e Daniele 2, Paolo, JB, Pietro e Ciccio…colleghi di corso e fratelli nel cuore.