RICORDO DI UN AMICO.

“Ciao, so’ Roberto Tomassini, una emme e du’esse, mi raccomando”. Che venisse da Roma si capiva benissimo, ma a lui piaceva specificare che era di Roma-Talenti. Per me, che venivo da Falconara Marittima in provincia di Ancona, Roma Talenti aveva lo stesso senso che Berlino. Roma rimaneva un posto “troppo”. Troppo grande, troppo affollato, troppo rumoroso. Insomma: “TROPPO”. E poi non aveva il mare il che per me, che fino a qualche giorno prima potevo vederlo dal terrazzo di casa, era già un handicap non da poco. Comunque, Roberto Tomassini – una emme e due esse – ci teneva molto a sottolineare questo “Talenti”. L’imperscrutabile burocrazia dell’Accademia militare di Modena aveva deciso che io e Roberto fossimo destinati allo stesso plotone: il 3° plotone della 3^ compagnia che a ben guardare era l’ultimo plotone del nostro glorioso 162° corso “Onore”, il che doveva farci già sospettare qualcosa. Tuttavia nel settembre del 1980 io e Tomassini – una emme e due esse – credevamo ancora che lì in Accademia vigesse una brutale forma di democrazia in cui nessuno contasse un cazzo e che l’impegno, la tenacia e l’onestà bastassero a sopravvivere.

Ci sarebbe voluto del tempo per capire che magari un parente onorevole o generale avrebbe di certo aiutato. In mancanza di onorevoli e generali che ci fossero amici io e Roberto (d’ora in poi avrete capito che si scrive con una emme e due esse) decidemmo di essere amici l’uno dell’altro. In un giorno dell’ottobre 1980, dopo che nella cappella dell’Accademia avevamo partecipato alle prove del coro cantando l’inno alla “Virgo Fidelis”, patrona dei Carabinieri, capimmo che eravamo diventato amici veri, il perché rimane per me un mistero, ma mi basta sapere che eravamo di quelli che si trovano di rado e quando li trovi, lì per lì, non ti rendi neppure conto di avere ricevuto un dono. Passammo così gli anni dell’Accademia e quelli successivi a Torino presso la Scuola di applicazione dove, in teoria, saremo dovuti diventare bravi ufficiali e comandanti di uomini. Compito difficile se si pensa che, a parte lo studio, il resto del tempo era impiegato a cercare una ragazza o una signora compiacente che ci consolassero dei due anni di clausura patita a Modena, dopo di che si andava a sparare di nascosto in qualche cava del canavese e altre scemenze simili.

Con Roberto il giorno che la Roma aveva perso la finale della coppa dei campioni contro il Liverpool, era il 1984, decidemmo su due piedi di prendere il super bandierone giallo rosso, salire in auto e fare un’incursione in piazza San Carlo dove nel frattempo s’erano radunati molti, direi anzi troppi, tifosi juventini per festeggiare la sconfitta dell’odiata Roma. Non gradirono l’incursione e ci corsero dietro per i lunghi viali torinesi. “Mannaggia a me che sono anche interista” pensavo mentre uno dopo l’altro passavo con il rosso i semafori di corso Vittorio. Finite le scuole militari fummo catapultati io a Bellinzago Novarese e lui a Maniago, 26° battaglione bersaglieri. Da lì la vita e il tempo ci separarono pian piano fino a farmi temere che ci fossimo davvero persi di vista. Questo fino a poco più di un anno fa quando preso il coraggio e chiamai. “Ciao Pa’, come stai?” Mi rincuorai. Era sempre Tomassini una erre e due esse di trent’anni prima. Era sempre il mio amico. Da qual giorno sono successe cose banali e abbiamo detto e fatto cose sceme da sessantenni in pensione, ma Roberto era di nuovo e da sempre il mio amico e questo, ogni volta che ci pensavo, mi scaldava il cuore, come a pensare a casa quando si è lontani in missione. Poi l’altro ieri il cuore del mio amico ha deciso che aveva battuto abbastanza. Aveva battuto per sua moglie, per le sue due figlie, per gli amici e anche per i nemici. E sono sicuro che avesse battuto anche per me. Ora, quasi alla Vigilia di Natale, quel cazzo di cuore di Roma-Talenti aveva deciso che aveva battuto abbastanza.

Questa mattina c’era un gran sole a Tarquinia e il mare era bello, giù, alla fine della pianura. Di fronte alla chiesa una bouganville era ancora fiorita. Me lo sono caricato su una spalla, il mio Amico, e l’ho portato fuori da quella chiesa, in mezzo al sole di un mattino d’inverno. Il mio di cuore ha deciso che poteva ancora battere e farmi scendere lacrime di abbandono.

P.S.

Ringrazio il cielo che a reggere questo peso fossero con me Matteo, Erminio, Pierluigi, Gualtiero, Vittorio, Aldo, Francesco, Daniele 1 e Daniele 2, Paolo, JB, Pietro e Ciccio…colleghi di corso e fratelli nel cuore.

GIUDICATE MA NON VERRETE GIUDICATI

Il leggero cigolio del carrello porta-documenti annunciava un pomeriggio noioso. Lungo i venti metri scarsi del corridoio si affacciavano l’ufficio matricola, la maggiorità, l’ufficio cassa, quello posta&viaggi e infine il mio; l’ultimo. Il carrello percorreva quei metri come fossero il miglio verde.

Era quello l’ufficio del comandante di reggimento. Appena fuori dalla porta una placca in ottone lucidissima ammoniva chiunque dal considerarlo un luogo come un altro. “In questo ufficio è custodita la Bandiera di Guerra dell’8°reggimento bersaglieri”. Per chi non fosse stato avvezzo alle tradizioni militari ciò significava che prima di parlare, salutare o anche solo sorridere ci si doveva rivolgere alla teca in cui era contenuta; mettersi sull’attenti e salutare quella reliquia laica dei sacrifici passati e del dovere presente. Il carrello porta-documenti smise di cigolare proprio fuori dalla porta. Un secondo dopo una mano bussò.

Comanda’ ci sarebbero da fare le note” disse il maresciallo con il tono di chi mostra un menù di pesce consigliandoti il branzino da 40 euro al chilo. “… e sarebbero urgenti!” Aggiunse prima di salutare la bandiera e tornarsene da dove era venuto. L’urgenza aveva definitivamente ammazzato il condizionale. Guardai il carrello parcheggiato a lato della scrivania. La pila infinita di cartelle color arancio sbiadito aveva già deciso quale sarebbe stato il mio pomeriggio con opzione sulla prima serata.

Se oltre a non sapere del dovere di saluto alla Bandiera non siete mai entrati in una caserma, vi sfuggirà anche il significato di “fare le note”. Premetto che la musica non c’entra niente e neppure una ipotetica lista delle cose da fare. Nell’italiano un po’ sgangherato dei soldati “note” era il termine usato al posto del più burocratico “scheda valutativa”.

In altre parole si trattava di giudicare i propri dipendenti e, per giunta, di farlo per iscritto. Frontespizio più sei pagine di voci analitiche dovevano bastare per descrivere un uomo con il quale avevi lavorato, pranzato a mensa, condiviso il freddo del Poligono “B” di Capo Teulada, fatto a metà con una Marlboro in crisi di erezione e anche, perché no, “schiaffato dentro”, per qualche cazzata che appena ricordavi. (schiaffar dentro non ha niente di brutalmente sessuale, ma si riferisce all’infliggere una sanzione disciplinare a un militare. Un sinonimo è “stai punito”. Il che per il soggetto non contempla l’assunzione di una particolare postura o atteggiamento ma solo di considerarsi oggetto di riprovazione. Più blando è “stai vergognato”. Insomma nell’esercito l’importante è stare!).

Già; fare le note era una sorta di giudizio universale cui ogni militare, volente o nolente, doveva sottoporsi per un sacco di motivi. Ad esempio perché doveva avanzare di grado, oppure era trasferito da qualche parte ed era bene che il nuovo comandante e tutto l’esercito sapessero quale cacumenale testa di cazzo stavano ricevendo o ancora perché era passato un anno dall’ultima volta che qualcuno lo aveva giudicato. Un anno. Un anno solo. Dopo aver diligentemente compilato tutte le voci si arrivava alla summa. Il giudizio finale.

Come lo giudico questo cristianuccio? ” Era questa la domanda finale che rimaneva appesa alla punta della penna una volta risalito il calvario di dei pagine di caselle. Le qualifiche, come ammoniva l’articolo 1026 del codice, dovevano essere scelte tra una di queste cinque: ECCELLENTE, SUPERIORE ALLA MEDIA, NELLA MEDIA, INFERIORE ALLA MEDIA, INSUFFICIENTE. Giudizi del tipo ECCELLENTE ma tendente alla pigrizia dopo pranzo non sono ammessi ed ecco che salta fuori la nostra anima cattolica.

Vivere in un Paese di tradizione cattolica ogni tanto mostra infatti imprevedibili conseguenze. Le note erano una di queste conseguenze. Come avresti giudicato Il tuo capitano, pieno di buona volontà e inesperienza? Che non riusciva a tenere in ordine neppure i propri calzini, ma che era amato dai suoi bersaglieri. Sarebbe stato ECCELLENTE? Come in un racconto di Dickens ecco allora apparire i fantasmi di Rommel, Annibale, Giulio Cesare, Giovanni dalle Bande Nere e persino di Nelson. Sembravano dirti “Ma che, davvero, davvero il capitano Mario Cipullo (nome di fantasia) è come noi?” Il paragone certo non reggeva e forse nel mondo anglosassone Cipullo avrebbe beccato un oggettivo NELLA MEDIA perché in fondo chi di noi non è un NELLA MEDIA?

Ma nell’esercito laico di una nazione di tradizione cattolica; nel paese del parlare a nuora perché suocera intenda, un NELLA MEDIA significava una cosa sola: INCAPACE. Il capitano Cipullo magari non avrebbe conquistato le Gallie, ma non meritava certo quel marchio d’infamia. Era stata gente come lui che in fondo ci aveva fatto vincere la Prima guerra mondiale. E poi, neppure io, al quale lo Stato chiedeva di giudicare, avevo mai conquistato le Gallie. Perché dunque infierire. Avrei scritto il mio ECCELLENTE e sarei passato al prossimo fascicolo che solo in caso di omicidio volontario aggravato dalla premeditazione e da motivi abietti sarebbe stato giudicato NELLA MEDIA.

Chi compilava e anche chi veniva compilato sapeva benissimo di questo rituale di compassionevole indulgenza, ma in fondo, a saper leggere bene tra le righe, si riusciva sempre a capire con chi si aveva a che fare, senza però insultarlo. Ti serviva un buon logista che però aveva il carisma di una torta Saint Honoré? Oppure ti occorreva una replica di John Wayne o una mente organizzativa superlativa che non nutrisse soverchie ambizioni? Nelle note li avresti trovati.

Tutti gli anni e per quarant’anni qualcuno mi ha giudicato e a sua volta è stato da me giudicato. Questo non fa certo di me una persona migliore o speciale, ma almeno non ho potuto sottrarmi al giudizio di quella parte di Stato che quotidianamente mi impiegava.

Dopo tutto darmi in mano un carro armato, qualche proiettile, un fucile o una bomba a mano esigeva una qualche contropartita in termini di affidabilità. Ricordo che prima di arruolarmi avevano preteso tre o quattro giorni di test psicologici e attitudinali per decretare che non fossi palesemente uno psicopatico. Li avevo passati presso la scuola di fanteria di Cesano di Roma. Era l’estate del 1980 e faceva un gran caldo. Ero stato giudicato IDONEO alla frequenza dell’Accademia militare il che non voleva necessariamente dire che fossi normale, ma almeno sufficientemente cretino da sopportarla.

Mi chiedo allora per quale motivo l’idea di sottoporre anche i magistrati a una valutazione da parte di loro colleghi e superiori generi tutto questo scandalo. Non sono forse anch’essi un pezzo dello Stato? Anzi un Potere? Non possono anche loro far danno ad altri cittadini? Non è possibile che l’agire di qualcuno tra loro possa essere dettato da qualche disturbo comportamentale o pulsione caratteriale mai accertata? In fondo per entrare nelle forze di polizia o nell’esercito devi dimostrare di non essere matto; idem se vuoi ottenere un porto d’armi per andare al poligono. Per la magistratura basta un concorso.

Scoprirsi Patriarca una mattina al bar.

considerazioni su una vicenda tragica che rischia il ridicolo

Il grande frigo dei gelati se ne stava in fondo al bar. Vuoto. Sebbene recalcitrante, l’autunno 2023 sembrava ormai essersi persuaso ad iniziare le consuete umide noie preannunciandole con una pioggerellina insignificante che a Roma chiamano “gnagnarella”.

Sul vetro del frigo un tempo trasparente e ora opaco di impronte e gocce di caffè stavano spiegazzati tre quotidiani: il Corriere dello Sport che parlava di Sinner, il Corriere di Viterbo che beatificava Jonny Deep avvistato al quartiere di San Pellegrino e il Corriere della Sera che raccontava del 103° femminicidio dall’inizio dell’anno. Non capendo nulla di tennis e felice che addirittura Martin Scorzese fosse stato ammaliato della fossile bellezza del nero tufo di Viterbo ho ripiegato sul giornalone. Di Giulia Cecchettin sapevo ormai tutto, anzi troppo. Che era neolaureata in ingegneria biomedica a Padova; che era si era lasciata con il suo ragazzo, tale Filippo, ma che erano rimasti amici; che poi quel bravo ragazzo del quale era rimasta amica l’aveva picchiata, rapita, accoltellata e infine buttata via dalle parti del lago di Barcis.

Di altri particolari non avevo bisogno; così, passando sopra al moto di leggero disgusto che sempre mi provocano notizie come queste, ho cercato qualche cosa di diverso. E l’ho trovato. Era la lettera aperta di Elena, la sorella di Giulia. Morta.

Inizio a leggere, tanto il caffè troppo caldo non mi è mai piaciuto. « I mostri sono i figli sani del patriarcato, della cultura dello stupro» vado avanti e trovo «…nessun uomo è buono se non fa nulla per smantellare la società che li privilegia tanto » proseguo fino a quando leggo che il femminicidio è un omicidio di stato.

A quel punto non trattengo un sorriso di nostalgia. Sono nato agli inizi degli anni ’60 quando circolavano quasi solo FIAT 500 e qualche 600 Special. La Fiat 1100 e la Lancia Fulvia erano macchine per signori e i signori erano il medico, l’avvocato e il padrone del calzaturificio sull’Adriatica. Al notaio spettava la Giulia 1300, come alla polizia. Negli anni successivi sarebbe saltata in aria la Banca Nazionale dell’Agricoltura in piazza Fontana a Milano (17 morti e 88 feriti), poi piazza della Loggia a Brescia (8 morti e 102 feriti) e poi ancora tante altre. Per molti di quei morti si parlava allora di omicidio di stato. Leggere oggi lo stesso termine mi aveva indotto un po’ di nostalgia per un tempo in cui credevamo di avere idee e valori per cui valesse la pena combattere. Ci avrebbero pensato Berlusconi, le sculettanti tettone di Drive In e lo smartphone a farci capire che ci sbagliavamo di grosso e che l’unico valore da difendere era quello del conto in banca. Alle idee, ammesso che davvero ce ne servisse una, ci avrebbe pensato un influencer tatuato come un baleniere della ciurma del Capitano Achab.

Quanta fatica sprecata a litigare fino alla faringite con Barbara, capa del collettivo femminista o a discutere se si potesse davvero stare né con lo Stato, né con le Brigate Rosse. Dilemma lacerante per me, figlio di poliziotto al quale lo Stato pagava lo stipendio che mi permetteva di frequentare un liceo dove si discuteva della legittimità di sparargli addosso. “se vedi un punto nero, spara a vista. O è un Carabiniere o è un Fascista” gridavano in tanti dai cortei rischiarati dal Sol dell’Avvenire. Per fortuna papà vestiva di blu con i pantaloni a sbuffo color carta zucchero con doppia banda cremisi della Polstrada. Non si poteva scambiarlo con un carabiniere e credo neppure con un fascista.

Adesso Elena, sorella di Giulia, la Morta, ritirava fuori l’omicidio di stato per quello che aveva fatto l’ex ragazzo della sorella. Non mi riusciva di definirlo uomo e non perché il crimine commesso fosse stato così esecrabile da non poter definire ancora uomo colui che lo aveva commesso. No, per carità. Si era già visto di peggio. Non potevo chiamarlo uomo perché a parte qualche rara eccezione si è fatto di tutto per non diventare uomini, così come per non diventare donne. Ma se non si diventa uomini e donne, non si può certo diventare mariti e mogli e quindi neppure padri e madri. Figurarsi nonno e nonna. Dai tempi degli omicidi di stato, quelli veri, si è pian piano preferito virare verso una finta e leopardata giovinezza, mimetizzata dal botox, ristretta dalle liposuzioni o dalla virilità al cialis. Ragazzi per sempre, uomini mai.

Poi capita che ogni tanto uno di questi ragazzi condannati a essere forever young sbrocca e ammazza oppure si ammazza e giù tutti a piangere mentre lo Stato, come sbertucciava De Andrè, si costerna, s’indigna, s’impegna poi getta la spugna con gran dignità. A me hanno insegnato che un omicidio è un omicidio con buona pace se la vittima è uomo, donna, vecchio, giovane, ricco o povero. E invece adesso accanto all’omicidio, reato odioso persino a Dio che insegue Caino chiedendogli dove fosse suo fratello Abele, c’è il femminicidio. Da sostantivo s’è passati all’aggettivo. Mi aspetto il brutticidio, il ricchicidio, lo scemocidio mentre per parricidio e infanticidio mi sembra che siamo già a buon punto. Ecco allora che si deve intervenire per fermare i femminicidi mentre per gli altri delitti di sangue fate un po’ come vi pare. Prendete a sprangate in testa un vecchio, investite un impiegato sulle strisce, buttate pure dalla finestra un neonato a condizione che siano tutti maschi.

Guardo la foto di quel disgraziato che ha ammazzato Giulia. E’ giovane e mi viene in mente che in fondo la gioventù, se ricordo la mia, è un’età di merda. A parte il fatto che non ti duole praticamente nulla, che puoi mangiare un vitello e poi andare a giocare a pallone, che se dormi due ore poi sei fresco come una rosa…a parte quello che la natura ha previsto che tu sia, il resto non è un gran che. Vorresti fare cose da grandi, ma le cose da grandi non sai quali sono; non hai soldi e hai un sacco di tempo per pensare al fatto che non hai soldi. Immagini, speri, ipotizzi sul domani e intanto oggi dormi fino alle undici. E poi ti innamori. A quell’età disgraziata l’amore è come il Covid; si racconta di casi letali ma nessuno cerca di salvarsi, anzi. Ci si ammala felici, si soffre felici e si ride felici e quando l’amore finisce si soffre e basta. Penso sia il sistema che la natura ha escogitato per farci sentire che in fondo in fondo abbiamo un’anima. Poi questa età disgraziata finisce e si diventa adulti, più che altro trovi un lavoro, ti danno uno stipendio e forse ti concedono un mutuo.

Il feroce assassino di Giulia, la Morta, non arriverà a questa fase. Rimarrà in galera come è giusto e sacrocanto che sia. Ma qui arriva l’accusa che Elena, la sorella di Giulia la Morta fa a tutti noi uomini, anzi, a noi maschi. È colpa vostra se l’ex-ragazzo di mia sorella l’ha uccisa. Siete voi che avete creato una società maschilista, patriarcale, sessista e misogina che non ha insegnato al ragazzo di mia sorella, lo stesso che io conoscevo benissimo, che veniva a casa quasi tutti i pomeriggi, quello con cui andavo in discoteca…si, quello là, proprio lui, non gli avete insegnato a rispettare mia sorella.

Distolgo lo sguardo dal giornale, mi giro e incontro gli occhi di Pino, il barista, marito e padre di due figli. Chissà se lo sa di essere complice di un assassino. Non glielo chiedo. E visto che non posso chiederlo a lui e neppure a Nando, contadino che si lavora un poderetto lungo la strada degli orti che porta a Ronciglione, Nando che nel frattempo è entrato maledicendo il tempo e i reumatismi, allora lo chiedo a me. Ti senti un complice per omissione di un assassino? Sei parte di una società patriarcale neppure fossimo a Papua Nuova Guinea o in un clan scozzese ai tempi di Guglielmo il plantageneto? No. Non mi sento colpevole e neppure responsabile e non mi piace che si spinga per farmici sentire. Io mi ritengo un uomo, uno come tanti, con scelte di cui andar fiero e molte altre di cui dispiacermi, ma sono responsabile di quel che faccio e dico, non di quel che dice o fa qualcun altro.

Non sono perciò responsabile del dolore che oggi Elena, la sorella di Giulia, la Morta è costretta a sopportare. Non sono responsabile delle decisioni del suo ex-ragazzo. Lei e lui e le loro disgraziate famiglie non possono scappare da questo peso, non c’è strada, non c’è aiuto; non c’è comprensione. Disgraziato vuol dire colui che non ha più grazia, che non ha equilibrio e forza.

Arriverà il momento in cui anche il loro dolore ritroverà la sua grazia, cioè la sua forza perché il dolore, come la gioia, è una pietra che ciascuno è chiamato a portare da solo. Con grazia.