Madonnina sulla strada provinciale 502 (foto p.Capitini)
In ginocchio, il capo leggermente reclinato da un lato, le braccia aperte. Così mi era apparso al km 25 della provinciale 502 per San Severino Marche, appena dietro una curva. Il paese era qualche chilometro più a valle e il prossimo ancora più lontano e in un’altra valle. Lassù non ci si capitava per caso.
Io, ad esempio avevo scelto quella strada in salita in mezzo ai boschi di querciolo e acero per togliermi di dosso l’odore dell’ospedale. Avete mai fatto caso che i luoghi di sofferenza come ospedali, prigioni e talvolta scuole hanno un loro odore? Quelli dove abbiamo trovato la gioia invece rubano i profumi da fuori. Può essere la fioritura dei tigli, il fumo di legna, i gelsomini o quello di una bella donna, troppo bella anche per sorridergli.
La provinciale 502 per San Severino è un luogo profumato di foglie e acqua e chissà se quell’uomo li aveva avvertiti. Dai vestiti sembrava uno che, come me, aveva deciso di salire di corsa verso il passo.
(foto p.Capitini)
Da Cingoli la provinciale sale leggera ma costante; forse non abbastanza leggera per lui che se ne stava fermo davanti a una piccola edicola dipinta di fresco. Mentre lo superavo l’avevo osservato con attenzione. Mi aveva sorpresso che se ne stesse in ginocchio, il capo leggermente reclinato da un lato, le braccia aperte.
Non stava male.
Pregava.
(foto p.Capitini)
L’immagine di quell’uomo in ginocchio che parlava a sé stesso attraverso dio mi ha accompagnato nel resto del percorso. Ho spento la radio che mi accompagna sempre e nelle mie corse solitarie prendendo ad ascoltare il rumore dei miei passi. Il profumo balsamico del bosco d’autunno addolciva il respiro affannato da quasi sessantenne sovrappeso; i piedi risparmiavano pozzanghere ancora limpide; ovunque, attorno a me, foglie indecise tra il giallo e il rosso, tra la vita e la neve.
Ripassando davanti alla madonnina il mio pellegrino se n’era ormai andato, ma l’ho ringraziato per avermi ricordato di sorridere grato a tutto questo.
Come semi spinti dal vento, a lungo l’avevano cercato tra quelle montagne e infine l’avevano trovato. Il posto perfetto, quello dove appoggiarsi senza più dover ripartire; dove finalmente divenire terra.
Da ovunque la si guardasse quella anomalia rocciosa, aspra e scostante, saltava all’occhio per quanto appariva estranea al morbido verde delle colline circostanti. Non c’era alcun dubbio, quell’orfano sperone di roccia grigia e glabra sarebbe stata la loro casa. Era accaduto forse 1000 anni fa o forse di più, ai tempi delle fate e dei cavalieri.
Elcito – fraz. di San Severino Marche (MC) (foto p.Capitini)
Uomini e donne di cui neppure il vento o una stupida zolla di terra grassa ricorda oggi il nome o il passo si erano fermati lassù, a qualche miglio dalla prima strada poverosa. L’Appennino avrebbe custodito il loro piccolo mondo. Per sempre.
Dalle finestre anguste delle piccole case di pietra i re stranieri e i loro eserciti, i vescovi ingioiellati e i borghesi dai ventri gonfi di ricchezza sembravano lontanissimi. Solo i boschi, immensi custodi di streghe e di prodigi, erano infatti riusciti a risalire la spalla della montagna che ogni inverno avrebbe trasformato in un’isola di venti gelidi e di lupi.
Elcito – fraz. di San Severino Marche (MC) (foto p.Capitini)
Mille anni fa erano stati proprio gli immensi boschi di lecci a dargli un nome: ELCITO. Un nome dolce, senza ambizioni, dal sapore spagnoleggiante. Per sette secoli, pietre, monaci e montanari erano rimasti lassù, lavorando la terra e confidando nella preghiera.
Guardando a valle si scorgeva il tetto dell’abazia. Era lì da molto tempo prima del loro arrivo, forse dal tempo di San Romualdo. Ci vivevano i monaci neri, come la gente chiamava chi seguiva la regola di Benedetto e le loro preghiere latine, il continuo salterio delle ore per secoli avevano tenuto lontano il diavolo da quei posti. “Chissà” – avranno pensato i nuovi arrivati – “ magari, in cambio di un fagiano, di un orcio di vino o della legna di roverella, avrebbero pregato il Signore anche per noi e per i campi e le bestie“.
Elcito – fraz. di San Severino Marche (MC) (foto p.Capitini)
Poi qualcuno a valle aveva deciso di chiudere la scuola, segno che quel posto non avrebbe più avuto un futuro. Prima ancora avevano aperto le fabbriche di scarpe laggiù, verso il mare, e il cementificio, i cantieri. Per le stradine di ELCITO fatte per gli uomini e i muli non passavano le 600 color celestino comprate a rate e neppure l’Ape. Così pian piano, dopo secoli, uno dopo l’altro i montanari avevano iniziato a scendere a valle dove i re stranieri erano scomparsi e le ragazze avevano le gonne corte.
Era il 1972 quando a Elcito avevano chiuso la scuola. A Washington in quei giorni qualcuno entrava negli uffici del Watergate, nelle cinema era appena uscito “il padrino“ e a Milano avevano sparato al commissario Calabresi, ma a Elcito la notizia era che avevano chiuso la scuola elementare. Trent’anni dopo, nel 2003, erano rimasti solo in sei a vivere in faccia al San Vicino. L’artrite, il diabete e la neve avevano avverato l’antica profezia di “mille e non più mille”.
Elcito – fraz. di San Severino Marche (MC) – sullo sfondo il Monte San Vicino (foto p.Capitini)
Infine tra i vicoli stretti, incisi nella roccia erano rimasti solo il vento e il silenzio della montagna. Oggi una nuova magia ha riportato in vita Elcito; un villaggio salvato da un destino di edera e terremoti dalla nuova voglia di natura e di insolito che ha preso il popolo degli smartphones e dei selfie. Elcito si è trasformato in un “albergo diffuso“, un luogo di ospitalità per meravigliati passeggiatori della montagna e per famiglie che guardando a valle sospirano:“...senti che pace quassù“. Anche il lupo è tornato.
Io ci sono capitato oggi, 17 aprile 2019; unico visitatore.
Se vi capiterà di percorrere la statale 77 della val di Chienti, quella che da Foligno porta verso l’Adriatico passando per l’altopiano di Colfiorito, quando sarete all’altezza di San Severino Marche prendete la provinciale e fateci una visita. E’ un luogo generoso. Andateci. Vi regalerà di sicuro qualcosa. Fosse anche un semplice fiore che il vento bacia senza cogliere.
Ci voleva Serghej Markov, direttore dell’Istituto di ricerche politiche di Mosca e uomo di fiducia di Vladimir Putin dal 2011 al 2018 per farmi svegliare oggi, 2 giugno, contento d’essere cittadino italiano.
(foto di mia zia)
Lo so che oggi è la festa della Repubblica, per questo ho scritto “cittadino” e non semplicemente “italiano”, ma fatemi ritornare per un momento a Markov che ieri ho incontrato a “Controcorrente”, su Rete 4.
Già, ecco un’altra delle bizzarre coincidenze che possono capitare in questo paese dove se scrivi su un social, qualcuno lo legge, ti telefona, vuole saperne di più e alla fine ti invita a dirlo in TV. A dire il vero anche nel paese di Markov se scrivi sui social qualcuno ti legge, ma poi arriva la polizia. E sempre parlando con Markov che si rivolgeva ai bombardati di Mariupol come “…i nostri fratelli ucraini”, riflettevo che anche noi abbiamo fratelli italiani sparsi un po’ in tutto il mondo, ma non ci viene in mente di sostenerli e proteggerli prendendoli a cannonate. Abbiamo pensato di concedergli il voto – sarà una sciocchezza? Forse si, o forse no, ma alle cannonate abbiamo preferito il voto.
Markov può obiettarmi che loro, i russi, come ministro degli esteri hanno quel volpone di Sergej Lavrov e noi Giggino Di Maio da Avellino, ma almeno noi a Giggino l’abbiamo votato. Certo, direte voi, abbiamo anche votato Matteo Salvini che novello San Francesco voleva partire per Mosca e redimere il Sultano; il cavaliere non più cavaliere Silvio da Arcore che pur possedendo un sacco di TV invece di guardarsi Bonolis preferiva passare il tempo toccando il culo alle diciottenni, Toninelli per il quale basta la parola per evocare soperchio sgomento e via così.
Comprensorio delle grotte di Frasassi (Ancona) Tempietto del Valladier (foto p.Capitini)
E’ ormai un dato scientificamente acquisito che l’Italia può vantare la classe politica più scarsa dell’intero sistema solare, Urano incluso, ma almeno l’abbiamo votata noi, con le nostre manine sante. Non dimentichiamoci poi che la nostra costituzione parla di una Repubblica democratica fondata sul lavoro, mica sull’intelligenza politica e il buon senso.
A ben guardare anche di lavoro ce n’è pochino, mal pagato e precario, ma almeno nessuno può dirti: “…il lavoro non te lo do perché sei nero, meridionale o ebreo ortodosso…”. Non vale, è ovvio, per le nostre giovani donne che aspettando un bimbo si sentono rispondere che il lavoro per loro non c’è in quanto incinte, ma questi sono particolari di poco conto che si superano facilmente non facendo più figli.
Abbiamo anche una scuola pubblica, almeno finché reggeranno i controsoffitti in cartongesso, ma dove ogni insegnante è libero di insegnare a modo suo. Gli si chiede solo di seguire il programma dell’immancabile ministero e di non far propaganda filo nazista o per il Ku Klux Klan.
Abbiamo un esercito (e anche una Marina e un’Aeronautica) che giura sulla Bandiera “…di essere fedele alla Repubblica, di osservarne la costituzione e le leggi e di adempiere con disciplina e onore ai propri doveri...”. Mica patti di sangue con il primo fuhrer che passa e nemmeno con il governo, ma con la repubblica tutta quanta.
Gatto italiano in posa italiana il giorno della festa della Repubblica (foto p.Capitini)
Abbiamo una giustizia. Si lo so che a questo punto avete avuto un sobbalzo. Ebbene si; anche noi abbiamo una giustizia. Lo so che ci vuole un’era geologica per concludere un processo e che giusto ieri un uomo di Neanderthal ha vinto la causa contro un allevatore di mammuth che gli aveva occupato la caverna. Lo so che abbiamo la Mafia (per rispetto dell’onorata società la scrivo in maiuscolo), la camorra e la NDRANGHETA (questa va tutta maiuscola) che talvolta hanno arruolato giudici e quando non sono riusciti ad arruolarli li hanno fatti saltare in aria, però abbiamo ancora il diritto a un pubblico processo, a una difesa a nostra scelta, a essere giudicati in base alla legge e non in base a “…quello mi sta sulle palle, mandiamolo in Siberia o avveleniamolo con il polonio”. Per fortuna da noi se ti vogliono ammazzare ti sparano e non vanno cercando sostanze così rare che neppure Mendeleev con la sua tavola degli elementi sapeva esistessero.
Abbiamo anche una sanità (lo so, altro sobbalzo. Tranquilli c’abbiamo anche la sanità) che malgrado il lugubre ministro Speranza e i suoi predecessori a cui andrebbe assegnato il premio Attila per i servigi resi nel cercare di mandarci tutti al Creatore; malgrado tutto ciò abbiamo una sanità che non ti chiede se hai la carta di credito o l’assicurazione sulla vita ma solo: “…dove le fa male?” Certo siamo anche il paese dove un primario di ospedale pubblico guadagna la metà di un medico di base che ti visita per telefono manco fosse la cartomante Eloisa che ti libera dal malocchio, però sono gli stessi ospedali dove gran parte di noi ha trovato competenza, gentilezza e volontà di farti guarire (parlo per esperienza personale).
Abbiamo anche un sacco di altre cose come il caffè, i tortellini, il morellino di Scansano, un terzo delle opere d’arte dell’intero pianeta, un paesaggio che l’ONU ha dichiarato “patrimonio dell’umanità”, la cassata siciliana e il tramonto a Capri e molto altro. Tutte cose che non fanno parte della Repubblica ma senza le quali saremo forse cittadini ma di certo non italiani. Per cui, gente! Festeggiamo la nostra repubblica che ci poteva andare molto peggio.
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