DAVID NIVEN

(foto p.Capitini)

Eccomi qui. Alle 9,20 del mattino, piantato al distributore ENI di Monterosi.

La Cassia, da qualche centinaia di metri non più “Bis”, ingoia il raro traffico del sabato mattina verso Viterbo. Nel mio giaccone color sabbia sembro il maggiore Richardson de “I due nemici”, ma di David Niven non ho né il fisico, né tantomeno la classe. Anche la mia moto, una Royal Enfield Classic 500 color verde militare, sembra quella di David Niven, solo che quel pezzo di ferro la classe ce l’ha.

Prendo un caffè ed intanto aspetto, buttando un occhio in direzione di Roma. Certo, lo so che l’appuntamento è per le 10, so che sono le 9,20 e so anche che il concetto di puntualità a sud del Po è una variabile indipendente, ma non ci posso far nulla, continuo a guardare verso sud vestito come David Niven. Alle 10 e due minuti, con la puntualità di un capostazione svizzero, la vedo arrivare. No. Non è una bella donna e neppure una parente ma un fila lunga di Royal Enfield diretta a nord. Si fermano sul piazzale con un rombo da bombardiere della RAF. Ce ne sono di tutti i tipi e colori, con accessori svariati e soluzioni meccaniche per lo meno discutibili, ma quelle moto e chi ci sta sopra condividono un’idea. Quella di un mezzo fatto per godersi la strada, i posti che si attraversano, le persone che si incontreranno. Una moto per uomini e donne che non fanno a gara né con sé stessi, né con altri.

(foto p.Capitini)

Alla fine si parte, destinazione Siena, la mia città di nascita. Per fortuna nessuno ha avuto da ridire sulla mia giacca alla David Niven.

Non vi annoierò con la cronaca di quei chilometri, ma ora che scrivo mi torna in mente il bianco polveroso delle colline della Val d’Orcia. Arse da un’estate cocente, presto la pioggia le trasformerà in fango e l’attesa in grano nuovo. Rivedo torri e borghi e tutto è avvolto dallo scoppiettare ritmato delle marmitte. Per chilometri seguo una schiena e una ruota. Solo la sera, a cena, scoprirò che bella umanità custodivano quei caschi. Operai, conducenti di bus, avvocati, maestri, assicuratrici, meccanici e perché no persino un bersagliere in pensione. Di uno vorrei però parlarvi; per chilometri è stato solo una “interceptor” 650 color panna e cromo, ma alla sera la “interceptor” è divenuto Simone, un uomo che ci racconta di come stia da tempo lavorando per una fondazione per la ricerca sui tumori celebrali dei bambini. Hanno bisogno di fondi e si capisce che quella paura fredda l’ha sfiorato da vicino. Nessuno chiede quanto da vicino. Metteremo all’asta una moto offerta da Union Jack Roma – il club al quale mi onoro di appartenere – e il ricavato andrà alla fondazione.

Di questa bella giornata di moto e di amicizia vorrei ricordare l’eleganza demodé delle nostre Royal Enfield e il nome di questa fondazione. Si chiama HEAL. Ricordatevelo e diamo una mano.

SCATOLONE.

(foto p.Capitini)

Quello glielo regalo!” – Mi fulminò la ragazza.

Ero alla fine di uno dei miei consueti giri per rigattieri, quando l’avevo intravisto sul fondo di uno scatolone sformato dall’umidità. Abbandonato senza coerenza tra una pila di piatti e una macchina per gelati, odorava di trasloco. O di funerale. Se ne stava là dentro, nascosto tra la copertina di una “Divina Commedia – Inferno” e un “Russia”, di Enzo Biagi. Edizione ’76.

La ragazza pensò non l’avessi sentita. -“Glielo regalo” – ripeté con un sorriso.

Così guardai il volume che tenevo in mano: “Mare Crudele”, di Nicholas Monsarrat, edizioni Bompiani, 1955, millecinquecento lire. Un sacco di soldi nel ‘55 per 438 pagine oggi vecchie, malandate e, per giunta, battezzate con un titolo impossibile. Le sorrisi di rimando, ma al posto di un atteso “grazie” uscì un improvviso “perché?

-“Perché non vale niente. E’ solo carta vecchia”-. mi rispose sorpresa. Non avevo idea di cosa avesse scritto Nicholas Monsarrat in quel “Mare crudele”. M’era parsa una storia di guerra; roba di convogli e sommergibili, di siluri e naufragi nell’Atlantico, ma non era questo il punto. Quel che contava era che avrei trovato una storia. Lì dentro c’erano parole scelte una per una per raccontare quel che lui aveva visto o anche solo immaginato. Erano le sue parole. Sue e di nessun altro.

Ogni pagina di un libro è ancora e per sempre il vecchio accanto al fuoco nelle notti d’inverno; il pellegrino dalla lingua sconosciuta e dai capelli color oro; è il pastore; il figlio tornato dalla guerra, è l’innamorata. E’ colui al quale chiediamo: ”RACCONTA!”

La ragazza non mi aveva regalato carta vecchia, ma una di quelle voci non rassegnate a perdersi nel vento. La guardai ancora, le sorrisi e le dissi “Grazie”.

L’UNDICESIMA ORA

Novembre 1918 – soldati britanicci (foto web)

Foglio 13, paragrafo XXXIV… “La durata dell’armistizio è fissata in 36 giorni con facoltà di essere prolungato…”.

Gli occhi del dattilografo scorrono le ultime righe. Non ci devono essere errori, neppure un minimo errore.

“… Il presente armistizio è stato firmato l’11 novembre 1918 alle ore…”. Alza gli occhi verso orologio e completa a penna “…5 (cinque) ora francese”. Perfetto. Nessun errore. Si può mettere in firma.

Sul fronte occidentale il cessate il fuoco entrerà dunque in vigore

quel giorno stesso: all’undicesima ora dell’undicesimo giorno dell’undicesimo mese dell’anno. Fuori fa freddo. E’ l’inizio dell’inverno, il quarto di guerra; 1560 giorni senza sapere se quello sarà l’ultimo tuo respiro.

Sulla foresta di Compiegne, a qualche chilometro dalla stazioncina di Rethondes, i primi raggi di un sole gelido filtrano dai vetri della vettura numero 2419 D. Un tempo era un vagone ristorante della Compagnia Internazionale dei Vagoni Letto ma da quattro anni è stata trasformata nell’ufficio viaggiante del comandante supremo alleato, il maresciallo di Francia Ferdinand Foch.

La delegazione tedesca ha firmato senza parlare. I quattro plenipotenziari scendono dalla 2419D dirigendosi in silenzio verso l’altro treno che la riporterà…non sanno neppure loro dove. A Berlino nessuno risponde al telefono. Per quel che ne sanno, la Germania potrebbe non esistere più. Non c’è più motivo per combattere. Non c’è più motivo per morire.

Poppy – il papavero. Nei paesi del Commonwealth ricorda i caduti della Grande Guerra (foto p.Capitini)

Anche sulle Ardenne fa un gran freddo ma Augustin ride. Ride e vorrebbe saltare, urlare, ballare. Dal comando di battaglione hanno comunicato che la guerra è finita e lui sta correndo in linea per avvertire che alle 11,30 ci sarà minestra calda per tutti. E vino. Vino per tutti. Augustin attraversa le case distrutte di Vrigne sur Meuse, passa la ferrovia che collega Sedan a Charleville o quel che ne resta. Guarda l’orologio, manca meno di mezz’ora alla fine della guerra e ride. Non lo sente neppure arrivare. Un proiettile Spitzer calibro 7.92 lo prende in piena fronte.

George Lawrence ha 26 anni e non è mai stato in Europa, a dire il vero non è mai stato da nessuna parte e del Belgio conosce solo il canale di fronte a lui e un ponticello semi diroccato. Per lui Mons è macerie, terra smossa e odore di morti. Niente a che vedere con l’aria pulita e odorosa di alberi del Canada. Prima di quella pazzia collettiva faceva il contadino in Nuova Scozia e adesso è soldato semplice nel 28° battaglione fanteria canadese, matricola 256295. Non una grande carriera. L’hanno mandato di pattuglia verso il canale, in rue de Mons…hanno detto che la guerra è finita, ma è meglio stare attenti.

Neppure lui sente arrivare il suo proiettile.

Augustin Trébuchon; George Lawrence Price; Henry Gunther dagli Stati Uniti: George Edwin Ellison del 5° Royal Irish Lancers e altri 2738 uomini moriranno nell’ultimo giorno di guerra senza vedere l’undicesima ora, dell’undicesimo giorno,dell’undicesimo mese.

Per tutti gli altri la guerra è finita.

Oggi, 11 novembre 1918.