25 Aprile

25 aprile 1945.
A CHI ce l’ha con i partigiani che hanno ammazzato donne e uomini innocenti.
A CHI rimpiange il fascismo quando i treni arrivavano in orario ed eravamo rispettati e temuti nel mondo.
A CHI non trova niente da festeggiare perché siamo stati occupati dagli americani e dagli inglesi.
A CHI è convinto che comunisti e fascisti tanto sono la stessa cosa; anzi, peggio i comunisti che hanno ammazzato più gente.
A CHI pensa che il nazismo è una cosa e il fascismo è tutt’altra cosa.
A CHI è sicuro che Mussolini è stato costretto ad allearsi con Hitler se no ci ammazzavano tutti;A CHI l’Associazione Partigiani sta sulle palle;
A CHI l’Associazione Partigiani gli farebbe un monumento;
A CHI pensa che sono passati 77 anni ed è tempo di finirla con tutte ‘ste cazzate sulla resistenza;
A CHI pensa che tanto c’è la globalizzazione…
A tutti voi io chiedo: Ma davvero avreste voluto vivere con le SS per le strade, i campi di sterminio, le leggi raziali, senza un parlamento, con la censura e la polizia politica, con uno che ha sempre ragione e tutti gli altri non capiscono un c…?
Io, per quel poco che conta, rispondo di NO.
Mi tengo la mia sgangherata, corrotta, inefficiente, ingiusta Repubblica.
Perché?
Perché posso ancora scrivere cose come questa e andare a dormire senza paura.

Moni Ovadia

L’avevo incrociato tanto tempo fa in una delle trasmissioni che la RAI manda in onda per le guardie giurate e i malati di insonnia. Forse a quel tempo aveva meno dei settantacinque anni di oggi, ma allo stesso modo mi era rimasto impresso il suo modo appassionato di raccontare le cose. Parlava con una voce un filo rauca, in apparenza rabbiosa. L’accento lievemente milanese- così efficiente e moderno – strideva con la barba curata e i lunghi capelli bianchi da mistico russo. Lo zuccotto di tricot dava poi al tutto un’aria da irriducibile figlio dei fiori. Quella volta aveva recitato un breve passo di Ugo di San Vittore, a me sconosciutissimo religioso dell’anno 1000. Parlava della capacità di stare al mondo e, soprattutto della leggerezza e dell’attenzione con cui un uomo saggio dovrebbe vivere il suo passaggio.Ieri sera, finita la trasmissione, mi sento chiamare. Mi giro e in mezzo al corridoio c’era lui; la stessa barba, gli stessi capelli e spero un diverso zuccotto di tricot. “Buonasera” – mi dice – “parliamo un po’ io e lei”. E per qualche minuto parliamo e parliamo, discutiamo e concordiamo. Poi gli racconto della sera che l’avevo visto alla TV per nottambuli e di quelle parole di oltre 1000 anni fa. “Si ricorda ancora?” Mi chiede sorpreso. “Si, mi ricordo bene come si ricorda un consiglio prezioso”. Mi sorride, prende un respiro, chiude un attimo gli occhi come cercasse quelle parole in un qualche cassetto nella memoria e poi Moni Ovadia le recita per me, pubblico di una sola persona. “L’uomo che trova dolce la sua patria non è che un tenero principiante; colui per il quale ogni terra è come la propria è già un uomo forte; ma solo è perfetto colui che si sente straniero in ogni luogo”.

AUSCHWITZ NON CHIUDE MAI.

Wiezniow Oswiecimia nr 20 è uno degli indirizzi del Male.

Ci puoi passare davanti ogni giorno, o vivere per anni dall’altro lato della strada e far finta di non vederlo. Sono tanti gli indirizzi del Male: alcuni abbandonati, altri dimenticati, molti ancora in piena attività. Questo lo trovi a 78 chilometri ad ovest di Cracovia, in fondo ad un viale alberato; subito dopo un ristorante che fa pizza a mezzogiorno.

Si può parcheggiare l’auto e camminare per poche centinaia di metri seguendo un marciapiede sconnesso, a ridosso d’una cancellata bianca un po’ scrostata. Al civico nr 20 trovi l’ingresso del Vernichtlunglager.

Campo di Auschwitz 1 (Polonia) – cancello d’ingresso (foto p.Capitini)

E’ mattina presto quando mi presento all’entrata. Mancano pochi giorni a Natale, fa molto freddo e l’aria gelida trattiene l’odore acre del carbone in un sentore da vecchia stazione. Da tempo volevo visitare Auschwitz e stavolta, terminata l’esercitazione al NATO Training Center, ne avevo l’opportunità. Mi ero mentalmente preparato all’emozione che di certo avrei provato nel passare sotto la scritta “Il lavoro rende liberi”, quella che trovi sui libri e che tutti conoscono e riconoscono. Invece no. L’impressione è forte ma l’emozione non c’è. Quel luogo, così ordinato e ben tenuto, mi appare familiare come per me lo sono tutte le caserme. Il KL 1 del complesso concentrazionario Auschwitz-Birkenau presenta con precisione museale come e dove sono state inflitte la morte ed orribili sofferenze a migliaia di persone, ma mentre mi addentro nella fabbrica dell’inumano, le pietre ed i reticolati non mi parlano. Le forche ed i crematori tacciono. Sarà forse perché, a differenza degli uomini, i luoghi non hanno memoria.

Campo di sterminio di Auschwitz- Birkenau – i binari della selezione (foto p.Capitini)

Può quindi essere accaduto che piano piano, anno dopo anno, nel Vernichtlunglager nr 1 le emozioni si siano trasformate in racconto e poi ancora in altro. Sopraffatti prima dalla crudeltà di quei giorni e poi da quella degli anni, i rari testimoni si sono perduti ed il loro racconto si è trasformato; diluito nell’interpretazione; semplificato dalla ripetizione e infine quasi cancellato dal tempo. Alla fine quel che qui sopravvive è la liturgia. Un rito laico che ha per protagonisti Nazisti contro Ebrei, carnefici contro vittime, colpevoli contro innocenti e che parla per grandi numeri, per categorie: un milione i morti, forse un milione e mezzo; meno di diecimila i sopravvissuti; migliaia i convogli; centinaia le uccisioni ogni giorno. Non amo i numeri e non amo le liturgie e continuo ad addentrarmi nel labirinto ancora muto. Entro nei blocchi dove lungo i corridoi, dalle pareti, centinaia di ritratti mi osservano. Hanno volti quasi identici: identica la magrezza; identica la rasatura del cranio ed il pigiama a righe.

(foto p.Capitini)

Simili gli occhi sgranati. Tutti avevano avuto un nome. La prova che anche in questo luogo di non-vita, si era esistiti. Alcuni l’avevano mantenuto ma per altri: ebrei, zingari, malati mentali, prigionieri di guerra russi e via, nessuno degli impiegati della fabbrica s’era presa la briga di registrarne il nome. Erano scomparsi nelle camere a gas e poi nei crematori come se non fossero mai esistiti. I più fortunati ora mi guardano dai muri. A bassa voce, nel mio accento italiano, pronuncio alcuni tra le migliaia e migliaia di nomi che sono evaporati e questo finalmente mi emoziona e mi rende partecipe di una parte infinitesima del loro sorpreso dolore. E’ vero che i luoghi non ricordano. Sono le persone che ricordano e quando smetteremo di ricordare saremo allora pronti per far rivivere di nuovo luoghi simili. Ancora non lo sappiamo e certo non lo vogliamo, ma c’è una seria possibilità che da qualche parte si stia già cercando un altro indirizzo per l’Aushwitz prossimo venturo.