ROUBAIX – 2015

la piscine de Roubaix – ora sede del Musée d’art et d’industrie  (foto p.Capitini)

Bello e inappropriato come una sorpresa, il cielo di fine aprile è inaspettatamente azzurro. Piccole case in fila; mattoni bruniti, ordinati e minuscoli; abbaini sempre chiusi e grandi finestre senza visi e senza vita si affacciano su strade un tempo familiari ed oggi a loro stesse estranee.

Tra un kebab, una macelleria halal ed una sopravvissuta brasserie tutto qui è ancora ostinatamente ordinato. Regione dell’Houte-de-France come si chiama adesso, cuore d’Europa in parte espropriata, a tratti stupita e rancorosa, come la bella donna che è stata e che ormai non sarà più. Qui per le vie e tra le case quasi si sente ancora l’odore del carbone che spingeva le fabbriche e uccideva operai dagli occhi azzurri e dai grandi baffi, piegati sui telai e felici di un ballo o di una birra la domenica. Oggi di occhi azzurri se ne vedono pochi attorno alla grande moschea che con qualche ironia ha voluto sull’incrocio Croix.

Poi però giri per rue de l’Esperance e al 23 capisci come questo posto dove è stata inventata l’Europa della produzione in massa e poi quella della guerra in massa non riesce a sfuggire il suo destino di modernità. E’ condannata a guardare avanti anche quando si trasforma nell’Europa dell’estraneità, capace di convincere ragazzotti come quelli che incrocio per strada a credere che 70 vergini in cambio della loro vita siano un buon affare. Al 23 di rue de l’Esperance, attaccato ad un bowling e di fronte al municipio di Roubaix, ci sono le vecchie piscine della città, costruite tra il 1927 ed il ’32 dall’architetto Albert Baert e fino a trent’anni fa erano aperte e poi chi le ha chiuse ha avuto un’idea. Un’idea moderna. Quelli che seguono sono alcuni degli scatti presi in uno dei musei più sorprendenti che abbia avuto la fortuna di visitare: la piscine de Roubaix.

Paolo Rossi, un’estate da sogno.

Paolo Rossi ai mondiali di Spagna ’82.

5 luglio 1982. Da meno di un mese avevo dato analisi 2 e mi sentivo un eroe. Di matematica non c’avevo mai capito niente, ma nonostante tutto ce l’avevo fatta a concludere il biennio di ingegneria dell’accademia militare. Quell’estate sarei tornato a casa in licenza di fine-corso. Da Armando, il nostro storico bagnino, avrei rivisto i miei compagni di liceo, affollati sotto il solito, unico ombrellone. Allora, nell’Adriatico popolare, i bagnini avevano ancora nomi contadini. Con i colleghi mi sarei invece rivisto in settembre, a Torino; ormai non più allievo ma sottotenente di fanteria. Avrei compiuto 21 anni quel settembre, ma prima ci sarebbe stata l’ultima corvée dell’accademia: il campo a Tre Poggioli, uno sperduto poligono sull’appennino tosco-emiliano.

Quell’estate avrebbero potuto mandarci tutti in Nuova Guinea e non ce ne saremmo accorti. Unica preoccupazione era se e come saremo riusciti a vedere i mondiali.

Tra la misera logistica destinata agli allievi qualcuno aveva rimediato un vecchio Grundig abbastanza grande da lasciar immaginare la partita anche in fondo alla tenda dello spaccio. Eravamo tutti là: accaldati, sporchi, in pantaloncini caki che ci facevano assomigliare a reduci della campagna d’Africa.

Ore 17, 15. Lunedì. Caldo anche a Barcellona. Inizia Italia-Brasile. Tutti zitti. Il Brasile è quello di Zico, Falcao, Cerezo e Socrates. Una squadra che non ti sconfigge; ti umilia.

Partiti. Non avevamo neppure preso a lamentarci che al quinto minuto Bruno Conti, scende sulla destra, passa palla a Cabrini che sale dalla sinistra, dalla trequarti parte un cross in area brasiliana, sbuca improvvisamente Paolo Rossi che di testa insacca alle spalle di Waldir Peres. Gooooool. In quell’attimo ci siano tutti dimenticati l’a-plomb del cadetto. Parolacce e manate sulle magliette sudate. Zitti! Il Brasile ci salta addosso e al 12° pareggia con Zico.

Ci scambiamo muti lattine di coka-cola calda. Al 25° Paolo Rossi sbuca in mezzo a tre brasiliani che aspettano il pallone, li brucia sul tempo, si beve d’infilata Junior e dal limite dell’area fulmina nuovamente Waldir Peres. Italia 2 – Brasile 1. Sorride anche chi non capisce nulla di calcio. Anche il temutissimo capitano Castellari esulta, ma con moderazione. Siamo tutti convinti che porti una jella tremenda. A conferma dei sospetti generali il Brasile pareggia con Falcao; fa male. certo, ma intanto gli abbiamo fatto due gol. E non è finita.

Paolo Rossi fa il suo dovere e a un quarto d’ora dalla fine rifila il terzo gol ai brasiliani.

Quella dell’82 era per noi l’estate dei sorrisi e degli eroi, avevamo finito l’accademia militare e Paolo Rossi aveva battuto il Brasile. Oggi quell’eroe dagli occhi vispi e dai modi garbati se ne è andato, come tutti gli eroi di quell’estate impolverata e felice.

MI BASTA POCO.

Roma – Trinità dei Monti (foto p.Capitini)

“MINIMO INDISPENSABILE”. Avete pensato cosa significa per noi?

Quand’è che la spia rossa s’illumina? Quando cade l’ultima goccia? Qual è la misura, il limite, superato il quale una forza interiore, incurante delle conseguenze, libera dal calcolo, ci spinge a reagire e vada come vada.

In questi tempi di policroma incertezza, mentre sibillini divieti e speranze deluse si accatastano gli uni sulle altre come foglie d’autunno, io, in pieno stile Marzullo, me lo sono domandato ma senza trovare risposta.

Forse – ma questa è solo un’ipotesi – l’abitudine a chinare il capo su tutto e tutti si è trasformata in artrosi dell’animo e i rospi, giorno per giorno, hanno preso il sapore di un sushi post-moderno. Tuttavia non so davvero dire da quando quello che capita non è più abbastanza grave, urgente o ingiusto da farmi alzare dalla sedia e agire.

“NECESSARIO VINCERE. PIÙ NECESSARIO COMBATTERE”. È inciso sulla facciata del palazzo della Gioventù Italiana del Littorio a Roma, in via Ascianghi 5. Dovremmo forse scrivere “NECESSARIO SOPPORTARE. PIÙ NECESSARIO DIMENTICARE” ?

Eppure se mi guardo indietro, agli anni dell’adolescenza, so che non è stato sempre così. Ricordo bene gli operai che scendevano in piazza; gli studenti che si prendevano a botte per un’idea. Ricordo che si parlava e si discuteva. Ci si menava anche. Ci si sparava anche. Certo erano “gli anni di piombo”, ma non mi sarei immaginato che dopo sarebbero arrivati “gli anni di fango”.

“Que reste-t-il de ces beaux jours?” Riders piegati sulle bici di Glovo, smartphone; contratti a termine, lavoro a cottimo, zone rosse, giorni gialli, banchi a rotelle, PayTV, politici dagli occhi fissi e altra immondizia in salsa anglofona.

In questi tempi di pandemenza mi chiedo dunque da quando all’immunità dal gregge abbiamo iniziato a preferire … belare.