ALEPH E IL DITO DI DIO

Fu Dio a disegnare nel cielo le lettere. Le disegnò una per una.

La prima fu “Aleph”, il segno che apre e chiude i mondi e annulla il tempo, e poi continuò a tracciare altre linee e altre curve nell’azzurro finché, giunto alla “Tau“, si fermò.

la lettera Aleph, la prima nell’alfabeto ebraico

Ogni gesto tracciato nel cielo portava l’eco della sua voce; il profumo del suo respiro. Gli uomini li avevano osservati come un bambino guarda alle nubi e il contadino ai cirri che annnciano la gelata. Non capirono ma quello era il respiro di Dio e tanto bastò perché da allora li avrebbero ricordati, conservati e riprodotti fino alla fine dei tempi. Ogni segno sapeva parlare agli altri uomini del profondo dell’anima e della natura che li avvogeva, faceva comprendere il mondo e sapeva far arrendere alla magia dell’incomprensibile.

Ogni segno non permetteva mai al passato di scomparire del tutto, né al futuro di chiudersi nella conchiglia di un sogno. E nel presente faceva esclamare “Guarda !” a chi non aveva ancora visto.

Sarà per questo che anche oggi le parole riportano il profumo del sacro.

Sarà per questo che vanno conosciute, ricordate e rispettate. Sarà per questo che sono loro, le PAROLE, a muovere qualsiasi fatto, a generare qualsiasi sorriso, far sgorgare qualsiasi lacrima e consolare ogni dolore.

Scrivere e leggere fa entrare in questo mondo profondo dove ognuno è viaggiatore e vagabondo. Camminiamo senza paura tra i segni che Dio ha tracciato sull’azzurro.

MARINA –

Ha telefonato la Marina”. C’eravamo conosciuti così; per un equivoco.

Credo fosse il 1988 e non immaginavo per quale motivo la marina militare cercasse qualcuno in un battaglione di bersaglieri, per giunta a Milano. Lei, Marina senza articolo, cercava invece il mio comandante di allora per un lavoro che gli avevamo commissionato.

Una volta conosciuta ti rendevi conto che Marina era una personalità lunarmente distante da un militare. Eppure non chiudeva mai porte né mollava giudizi. In fondo era una persona curiosa.

Disegnava, colorava, dipingeva, tagliava e incollava seguendo il filo di una fantasia chiara solo a lei, ma facile da seguire per l’eleganza e la pulizia di ogni macchia di colore che colava da uno dei suoi cento pennelli.

A me aveva regalato la tempera di un carro armato verde oliva d’un realismo che rasentava la fotografia. Il carro però sparava cuoricini muovendosi su un prato arcobaleno. Da un gruppo di fiori saltellava un’ape sorridente. Confesso che allora – giovane e presuntuoso capitano – non avevo avuto il coraggio di appendermelo in ufficio, tra il ritratto di La Marmora e qualche foto guerriera. C’ho messo tempo a capire che sbagliavo. Molto meno ne impiegai a fare amicizia con questa ragazza milanese, magra come un chiodo, in grado di passare da un’espressione corrucciata da notaio lombardo a una sorriso disarmante da fata dai capelli turchini.

A quel tempo abitava all’inizio di corso Buenos Aires, non lontano da piazzale Loreto. Come molti militari avevo la sensazione che solo noi ci spostassimo nel mondo. Tutti gli altri se ne sarebbero stati a casa loro fino alla vecchiaia, magari al quarto piano di un palazzone di corso Buenos Aires, a Milano. E invece no. Marina se n’era andata a Roma o giù di lì con Aldo, il suo compagno a fare quello che sapeva fare: dipingere, inventare e insegnare alla gente a trovare quel minimo respiro d’artista che vive sepolto in ognuno di noi. C’eravamo ritrovati dopo tanti anni, forse una ventina, per quegli strani allineamenti di pianeti che rendono il futuro degli uomini sempre un’illusione.

Erano successe cose a me. Erano successe cose a lei, ma aveva ancora i suoi pennelli e l’espressione da notaio brianzolo da alternare allo sguardo da fata. Gli avevo chiesto di dipingermi una madonnina che avevo visto sul muro di una chiesetta in Africa. Stavolta non l’avevo buttata. Da anni gli occhi spalancati di quella Madonna aspettano che il sonno chiuda i miei.

Sono stata dal dottore, adesso sono a Villa San Pietro, sulla Cassia. Passi a trovarmi?”. Era iniziata così, seduti su un tavolo di legno sotto un pino romano in un ospedale, all’inizio di questa estate asfissiante. Chiacchierava di cosa sembrava potesse avere e del professore che non le stava simpatico. Ma a lei stavano simpatici in pochi.

Sono passati giorni e quello che all’inizio dell’estate sembrava s’è trasformato in realtà. “Andiamo a cena sul lago? Conosco un bel posto, ma non posso mangiare tutto. Devo stare attenta”. Il ristorante era molto carino, sulla riva. Si mangiava bene anche se un po’ troppo sofisticato. Abbiamo anche provato a parlare d’altro, ma quella “cosa” si era seduta, in silenzio, a capo tavola. Ci siamo sentiti ancora. Le cose non andavano bene, ma c’era sempre speranza e nella sua voce sentivo con piacere quella lucida determinazione che mi ha sempre fatto amare i milanesi.

Oggi l’ho incontrata di nuovo, ad Aguillara.

Guarda che bella chiesetta” – mi aveva detto una volta “Ci sono affreschi del ‘300. Un giorno andiamo a vederli.

Quel giorno per me è stato oggi. Una bella giornata assolata di novembre; tirava un filo di tramontana ma il lago era ancora calmo. Sulle rive i platani sembravano indecisi tra il verde dell’estate e il giallo dell’inverno. In Quatar, ai mondiali di calcio, l’Inghilterra batteva credo l’Iran. Alle 14,15 i ragazzini stavano uscendo da scuola e la mattina ero andato a comprare legna per l’inverno. Tutto questo non l’avresti più visto. E non ero pronto.

Spero e prego che lo sia stata tu.

“La morte che consuma” – racconto dell’alba atomica.

Le parole che seguono non sono mie. Mi verrebbe da aggiungere “magari”, ma sono di un grande giornalista italiano,Vittorio Zucconi.

Parlano dell’alba dell’era nucleare, di quando il mondo pensava di aver per le mani l’arma che avrebbe finalmente posto fine a tutte le guerre. Forse l’avranno pensato anche gli Achei dell’Età del Bronzo o gli Archibugieri spagnoli nel ‘600. La bomba atomica non pose fine a nessuna guerra, ma diede il nome a un’intera era, quella in cui ancora viviamo.

Quello che raramente si trova scritto sono però i nomi e la vita di chi quell’era l’ha vista annunciarsi. Di questo parla l’articolo di Vittorio Zucconi. Un consiglio? Leggetelo.

Vittorio Zucconi – 1944 – 2019 foto WEB

Era il 1951 e tutti nel mondo dormivamo il sonno della ragione, rimboccati sotto la coperta nucleare della Guerra Fredda. Dormiva anche Martha Laird, in una notte di quel 1951. Una giovane mamma di 26 anni addormentata accanto al marito, ai due figli piccoli, alle sue pecore e ai suoi cavalli nelle colline del Nevada a ovest di Las Vegas, in un villaggio minuscolo chiamato Twin Springs, sorgenti gemelle.

Ci svegliò un lampo di luce che ci scaldò il viso come se il sole fosse esploso davanti alla finestra” racconta adesso. “Dopo qualche secondo sentimmo arrivare da lontano il ruggito, come di un terremoto. La casa cominciò a tremare, le finestre si sbriciolarono, la porta volò via come un vecchio giornale. I bambini piangevano. Mio marito e io ci stringemmo uno all’ altra, fino a quando il rombo si calmò e il sole di notte si spense. Non capimmo niente”.

Cominceranno a capire più tardi, quando il bambino più grande si ammalò di leucemia, il più piccolo di cancro alle ossa, il marito al pancreas e il neonato che Martha portava in sè nacque prematuro, di sei mesi, “con due strane appendici nere e contorte che gli penzolavano sotto la pancia, al posto delle gambe”. Visse cinque ore prima di morire anche lui, come i fratelli, come il padre, come i puledri deformi usciti dal ventre delle giumente che galoppavano via con gli occhi da matte, come se avessero paura di quel che avevano partorito. “Allora non sapevamo di essere i ‘ downwinders’ , il popolo-cavia che viveva ‘ sottovento’ rispetto agli esperimenti nucleari nel poligono atomico del Nevada” dice Martha. Ora, 40 anni dopo, lo sanno. Lo sa anche il governo americano che ha versato pochi giorni or sono a questa donna, e a migliaia di ‘ sottovento’ come lei, 50 mila dollari, 70 milioni a testa, per “risarcimento danni da radiazioni” secondo una legge finanziata con un fondo speciale voluto da Clinton di oltre 200 miliardi di lire annui. Soltanto oggi, dopo anni di querele, cause, processi, inchieste e soprattutto morti orribili su morti orribili, la verità sulla guerra segreta condotta contro il popolo dei “Sottovento” comincia a venire a galla, sciolta dall’ omertà della Guerra Fredda.

Le 104 bombe all’ idrogeno fatte esplodere all’ aria aperta nel deserto del Nevada fra il 1951 e il 1963, quando Kennedy firmò la messa al bando degli esperimenti atmosferici, e poi le oltre 800 detonate nelle caverne sotterranee fino a ieri hanno fatto più vittime di Chernobyl, qui nell’enorme regione fra l’ Arizona, lo Utah e il Nevada coperta dalla nuvola del ‘ fallout’ nucleare. Il loro numero esatto è ancora un segreto di Stato. Forse 50 mila, come in Vietnam. Eppure Clinton sta meditando di autorizzare altri quattro test nucleari, entro il 1996. Come tutto quel riguarda l’ atomo, anche di questo orrore non v’ è segno visibile altro che nelle conseguenze.

Bisogna cercare gli effetti nella famiglia Laird, distrutta dalla ricaduta della bomba ‘ Harry’ (ogni esperimento aveva un suo nome, Harry, Bob, Frank, John, per umanizzarlo. Anche quella che distrusse Hiroshima era detta simpaticamente ‘ Fat Boy’ , (ciccione). L’ impronta di quella guerra interna sta nei 100 mila indiani della nazione Navajo impiegati come minatori d’ uranio per scavare il minerale necessario alle bombe, sterminati dai tumori al polmone e morti senza neppure poter dare un nome a ciò che li uccideva: in lingua Navajo non c’ è una parola che esprima il concetto di ‘ radioattività’ .

La chiamavano la “morte che consuma”. Per anni, il silenzio ufficiale fu assoluto, feroce. Nel paese di St.George, un villaggio fra i mormoni dello Utah, un medico del posto scoprì a metà degli anni ‘ 60 quantità mostruose, inspiegabili di tumori, 25 volte più della media nazionale… perchè? chiese alle autorità, perchè tanta mortalità fra questa gente sana, in uno degli angoli più belli e vergini d’ America? Come risposta gli arrivò a casa un agente dello Fbi: lei non è per caso un comunista? Una spia russa? Il medico lasciò perdere. Non ci sono monumenti, medaglie, eroi di quella guerra segreta di Americani contro altri Americani. Solo cimiteri. Solo il nulla sinistro e gigantesco di roccia e deserto che fu il ‘ Nevada Test Site’ , il poligono atomico.

Di quell’ inferno oggi resta soltanto un cartello – “Warning! Attenzione! State entrando nel poligono nucleare del Nevada!” – a poco più di un’ ora d’ auto da Las Vegas. Non è proibito entrarci, ma molti dicono che sia stupido. La polvere che ricopre la strada è forse ancora ‘ calda’ , radioattiva e lo sarà per 400 anni. A bassa voce, per non disturbare i turisti, i vecchi del posto ti suggeriscono di viaggiare coi finestrini della macchina ben chiusi, la ventilazione bloccata e le mascherine di carta sulla bocca per non respirare la ‘ morte che consuma’ . Quella stessa morte che uccise anche John Wayne e tutta la gente che lavorava con lui sul set di un western realizzato da queste parti. Nessuno della troupe di quel film girato accanto al poligono nucleare è scampato. Tutti sono morti qualche tempo dopo aver lavorato qui per 4 settimane, tutti di cancro al polmone. Dissero che erano le sigarette. Allora non sapevamo quel che sappiamo ora, si difendono le autorità, eravamo sprovveduti, ingenui. Ma non è vero. Sapevano benissimo. Quando il vento spirava dal poligono in direzione di Las Vegas e di Los Angeles, rimandavano gli esperimenti. Aspettavano che il vento girasse e portasse la polvere verso le Montagne Rocciose, a est, nelle zone poco abitate, verso i disgraziati che vivevano sparsi nei villaggi sottovento, come Martha e i suoi figli.

Il Pentagono le chiamava “popolazioni marginali”. Diciamo pure la parola: cavie. Sapevano, eccome sapevano. Da Las Vegas si vedevano benissimo i ‘ funghi’ stagliarsi contro l’ orizzonte ad appena 100 chilometri. I giocatori si alzavano dai tavoli del ‘ Blackjack’ , si staccavano dalle slot machines per correre sui tetti a vedere ‘ the mushroom’ , il fungone. Le scuole distribuivano pasticche di iodio ai bambini per combattere l’ effetto delle radiazioni. Dicevano ai genitori che erano “vitamine”.

Ai soldati che in 250 mila vennero piazzati a pochi chilometri dal ‘ ground zero’ , il punto della detonazione, veniva data paga doppia, come agli scienziati che lavoravano agli esperimenti. Dunque il rischio era ben noto. “Li pagavano profumatamente e gli dicevano che era un lavoro patriottico, indispensabile per difendere l’ America dalle bombe dei comunisti” racconta la vedova di un cow-boy del Nevada. Suo marito aveva il compito di portare vacche vicino alla bomba per studiare gli effetti. Alle bestie usciva una schiuma purpurea dalle narici, gli occhi si gonfiavano fino a cadere dalle orbite. Qualche volta anche ai vaccari. E le vedove zitte. “Non una parola con nessuno, mi disse mio marito vomitando abbracciato alla tazza del cesso, dopo un esperimento”. Morì sei mesi dopo. Lungo la ‘ Frontiera della Bomba’ oggi non c’ è più niente di vivo. Deserto doppio. Vedo, dal finestrino ben chiuso della mia macchina, la carcassa di un vecchio carro armato bianco, calcinato dall’ esplosione. Rottami di autobus, macchine, tronconi sbriciolati di ponti in cemento armato, pezzi di rotaia divelti, usati per misurare l’ effetto-bomba, tutti coperti da quella polvere candida e finissima che viaggiava per centinaia, per migliaia di chilometri.

A volte ricadeva fitta come neve sui villaggi e i bambini correvano fuori a tuffarvisi dentro, ridendo e respirando. La notte vomitavano, la mattina apparivano le prime piaghe e i capelli cominciavano a cadere 48 ore dopo. Le madri pregavano per loro. Prima perchè guarissero. Poi perchè morissero in fretta. La gente si fidava.

La propaganda funzionava e la ‘ Bomba’ non dispiaceva affatto. Quel fungo enorme contro il cielo terso del West era una bandiera, un segno di trionfo. Era l’ America. Miss Nevada 1953 vinse il titolo indossando un costumino da bagno fatto di bambagia a forma di fungo atomico. Parve una gran trovata. Il due pezzi rivelatore non si chiamava forse ‘ Bikini’ , l’ atollo della prima Bomba H? Nel deserto del Nevada, spuntavano gli ‘ Atomic Bar’ , ‘ Atomic Restaurant’ , ‘ Atomic Casinò’ . Le prostitute di Reno offrivano ai clienti ‘ The Atomic Fuck’ , la scopata atomica. Le famiglie andavano a fare i pic-nic sulle colline per guardare il ‘ sole a mezzanotte’ attraverso gli occhiali affumicati.

L’ esercito distribuiva e proiettava nei paesi sottovento del Nevada, dell’ Arizona, dello Utah un filmino rassicurante intitolato “Il Cappellano e la Bomba”. Anno: 1956. Recitava il cappellano: “Domani assisterai in prima linea a un esperimento nucleare, hai paura?”. Il soldato: “Un po’ sì, Padre”. “Non averne, figliolo. Non c’ è alcun pericolo. Vedrai un grande lampo, sentirai il calore sul viso come quando prendi il sole al mare, avvertirai la terra tremare, il vento alzarsi. E poi vedrai un fungo di colori meravigliosi volare verso i cieli, verso il Signore. Sarà bellissimo”. “Sì padre, ora sono tranquillo”.

Vedo nel deserto resti di enormi gabbie, come grandi voliere sparse qua e là. Erano le gabbie per gli animali collocate a varie distanze dal “ground zero”. I più vicini venivano polverizzati. I più sfortunati, quelli più lontani, vivevano un giorno o due. Reason Wareheim, un ex Marine di servizio nel Poligono che oggi ha 67 anni ed è sopravvissuto a un tumore al polmone, ricorda ancora le grida e gli ululati strazianti di quelle bestie, lasciate a morire sotto il cielo del deserto. Sopravvivevano solo scorpioni e scarafaggi. Bisognava farlo. C’ era la Guerra Fredda. Stalin e Kruscev. Budapest e Cuba. Il giorno dell’ Olocausto atomico sembrava inevitabile, imminente. Gli esperti parlavano di “deterrenza” nucleare fra Usa e Urss per garantire la pace. Forse milioni di vite furono risparmiate. Certamente migliaia di vite furono consumate in silenzio, qui nel Selvaggio West della Bomba coperto dalla polvere portata dal vento del Nevada che lasciava in bocca “un sapore metallico, come leccare la lama di un coltello”. E il ‘ fallout’ radioattivo arrivava sino a New York, dicono le carte segrete. Racconta ancora Martha Laird: “Poco prima di morire mio figlio alzò la testa dal letto dove stava tutto avvolto in un guscio di gommapiuma perchè le sue ossa erano ormai diventate così fragili per il tumore che si spezzavano solo a muoversi. Mugolava come un cane… mamma sento il vento arrivare… mamma ferma il vento… Credevo che delirasse”. Martha ha messo in cornice l’ assegno del governo. Giura che non incasserà mai quei soldi portati dal vento del Nevada, come la morte senza nome che consumò tutti i suoi figli.

VITTORIO ZUCCONI

21 giugno 1993