Esistono giornate incoerenti, come queste di fine ottobre.
Dovrebbe essere il tempo delle foglie rosse incollate all’asfalto, dell’odore di marcio e delle mura sudate di pioggia, invece l’estate prosegue verso la fine improvvisa. Un giorno incoerente ne riflette molti altri, anch’essi altrettanto incoerenti; alcuni passati nell’attesa, altri nella fuga, molti nella rabbia. Non molti nella gioia. Ognuno di essi ha avuto un peso e nessuno è mai caduto a terra. Pian piano la schiena si piega, le cosce si abituano, il fiato trova il suo ritmo e si cammina, si cammina sempre fino a che non si ha più ricordo di cosa vuol dire correre e saltare e arrampicarsi sugli alberi. Senza peso. Senza giorni.
Comacchio foto P.Capitini
Sfogliando quà e la mi sono capitate le parole di questa scrittrice italiana. Sono un invito a lasciare i pesi e a non accettare giorni incoerenti. Buona lettura
“Scegliete amici, amanti e amori che siano ali forti con cui spiccare il volo, che vi aiutino a nascere, pure quando nascere fa male, per scoprire chi siete davvero, per rendervi persone migliori. Scegliete chi vi rimprovera per troppo affetto, invece di chi vi consola per convenienza. Chi vi affronta a muso duro, vi urla a dosso e, alla fine, resta. Scegliete chi non vi incatena all’immobilità del suolo, ma disegna per voi un altro pezzo di cielo. Chi non fa promesse e poi le mantiene. Chi tradisce le aspettative, perché non c’è altro modo di onorare la vita, nella sua magnifica imperfezione. Chi vi cambia gli occhi, o ve li restituisce per la prima volta, mostrandovi un modo diverso di guardare. Scegliete chi vi spinge a lottare, a combattere, a crescere, a sperimentare. Chi inventa ogni giorno colori nuovi, e ha incoscienza abbastanza da accostare il verde col giallo, il blu cobalto col rosso rubino, perché nulla ci fa più coraggiosi della capacità di rompere gli schemi e sovvertire l’ovvio. Scegliete chi vi fa paura. E poi, scegliete chi vi fa venire voglia di vincere quella paura. Antonia Storace, dal libro “Donne al quadrato”
La prima volta che arrivai a Milano era una mattina di settembre, fresca e umida. Troppo per me che una settimana prima me ne stavo a Napoli, Monte di Dio. Sulla spallina ancora due stellette da tenente dei bersaglieri; quella da capitano l’avrei trovata nella nuova sede, a metà di viale Giovanni Suzzani, al civico 125. Caserma Mameli.
Milano – Arena Civica … Celebrazione del 18 giugno – anniversario fondazione del Corpo dei Bersaglieri.
La macchina me l’avevano rubata pochi giorni prima, a Napoli, in via Mezzocannone: una golf diesel bianca con tettuccio apribile. Solo un cretino marchigiano come me l’avrebbe parcheggiata in via Mezzocannone per tutta la notte, ma a 26 anni si ha diritto ad essere cretini e geniali con generica propensione verso il primo. Così me ne stavo in stazione centrale, alla fermata della 42, aspettando il bus per il 18° battaglione bersaglieri. Gli avevano trovato un posto in una vecchia caserma del tempo della guerra, un tempo in estrema periferia; alle spalle del vecchio tabacchificio e poco lontano dall’ospedale Niguarda, nomi e luoghi sconosciuti.
Milano mi aveva fatto una impressione sconcertante e vagamente estera. Non aveva la compassata alterigia affumicata di Torino dove avevo frequentato la scuola e neppure la banalità ordinata e paludosa di Novara. Milano, come cantava Lucio Dalla “fa una domanda in tedesco e ti risponde in siciliano”. L’anno precedente l’avevo trascorso a Napoli. Dalla finestra dell’alloggio, giusto a fianco all’infermeria, si vedeva Capri e il cielo. Mi colpì il fatto che Milano non avesse cielo. Al suo posto il padreterno aveva rovesciato un bicchiere di orzata lattiginosa nel quale nessuno avrebbe mai sospettato galleggiassero le nuvole. Milano non aveva neppure il mare, né un bosco e neppure uno straccio di collina. Era il frattale dello stesso incrocio contornato da identici palazzi, con l’edicola all’inizio, le fermate dei mezzi e all’ingresso gli stessi 4 cartelli : “COMO”, “TORINO”, “SEMPIONE” e “GENOVA”. Perdersi a Milano non era difficile, ma inevitabile.
Potrei proseguire nella lista dei difetti che man mano trovavo a questa città, davvero brutta, tuttavia c’era qualcosa nell’aria e nella sua gente che te la rendeva all’inizio curiosa e poi addirittura simpatica. Forse la consapevolezza che i milanesi avevano maturato di vivere in una brutta città e nello stesso tempo saperci ridere su. Dopo un po’ capii che avevano sostituito l’estetica con la pratica e il tutto funzionava benissimo.
Comprai casa. Non proprio a Milano perché anche allora i prezzi per uno statale imponevano la rapina in banca, ma a Sesto San Giovanni, la “Stalingrado d’Italia”. Cinisello, Bresso, Sesto San Giovanni, Affori…tanti modi di chiamare la stessa città, metodo un po’ classista ma almeno a prezzi più popolari. A Roma anche chi abita in un piano terra a Osteria Nuova può dire “So’ dde Roma”; a Milano a metà di viale Sarca sei già a Berlino Est.
Deve esserci qualcosa nell’aria oppure secoli fa i milanesi avranno subito qualche affronto imperdonabile per mantenere quest’aria schifata e snob nei confronti di chi li circonda. Vai a saperlo.
Giuseppe Sala, Sindaco di Milano e della città metropolitana.
Anche il dottor, grandlupman, dirigente d’azienda e dirigente pubblico, sindaco di Milano e dell’omonima città metropolitana Giuseppe Sala detto Beppe dagli amici deve essere uno così, una sorta di martini dry della politica: un terzo di snob, un terzo di talebano di sinistra e un terzo di coglionaggine. Olivetta a piacere. Per salvare Milano dall’inquinamento, garantirle la svolta verde, allinearla all’Europa, lanciarla nel terzo millennio e mille altre magnifiche sorti e progressive si è barricato all’interno dei limiti del comune, cosa che da quelle parti non si vedeva più dai tempi di Federico Barbarossa.
Cosa è successo? Semplice. Dagli inizi di ottobre non solo se hai un veicolo euro 3 o 4, ma anche euro 5 o 6 non pensare neppure di avvicinarti alla città. Anche se una marmitta euro 6 puoi usarla al posto dell’aerosol a Giuseppe Sala detto Beppe dagli amici non importa una cippa. Comprati un’auto elettrica, impara ad andare in monopatino, tira fuori la bicicletta dal garage o, se ce la fai, prendi un taxi, ma non t’azzardare a salire in macchina. Questo l’ecologico invito di Giuseppe Sala detto Beppe dagli amici.
L’ostracismo vale anche per l’idraulico con il suo Fiorino, per la squadra di muratori bergamaschi pressata dentro l’IVECO Daily rigorosamente bianco, rigorosamente ammaccato e anche per il Mercedes che scarica il pane al supermercato. Sala guarda tutti e non vuole nessuno.
foto WEB
Più per desiderio di rivedere vecchi amici che per reale necessità a giorni avrei avuto motivo di tornare a Milano, una città che amo e dove ritornavo sempre con grande piacere. Tuttavia mi trovo a considerare che una settimana potrebbe non essermi sufficiente per imparare ad usare il monopattino. A 60 anni compiuti e per giunta in giacca e cravatta mi sentirei un po’ cretino a traballare la sopra. Potrebbe anche dipendere dalla mia inadeguatezza meridionale nel sentirmi affascinato dalle nibelungiche trovate di quest’illuminata giunta. Sto quindi meditando di rimandare l’impegno oppure, a malincuore, disdirlo per “impraticabilità di campo”.
Di certo Giuseppe Sala detto Beppe dagli amici sarà soddisfatto. A me rimane la sorpresa di vedere gente che sapevo ragionevole, pratica e anche combattiva essere stata completamente anestetizzata da questa fantastica e visionaria giunta comunale la quale tiene così tanto alla qualità dell’aria che è disposta a farti licenziare o fallire per difenderla. Penso che me ne resterò quindi nel mio paesino dell’Alto Lazio dove si parla un italiano post-medioevale, in piazza ogni tanto ci trovi i cavalli e il nostro sindaco non ha velleità di passare alla storia.
Bene così Giuseppe Sala detto Beppe dagli amici, tra i quali non ci sono certo io.
“Patria. Bandiera. Parole polverose e senza senso…” il commento era uscito, senza alcuna cattiveria, da una elegante e anziana signora; una grande scrittrice, figlia di una grande famiglia. Insomma una persona di rispetto. Si parlava di elezioni e di pericolo nero, di Italia non più europea e di altri temi di certo importanti, eppure di tutte le intelligenti parole e dei profondi concetti che avevo ascoltato solo quella frase, buttata là con un tono di vago disgusto, m’era entrata dentro con fastidio, quasi con dolore.
foto P.Capitini
Qualche giorno prima avevo ricevuto l’invito alla cerimonia del cambio del comandante del mio vecchio reggimento. Per chi non fosse pratico di cose militari un reggimento è una comunità di un migliaio di soldati con a capo un colonnello. Di solito resta al comando un paio d’anni poi viene trasferito lasciando il posto a un altro e per sottolineare il passaggio, come prescrive il regolamento militare, si organizza una “sobria ma significativa” cerimonia. Era appunto a una di queste sobrie e significative cerimonie che ero stato invitato, quella del comandante dell’Ottavo bersaglieri. Noi lo scriviamo così – Ottavo – con la “O” maiuscola e per esteso, senza usare numeri. La ragione è un po’ lunga da spiegare, ma, fidatevi, ne abbiamo motivo.
foto P.Capitini
A suo tempo anche io ne avevo organizzata una. Da Reggio Emilia era venuta mia sorella e qualche amico. Anche allora era settembre e intuivo che gli anni a venire non avrebbero mai più avuto lo stesso calore, la stessa idea di famiglia di quelli che stavo lasciando.
Da quel giorno di settembre, quando mia sorella mi aveva visto con il cappello piumato, la sciabola e la sciarpa azzurra, erano passati diciotto anni. Finita la cerimonia eravamo usciti dalla caserma con la mercedessport coupécomprata dal tenente Zizzari. Da allora non avevo più messo piede tra quelle mura. Nello stesso cortile molte altre cerimonie avevano continuato a salutare nomi e volti dapprima a me familiari, poi sempre più giovani e sconosciuti. Fino ad oggi: 23 settembre 2022.
foto P.Capitini
Nei giorni incerti tra la fine dell’estate e i primi respiri freschi d’autunno, in giro per la strada c’era poca speranza e molta rassegnazione. Tra due giorni si sarebbe votato. In TV passava uno spot per invogliare la gente ad andare ai seggi.
Brutto segno.
Tra Russia e Ucraina era in corso una guerra estranea che presto ci avrebbe reso tutti più poveri. Anzi, quasi tutti. Qualcuno con amicizie più importanti e un conto in banca solido se la sarebbe cavata, lasciando alla gente il compito di rosicchiare l’osso della crisi. E questo la gente lo avvertiva chiaramente.
Brutto segno.
Dopo la fine della pandemia, malgrado le promesse, non c’era stata alcuna resurrezione. Personalmente continuavo a sentirmi avvolto da questo mal bianco; dal senso di rancorosa sconfitta che si respirava per le strade delle nostre città e persino nei bar del mio paese dove in questi giorni si sarebbe parlato di vendemmia, di corna e di caccia. Anche la Juventus giocava male.
Brutto segno.
Non tirava dunque una bella aria. Per di più c’erano le parole della grande e importante scrittrice che spolveravano di modernità questi giorni rassegnati.
foto P.Capitini
Contro ogni ragione mi ritrovavo comunque di buon mattino a scendere verso le porte del sud. E’ là che il mio vecchio reggimento è di stanza da quando non ricordo più quale governo l’aveva trasferito da Pordenone.
Esiste un impalpabile confine a sud di Roma, una linea invisibile superata la quale non si affitta più, ma “SI LOCA”, dove i negozi hanno grandi insegne di plastica gialla e blu, le strade buche profonde che ti fanno rallentare proprio davanti a un chiosco che arrostisce carciofi. Gigantesche statue di Padre Pio o della Nike di Samotracia ti accolgono all’ingresso della pensione “The Quiin” – tre stelle con aria condizionata – e le vecchie case di tufo bianco e pietra lavica non hanno ancora deciso quale intonaco preferire: bianco? Giallo? Rosa? La chiamano “la terra dei fuochi”, ma sarebbe forse meglio “la terra dei torti”, tanto patiti quanto inflitti.
foto P.Capitini
Per il resto d’Italia questo luogo esagerato è un set per serie sulla camorra, cortei antiracket o per inchieste televisive. Tuttavia, se, come è capitato a me, si ha avuto la ventura di viverci per un po’ ci si accorge che era proprio quel mix di carognaggine individuale e sincera fratellanza a rendertela cara e indimenticabile.
Percorrendo la Casilina, dietro uno dei camion dei “F.lli Lo Cicero”, mi sentivo dunque come a casa dei cugini: estraneo ma in famiglia. Mentre lo scappamento del camion tentava caparbiamente di avvelenarmi, mi domandavo per quale ragione avessi poi deciso di andare. Ho imparato negli anni che ogni volta che ti fai una domanda devi avere pazienza; la risposta – quella vera – arriverà al momento giusto; nel frattempo passi il tempo a elencarti cazzate.
foto P.Capitini
Mi ero ritrovato quasi improvvisamente al cancello della caserma. Condotto là come il mulo verso la stalla.
Conoscevo bene il rituale. Il solito graduato mi avrebbe guardato torvo, poi qualcuno mi avrebbe indicato dove parcheggiare; dove andare e dove aspettare. I militari odiano la gente che va a spasso.
Mi ero così ritrovato sotto uno degli alberi di plastica che circondano il grande cortile. Dopo diciotto anni gli alberi erano identici a quelli che avevo lasciato: né più alti, né più grossi, ne avevo quindi dedotto che non potevano che essere di plastica.
Ai quattro angoli del cortile altrettanti carri tirati a lustro. Niente era stato trascurato della semplice coreografia che accompagna ogni “sobria e significativa” cerimonia. La platea con le sedie accuratamente allineate, il microfono per la voce fuori campo, il leggio con alzata a tortiglione in finto noce; l’ambulanza discretamente parcheggiata nel controviale. Anche il busto di La Marmora, reliquia della caserma Martelli di Pordenone, era al solito posto. Qualche mano assassina lo aveva dipinto di nero lucido.
Foto P.Capitini
Pian piano inziavano ad affluire ufficiali scintillanti, belle ragazze dalle gonne corte, matrone romane, ex-combattenti delle guerre risorgimentali, bambini irrequieti e generali sorridenti e un tantino rigidi. La solita umanità che come me sempre forma il pubblico in queste occasioni.
Il comandante cedente si aggirava sorridente, incapace di decidersi tra fare lo spigliato o lacrimare di commozione. Il subentrante invece scantonava educatamente sentendosi– se pur per pochi minuti – un usurpatore. Sotto il cappello piumato un po’malconcio sorridevo scambiando due parole con tenenti colonnelli pieni di medaglie che avevo accolto da giovani tenenti e con molti dei miei vecchi marescialli, custodi della saggezza di ogni reparto. Passati vent’anni in quel posto mi sentivo ancora a casa; in famiglia. Potevo ritenermi soddisfatto.
La fanfara aveva suonato “Adunata” e i bersaglieri erano entrati a frotte a riempire i ranghi delle compagnie. Si iniziava.
“Onori alla Bandiera di Guerra dell’Ottavo reggimento bersaglieri”. Aveva ordinato il comandante indeciso tra lo spigliato e il commosso e la Bandiera era entrata.
foto P.Capitini
La sosteneva il più giovane dei tenenti del reggimento, che come tutti i tenenti non aveva diritto neppure a un nome; al suo fianco l’Aiutante Maggiore la proteggeva e subito dietro i due Sottufficiali anziani completavano la scorta. Conoscevo solo loro.
Per un attimo la mia Bandiera mi era passata davanti; il drappo di seta un tantino consumato e scucito. Avevo ascoltato il rumore dei passi di corsa e il tintinnare delle medaglie.
Era passata snobbando tutti i presenti sistemandosi subito al sicuro tra i suoi bersaglieri. Anche loro, sapendo che era nei ranghi s’erano fatti un pelo più marziali. Io che comandante non ero più da tempo e non dovevo quindi scegliere tra essere spigliato o commosso ho lasciato andare un’unica lacrima senza senso. Forse l’acqua salata conservava il mio rimpianto per i giorni passati come pure l’orgoglio e la tenerezza per quei soldati che hanno sempre vent’anni. Non lo so.
foto P.Capitini
Alla fine ciò che mi importava era di aver finalmente ottenuto la risposta alla domanda: “che ci faccio qui“.. La grande scrittrice aveva torto. La risposta era là in mezzo ai bersaglieri, all’odore di lucido da scarpe e gasolio. Patria e Bandiera per me e per loro erano parole senza polvere.
Il drappo ondeggiava leggero al vento; il tenente Zizzari oggi è generale e la sua macchina ce l’ho ancora.
Ho sentito di essere stato un uomo fortunato.
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