CILINDRI, PISTONI E…TIPI ADRIATICI.

Nell’aria galleggiava il profumo di fine estate e chi vive da queste parti sa cosa vuol dire.

Il cielo è sempre d’un limpido azzurro e l’aria ancora calda, ma sospeso vicino alla terra è il sentore di uva e more mature; di stoppie secche e polvere. E le cicale non cantano più.

Sibillini (Foto P.Capitini)

La strada per Sasso si dirama dalla vecchia statale 76 verso Cupramontana. Degli antichi Umbri e Piceni era rimasta solo lei, Cupra, la dea; madre di Diana e nonna di tutte le Madonnine degli incroci. In questa parte d’Italia, schiacciata tra il mare e l’Appennino, le madonnine le trovi ovunque: dopo un ponte minuscolo; prima di una salita da dover frustare i cavalli o all’incrocio tra una strada bianca e il sentiero che accarezza i filari della vigna. Sono tutte uguali le Madonnine; una piccola casetta di mattoni gialli, come pane mal cotto, che il tempo e le piogge hanno sfornato con la pazienza di mille inverni. In quelle casette di focaccia, tegole e fede, in fondo, su una paretina intonacata, ci trovi sempre una Madonnina mal dipinta, un rosario scolorito e un cero rosso, spento. Qualche volta, di solito dopo maggio, anche una rosa rinsecchita, segno che da quelle parti sopravvivono gli antichi contadini; timorati di Dio e preoccupati del tempo.

Stavo dunque risalendo senza alcuna fretta una di queste strade a mezzacosta, con una macchina esageratamente larga e potente, una di quelle progettate per le autostrade e per chi vuole arrivare presto. L’appuntamento era per le cinque, l’ora in cui, sul finire dell’estate, gli Appennini perdono i colori e si vestono d’ombra.

La mia Ducati prima della cura (foto P.Capitini)

Dopo più di un anno di telefonate, lavori incomprensibili e contagi da Covid, la moto era finalmente pronta. Franco,il meccanico al quale mesi prima l’avevo affidata, aveva litigato con il vicino per una certa questione di parcheggio, innescando così la catena di eventi che mi portava oggi su quella strada.

Era stato uno di quei litigi frequenti in questi piccoli borghi dove ci si osserva per tutta la vita da dietro la stessa finestra, accumulando domande, invidie e sospetti che non si confesseranno mai. Basta però una foglia caduta, il fumo dell’erba bruciata o l’abbaiare del cane perché un giorno, d’improvviso, chi per anni ogni mattina ti ha salutato con un gesto di mano inizia a litigare.

Vole fa’ a questione…” si dice da queste parti, significando che è arrivato il momento di vomitare tutte le minuscole cose storte che giorno per giorno si sono sedimentate come limo nel pozzo ma che la riservatezza di questi borghi non aveva mai smosso.

Si farà pace, certo, ma dalla litigata dell’8 agosto 2022 si inizierà a contare un tempo nuovo. Un tempo che non contempla perdono e apre a una nuova fase della vita, solo in apparenza identica alla precedente. Probabilmente non si giocherà più a briscola allo stesso tavolo e neppure si faranno i complimenti al vino nuovo. Ci si saluterà con rispetto e distacco fino a che un fatto nuovo non li riavvicinerà davvero.

Franco, il meccanico, era stato appunto coinvolto in una di queste faccende. Dopo tre settimane di vacanza in Gargano il suo vicino era rientrato deciso a “fare a questione”. Con ogni evidenza l’aria di mare aveva dato la stura a quanto aveva sopportato per anni, a cominciare dalla Citroen 2CV che Franco gli aveva chiesto di parcheggiare in cortile.

Le Marche d’Estate – uno scorcio della campagna attorno a Serra San Quirico (foto P.Capitini)

Poco importava che fosse stato proprio lui, il vicino garganico, ad avergli dato il permesso. Quello pronunciato allora era uno di quei “SI” che volevano essere un “NO”. Dopo un po’, come un’eco in montagna, Quel NO nato SI aveva preso a rimbombare frasi cattive, foriere di pioggia come:”…non lo dovevi fare… sei troppo buono… ti sei fatto mettere sotto…”. E siccome a nessuno piace passare da fesso, l’equivoco, come un fiume carsico, molti anni e molti sorrisi dopo il primo: “prego, ci mancherebbe” era tornato a galla.

Fatto sta che Franco aveva ritirato la “Due Cavalli” dal cortile del vicino garganico sistemandola, anzi comprimendola provvisoriamente nell’officina.

Già, l’officina.

Chi legge si appende fiducioso alla catenella di parole offerta da chi scrive. In questo caso la parola è “officina”, ma se avete immaginato un largo ambiente dalle pareti bianche con le strisce bianche e azzurre e un calendario con una ragazza nuda dall’espressione pre-orgasmica… beh, mi dispiace, ma siete fuori strada. L’officina di Franco è un tantino diversa.

In origine credo fosse la rimessa in lamiera ondulata acquistata per parcheggiare la Fiat 127 sport appena comprata. La posizione era stata obbligata dalla recinzione del vicino e dal grande olmo reale che da almeno cent’anni vi cresceva poco lontano. Il resto dell’agglomerato metallico-lamieristico si era sviluppato nel tempo trasformando l’officina in una sorta di nuraghe.

In questa parte d’Italia le case coloniche non assomigliano alle grandi cascine della pianura padana e neppure alle masserie dalle mura alte e bianche del Tavoliere. Sono case piccole: due piani con tetto in tegole rosse; scala esterna e fienile separato.

Sono case di mezzadri. Tutte uguali.

Marianna, l’oca da guardia- (Foto P.Capitini)

Capitava però che talvolta una giovane mezzadra partorisse con troppa frequenza oppure il nonno campasse più del consentito o anche che la guerra risparmiasse i figli che la Patria avevano reclamato.  Oppure – ma accadeva di rado – il mezzadro era infine riuscito ad acquistare la terra sulla quale si spaccava la schiena. Una di certo una liberazione. Niente più patti agrari da rinnovare il giorno di San Giovanni, quando le donne colgono l’ipèrico e lasciano i petali dei fiori a galleggiare nell’acqua di fonte per tutta la notte così che al mattino si possano lavare il viso per conservare la bellezza.

In questi o in altri mille casi non si comprava un’altra cascina, né si abbatteva la vecchia, ma si costruiva una stanza nuova dove si poteva. Se poi ne fosse servita un’altra la si sarebbe tirata su a tempo debito. Insomma era quella dei mezzadri un’edilizia del tempo presente. Con lo stesso criterio Franco, negli spazi resi disponibili dal grande olmo reale, aveva ampliato l’originario capanno salva-127 con altri semi-capanni, sempre in lamiera. L’ultimo limite, per ora ritenuto invalicabile, era l’orto con annesso pollaio. A dire il vero, a parte quattro piante di albicocco, di orto non si poteva parlare e anche il pollaio era più che altro la satrapia di Marianna, una grossa oca bianca aggressiva e presuntuosa che Franco teneva al posto del cane da guardia. Marianna viveva in simbiosi con un’anonima gallina ovaiola che la seguiva remissiva ovunque andasse, pur mantenendosi a debita distanza. Questa era dunque l’officina di Franco: niente strisce bianche e blu, ponte elevatore e neppure ragazze semi-nude. Dimenticavo. L’altezza non arrivava a due metri.

l’officina di Franco – particolare (foto P.Capitini)

Là dentro, per oltre un anno e mezzo, era rimasta chiusa la mia Ducati scrambler 450 arancione. Ora il restauro era finito e per via del litigio con il vicino garganico era anche giunto il momento di andarla a prendere. Per questo stavo risalendo la strada comunale verso Sasso.

Nel tempo trascorso in officina il mondo aveva sperimentato la pandemia, la caduta di un paio di governi e anche la guerra in Ucraina. Io invece avevo vissuto l’annacquarsi di una storia importante, lo sbandamento dell’isolamento e credo anche un inizio di depressione. Faccende senza valore sulle quali ci piace perder tempo finché qualcuno, guardando una lastra ci dice “C’è qualcosa che non mi piace. La vede quella macchia?

Papà e la mia moto. (Foto P.Capitini)

Oltre a qualche malinconica lagna in quei mesi avevo scoperto che la mia storica Ducati non era affatto arancione e che non era neppure mia, ma ufficialmente ancora di Francesco, collega di corso che a Torino me l’aveva venduta per 35.000 lire e al quale nel 1984 avevo promesso di provvedere in settimana al passaggio di proprietà. Ad essere sincero già lo sapevo visto che l’arancione l’avevo spruzzato io; in parte in cortile, in parte sul tavolo della cucina dell’appartamento di Torino che allora dividevo con altri colleghi d’Accademia, in corso Francia 276, 5° piano. Avrei però giurato che fosse davvero viola scuro, ma Giannello Cercamondi, titolare della carrozzeria “Moto OK” di Senigallia, aveva invece scoperto che era nata gialla con striscia nera sul serbatoio. E così sarebbe tornata. Amen.

Carrozzeria di Giannello, particolari sacri (foto P.Capitini)

Come Franco, anche Giannello, era un “tipo adriatico”. Quel tipo di persone che si trovano su questa costa come telline dopo la mareggiata. Sono anarchiche e geniali, ma composte e un po’ introverse; non parlano quasi mai, tuttavia si votano a imprese sorprendenti e quasi mai redditizie. Giannello ad esempio era stato pugile della nazionale olimpica – credo peso leggero – poi carrozziere e ora era diacono della chiesa cattolica. Testimoniavano delle sue passioni una sorta di altare con crocifissi e madonne proprio all’ingresso della carrozzeria e un paio di guantoni, appesi sopra la cassa. Giannello non era solo un carrozziere per moto; era il custode dell’anima estetica del motociclismo dagli anni ’70 ai ’90, data passata la quale l’elettronica e la plastica l’avevano ucciso. Il Diacono aveva dunque sentenziato che lo spirito della mia Ducati era giallo con striscia nera, ma non basta. Aveva anche trovato l’antro dove risiedeva: il serbatoio.

A guardarlo bene il mio era ammaccato e aggredito da qualcosa di peggio di un semplice principio di ruggine. Una scelta ragionevole sarebbe dunque stata quella di cambiarlo. Sia mai!

Il giorno dell’arrivo (foto I. Astolfi).

L’hai stretto tra le gambe e ti ha portato dove volevi andare” – mi aveva detto con la dolcezza senza pietà di un vero cattolico; la stessa delle suore divoratrici di rosari e di carne umana – “Le bozze gliele hai fatte tu e la ruggine è colpa tua che hai perso tempo… Ripariamo! Ripariamo!” La sentenza della Cassazione era stata emessa ponendo la parola “fine” su ogni mia possibile innovazione estetica, compresa quella di farla ancora arancione.

Aveva impiegato quasi due mesi a riportare parafanghi e serbatoio allo stato nativo e a purificarli da tutte le mie colpe. A me erano bastati invece dieci minuti e meno di cinquecento euro per ringraziarlo, infilare tutto in una scatola e portarli a Franco che in quanto appartenente a un diverso ordine monastico motociclistico non s’interessava di carrozzeria.

Nel suo eremo di lamiera ondulata, all’ombra di un olmo sempre più ingombrante e tenuto al sicuro da un’oca bisbetica, Franco aveva vivisezionato motore fino a svelarne i più reconditi misteri. Con raccapriccio aveva scoperto che qualche eretico incompetente, sperduto chissà dove tra Piemonte e Toscana, aveva montato getti sbagliati nel carburatore. Qualcun altro aveva sostituito la coppia conica con una non originale e molti altri misfatti di minor conto erano stati compiuti, giuro a mia insaputa. Era indubbio però che la mia moto avesse bisogno di un esorcismo che la mondasse d’ogni peccato.

L’officina di Franco, altro particolare (foto P.Capitini)

Dopo l’autopsia era stata finalmente identificata come una Ducati 450 scrambler prima serie, gialla e con serbatoio con riga nera, anche se il contagiri – orrore – non era originale come pure il fanalino posteriore che a prima vista non aveva nulla che non andasse.

Nei miei rari pellegrinaggi al monastero-officina, Franco aveva invano tentato di introdurmi alla mirabile geometria del monocilindrico creato dall’ingegner Taglioni; da parte mia avevo dovuto compiere non pochi sforzi per nascondere che di tutte quelle cose poco ne capivo. Ammetterlo sarebbe stato come professarsi luterano di fronte all’inquisizione spagnola: ad accendere il rogo ci vuole un attimo.

Confesso di avere una certa tendenza a non farmi gli affari miei e di essere molto affascinato dai percorsi che conducono le persone ad essere quello che sono. A ben guardare si scopre che sono sempre percorsi lastricati di emozioni, dove non si trova un metro di raziocinio neppure a cercarlo.

La mia Ducati scrambler 450 dopo la cura. A destra, sullo sfondo il tronco dell’olmo e l’ingresso dell’officina (foto P.Capitini)

Franco, ad esempio, era salito sulla sua prima moto più di cinquant’anni prima. Si era trattato di un residuato bellico – forse una Guzzi o una Gilera –  preso per andare al lavoro giù nella valle, a Fabriano. A quel tempo la città era entrata nella modernità grazie al cavalier Merloni che invece di un partito politico e di dar forza all’Italia, s’era inventato le lavatrici e i frigoriferi ARISTON.

Insieme alle secolari cartiere i fabrianesi avevano allora scoperto che si poteva vivere e guadagnare anche facendo l’operaio e non solo emigrando o spaccandosi gambe e schiena su per le colline tanto ripide da scoraggiare una capra. Con i primi stipendi Franco s’era quindi comprato una Ducati e da allora nel suo cuore il monocilindrico bolognese aveva sostituito il monoteismo. Col tempo era anche divenuto una sorta di gran sacerdote delle Ducati d’antan, conosciuto e venerato anche in altre province dell’Impero.

Adesso il risultato del suo lavoro se ne stava lì, sul cavalletto centrale, con un “AermacchiHarley Davidson” e una Ducati 350 Sport TS a farle da damigelle.

 “Sai, di motori ne ho fatti tanti, ma è la prima volta che restauro una moto tutta intera” mi aveva confessato a mezza voce. M’era venuto di rispondere: “E’ stupenda” un po’ perché sembrava davvero appena uscita dalla fabbrica e un po’ per non lasciargli alcun dubbio d’aver davvero compiuto un miracolo.

Ci sarebbe da cambiare la sella” – aveva aggiunto –  “ Questa è originale Ducati, ma questo modello montava…”. Con un gesto garbato lo avevo interrotto. “Va bene così. La sella resta”.

Come potevo spiegargli che su quella sella, proprio su quella, m’ero seduto per andare alla scuola ufficiali e per questo ero stato punito perché oltre ad essere senza casco ero anche senza berretto. Sulla stessa sella s’era seduta anche il mio Grande Amore, l’unica ragazza per la quale m’era venuto in mente di chiedere soldi a prestito per un anello con diamante, premessa di una vita normale così come a ventun’anni potevo immaginarmela. Sempre su quella sella m’ero fatto Torino-Ancona e ritorno senza casco e con la metà delle sfere dei cuscinetti bruciate; e poi le gite sul Cònero con lei che mi stringeva forte … insomma, la sella restava.

Sella dei ricordi (foto P.Capitini)

La metto in moto?” – avevo chiesto con timore. “E’ la tua! Che la voi guarda’ solo?” Il largo sorriso di Franco aveva poi sottolineato l’ovvio. Un motore è fatto per andare, vibrare, scaldare, perdere olio e borbottare al minimo. I quadri si guardano, le moto si guidano. Così dopo anni ho tirato l’alza-valvole, ho dato giusto un quarto d’acceleratore e trovato il punto morto del pistone via! Una botta decisa al pedale della messa in moto, sperando che non tornasse indietro spaccandomi un ginocchio. La mia Ducati s’è messa in moto con un borbottio familiare come il nitrito del proprio cavallo. Ci sono salito e senza casco, senza assicurazione e senza neppure la targa sono partito per un giro sulle colline. Dopo un paio di chilometri ci siamo riconosciuti. Mi veniva da ridere.

Trent’anni dopo il serbatoio e la sella erano gli stessi, come le vibrazioni, le marce al contrario e i freni alla spera-in-Dio. Confesso d’aver pregato nel miracolo di essere anche io lo stesso di allora, prima che trent’anni di vita militare mi trasformassero in quell’uomo che giorno per giorno stento a riconoscere. Per fortuna Max, l’amico di sempre, mi parlava con lo stesso tono di voce e rideva alle mie battute come aveva sempre fatto, concludendo con il suo solito “…ma vaffanculo!”

Anche Max, geologo, marito, impiantista, guida alle grotte di Frasassi e fine restauratore di auto e moto d’epoca è un tipo adriatico. Inizio a sperare di esserlo anche io.

“…Sulla strada esco solo…”

Michail Gorbačëv, (foto IL MESSAGGERO)

Due giorni fa, a 92 anni, se n’è andato Michail Gorbačëv, ultimo tra i re che regnarono su quell’impero di illusioni e crudeltà che fu l’URSS.

A Mickail toccò mettere la parola “FINE” su ciò che per milioni di persone aveva significato il sogno o la speranza di una società diversa e che per altrettanti milioni aveva voluto dire terrore, sangue e dolore mal raccontato. Dopo quella firma dell’URSS restò solo la polvere e, si sa, la polvere dei sogni non genera fiori, ma lacrime.

La notte di natale del 1991 la bandiera rossa scese per l’ultima volta dal pennone del Cremlino e tutto fu compiuto. Il resto del mondo, quello che si definiva “libero“, gongolò soddisfatto per la fine dell’impero dei sogni e del sangue. Provvide ben presto a rimpiazzare i primi avendo cura di continuare a far scorrere copioso il secondo.

Cosa siamo divenuti noi, uomini del mondo libero, senza più la paura di una rivoluzione, lontana ma possibile? Ognuno di noi ha una sua risposta.

Michail lo aveva intuito e forse avrebbe potuto e voluto fermare il treno, cambiare l’Impero, ma alla fine comprese che quando la storia inizia a respirare è inutile opporsi. Così firmò e la bandiera scese.

Michail Lermontov (1814 -1841)

In una bella intervista trasmessa da La 7, Gorbačëv, ricordando quei giorni, salutava infine recitando i versi di un poeta russo solo a me sconosciuto: Michail Lermontov. Lo faceva in russo, ma in mezzo a quei suoni sconosciuti s’intuiva distinto il chiocciare di chi voleva solo essere amato.

Come tutti.

La poesia s’intitola “Sulla strada esco solo”.

Sulla strada esco solo.
Nella nebbia è chiaro il cammino sassoso.
Calma è la notte.
Il deserto volge l’orecchio a Dio
E le stelle parlano tra loro.
Meraviglioso e solenne il cielo!
Dorme la terra in un azzurro nembo.
Cosa dunque mi turba e mi fa male?
Che cosa aspetto, che cosa rimpiango?
Nulla più aspetto dalla vita
E nulla rimpiango del passato,
cerco solo libertà e pace!
Vorrei abbandonarmi, addormentarmi!
Ma non nel freddo sonno della tomba.
Addormentarmi, con il cuore
Placato e il respiro sollevato.
E poi notte e dì sentire
La dolce voce dell’amore
Cantare carezzevole al mio orecchio
E sopra di me vedere sempre verde
Una bruna quercia piegarsi e stormire.

PAROLE CHE BAGNANO I PIEDI.

Castel Sant’Elia (Viterbo) presso il Giardino Sant’Heliae. Notte d’estate. foto p.Capitini

Me ne stavo seduto su una panca di tufo giallo, di quelle che hanno dentro i pezzi del vulcano che le partorì e ne conservano ancora il calore, specie nelle notti di estate. Accanto a me il tronco di un alloro, liscio, grigio e durissimo, mi dava appoggio. Non si toccano sovente i tronchi degli alberi, come si avesse paura a sentirli vivi mentre sollevano al cielo la loro ballerina di foglie leggere. Me ne stavo dunque lì, seduto sulla mia panca di tufo, sgranando uno spigo di lavanda, annusandomi di tanto in tanto le dita e aspettando.

 “Lei dunque … Ha perduto il treno?“…

Per un minuto, sa? Arrivo alla stazione, e me lo vedo scappare davanti.“…

Improvviso lo spettacolo era iniziato: senza sipario e senza applausi. Appoggiato al tronco del mio lauro, annusandomi le dita che sapevano di lavanda, attesi che le parole arrivassero a bagnarmi i piedi, come fanno le onde basse i primi giorni della villeggiatura, quando ancora non ci fidiamo del mare.

foto p.Capitini

I due attori se ne stavano seduti su un palcoscenico di due metri per tre, appoggiato ad una grande parete tagliata nel tufo da chissà quale fulmine. Sopra quel fazzoletto di legno, sbucciavano le parole di Pirandello offrendole a noi con delicatezza, come si usa con i bimbi. Era dal tempo del mio liceo, molti anni e sogni fa, che non ne assaggiavo più una.

L’uomo dal fiore in bocca sbucciò le ultime sue raccomandandomi di trovare il primo cespuglietto d’erba su la proda. E di contarne i fili per lui. Quanti fili saranno, tanti giorni ancora avrebbe vissuto. Prima che potessi promettergli che l’avrei senz’altro fatto un grosso pipistrello entrò in scena, ci sorvolò e se ne rientrò nel buio del bosco, dando appena il tempo al dottor Leandro Scoto di salire sul palco grande come una porta a reclamare la sua immortalità.

foto p.Capitini

L’ultimo chicco di lavanda cadde a terra. Mi chianai allora verso la siepe di rosmarino che separa la panca di tufo giallo dalla minuscola platea. Ne afferrai un rametto schiacciandone gli aghi con i polpastrelli. Adesso le mie dita sapevano di lavanda e di rosmarino e le parole dei personaggi anche. Già perché anche le parole hanno un profumo e un peso, una consistenza e un sapore. Quelle di Pirandello stasera sapevano di lavanda e rosmarino ed erano tiepide; tiepide come il tufo scaldato dal sole.

Salirono quindi il dottor d’Andrea , stanco giudice di una remota Pretura e con lui il signor Rosario Chiarchiaro che esigeva gli fosse rilasciata la patente di iettatore. Anche loro avevano parole che mi bagnavano i piedi.

Guardai alla mia sinistra, oltre la siepe e la linea lontana degli alberi, un venticello fresco e umido stava risalendo la forra. Tra le pale del fico d’india s’era appoggiata una luna rossa e tonda, come il tuorlo di un uovo. Il tempo di volgere di nuovo il capo e le parole erano finite. Erano forse rientrate nella valigia o s’erano nascoste tra i segni ordinati e domestici delle lettere che da bambino avevo imparato a conoscere. Povere parole, addormentate nelle righe dei libri.

Sul palco di questo minuscolo teatro, i due attori s’inchinarono e presero i loro applausi senza però spiegarci con quale trucco le avevano risvegliate.